11 Aprile 2024
Scienza

La «sindrome degli antenati»: una psicoanalisi “eretica” della famiglia – PierVittorio Formichetti

Ciò che viene taciuto nella prima generazione, la seconda lo porta nel suo corpo
(Françoise Dolto, psicoanalista francese)

Poche ore prima del naufragio del transatlantico Andrea Doria, alcuni residenti a Roma sognarono, la stessa notte del 26 luglio 1956, i loro parenti imbarcatisi che stavano affogando e chiedevano aiuto. Un anziano di 89 anni, relativamente giovanile, un giorno cade sulla scala mobile per la metropolitana, riporta un trauma cranico e, in un atteggiamentomolto insolito, supplica di lasciarlo morire. L’incidente avvenne il 26 ottobre, lo stesso giorno in cui 10 anni prima era morta sua moglie. Un’infermiera francese di 28 anni con un figlio di 4 anni ha un incidente con l’auto, sulla stessa strada dove suo padre aveva avuto un incidente con l’auto quando aveva 28 anni ed era insieme alla figlia, all’epoca di 4 anni. Roger, nato nel 1910, restò orfano a 6 anni e perciò lasciò la scuola elementare. Il figlio Pierre, nato nel 1935,ebbe un incidente a 6 anni mentre si recava a scuola all’inizio di ottobre. Suo figlio, Pierre junior, nato nel 1960, ha un incidente a 6 anni mentre si reca a scuola all’inizio di ottobre. Suo figlio Pierre III, nato nel 1990, ha un incidente a 6 anni mentre si reca a scuola a settembre. Jacqueline, poco tempo dopo la morte di sua figlia, ha avuto un incidente stradale: porta il “collare da colpo di frusta” per sostenere la testa. La bambina era nata con il cordone ombelicale avvolto intorno al collo: in conseguenza di ciò riportò danni al cervello e morì a 10 anni il giorno 24 aprile, data di commemorazione del genocidio degli Armeni. La figlia della sorella di Jacqueline è nata con un’ernia cerebrale: una parente dice che «il cervello le gocciola fuori dalla testa». Entrambi i genitori e una nonna di Jacqueline sono parrucchieri. I genitori sono originari di Beirut e la nonna è di origine turca: emigrarono in Francia per sfuggire al genocidio degli Armeni, durante il quale la nonna vide molte teste mozzate e impalate, tra cui quelle di sua madre e di due sorelle. Ora le sue figlie, facendo le parrucchiere,“curano” le teste. Soltanto la sorella di Jacqueline fa un altro mestiere, è anestesista e rianimatrice: anche lei argina il dolore e rimedia ai traumi.

Questi sono soltanto alcuni tra i numerosi casi di questo tipo, incontrati e studiati per decenni dalla psicoanalista e docente universitaria francese Anne Ancelin Schützenberger (Mosca, 1919-Parigi, 2018), autrice del libro La sindrome degli antenati (edito in italiano da Di Renzo Editore, 2003). In non pochi di essi è stata coinvolta personalmente. Durante una sua conferenza, una donna ebbe un aborto spontaneo dopo avere sentito un dolore «come un colpo di spada nelle reni». Soltanto durante l’attesa dell’ambulanza, ricordò cheil nonno di sua madre, «rastrellatore di trincee» durante la I guerra mondiale, uccideva colpendo alla schiena con la baionetta. L’anno successivo la donna ebbe un parto normale e un figlio sanissimo. Nathalie, bambina francese di 3 anni e mezzo, nata il 26 aprile, aveva frequenti incubi in cui soffriva di crisi respiratorie e vedeva una «bestia»; si svegliava piangendo di paura. Sua madre e l’Autrice provano a farle disegnare la «bestia» e questa risulta molto simile alle maschere antigas in uso nella I guerra mondiale, che ovviamente non aveva mai visto. Soltanto in seguito si scopre che un prozio di Nathalie fu vittima del gas nervino usato nella battaglia di Ypres il 25 e 26 aprile (stesso giorno di nascita di Nathalie) del 1915. Soltanto dopo che in famiglia si parla di ciò, la piccola Nathalie cessa di avere gli incubi. Marc, un francese che praticava sport con il deltaplano, nel mese di luglio, quando ha 32 anni, dimentica di allacciare un elemento del deltaplano, precipita e ora è sulla sedia a rotelle. Durante una seduta con l’Autrice, Marc ricorda che suo padre Jean, deportato in un lager durante la II guerra mondiale, nel mese di luglio, quando aveva 32 anni, dimenticò di attaccare un elemento del crogiolo nella fonderia in cui svolgeva i lavori forzati: la ghisa bollente si rovesciò sulle sue gambe e per le ustioni perse la possibilità di camminare, finendo sulla sedia a rotelle.

Una studentessa universitaria di Nizza doveva sottoporsi a un intervento chirurgico il 12 maggio. La data, decisa dall’ospedale, viene spostata dalla ragazza d’accordo con l’Autrice, e l’intervento va a buon fine. La studentessa sapeva che, andando indietro nel tempo, sua madre era morta di cancro il 12 maggio, il fratello di sua madre aveva subìto un incidente mortale il 12 maggio, sua nonna era morta di vecchiaia il 12 maggio, suo nonno era morto in un incidente il 12 maggio e un suo prozio, padrino del nonno, era stato ucciso in guerra il 12 maggio. Altri casi simili, citati dalla studiosa, riguardano personaggi della “grande” storia e della cultura. Nel XIX secolo, i figli e i nipoti dei reduci francesi della disastrosa Campagna di Russia intrapresa da Napoleone Bonaparte (1812), pur non avendo vissuto quella guerra, soffrivano di crisi d’angoscia nei giorni immediatamente precedenti l’anniversario della ritirata. Il bisnonno del poeta Arthur Rimbaud aveva abbandonato suo figlio quando aveva 6 anni; il padre di Rimbaud si arruolò nell’esercito quando suo figlio aveva 6 anni; Rimbaud a sua volta era sovente preso dalla smania di vagabondare. La scrittrice Simone de Beauvoir morì nella notte tra il 15 e il 16 aprile 1986, cioè nel 6° anniversario della morte del compagno di vita Jean Paul Sartre, morto il 15 aprile 1980. Un altro caso letterario, non citato dalla prof.ssa Schützenberger, è quello dell’austriaco Harro Meyrink, morto suicida nel 1932, figlio del famoso scrittore Gustav Meyrink, salvatosi in extremis dal suicidio nel 1891, grazie a un opuscolo che trattava di esoterismo e religione adocchiato all’ultimo momento (1). Ed esistono almeno due casi italiani simili. Nella famiglia Salgari, il primo suicidio fu quello di Emilio, il famoso autore dei romanzi su Sandokan, che si uccise in un bosco sulle colline torinesi; «proseguì Omar, il figlio, che si buttò da un balcone. Accanto ai due stanno Romeo, fratello di Omar, anch’egli suicida, e la madre, la moglie di Emilio, morta pazza. Il fratello Nadir, infine, si schiantò in macchina» (2). Più recentemente, Mario Monicelli, il celebre regista cinematografico, è morto suicida come suo padre.

Si tratta di pure coincidenze e ripetizioni casuali, o c’è qualcosa che “scorre” sotto vicende inquietanti come queste?È forse da esperienze simili, che le antiche civiltà trassero l’idea secondo cui le colpe degli antenati ricadonosui discendenti (sette generazioni secondo gli Ebrei; nove secondo gli Induisti; fino a undici secondo gli antichi Cinesi)? È per eventi come questi, che la maggior parte delle civiltà tradizionali prescrivevail rispetto per gli antenati, anche attraverso forme di culto?  La teoria di Anne Schützenberger, elaborata anche sulla scorta di precedenti studi di altri psicoanalisti, indica che esisterebbe una sorta di legge nascostache lega le generazioni a livello inconscio, che implica la loro appartenenza a una famiglia e a una genealogia, ma al tempo stesso supera in profondità la rete familiare e la linea genealogica, e non è spiegabile né con la pura coincidenza, nécon il rigido determinismo scientifico, che considera ereditario soltanto il patrimonio genetico (anche se un ramo della neurobiologia, l’epigenetica, studia proprio la trasmissione generazionale degli effetti dei traumi sulla formazione del carattere e sul comportamento). Quindi non sarebbe affatto sufficiente che a definire la categoria di famiglia siano soltanto le scienze sociali “canoniche” (antropologia culturale, sociologia, economia…),né -ancora meno -la politica e i mass-media, influenzati come sono da strumentalizzazioni ideologiche ben conosciute.

Normalmente,in famiglia, esiste una rappresentazione dei sentimenti e degli affetti, dunque un’elaborazione psichica. Ma quando un avvenimento riguardante questa sfera emotiva è considerato troppo precoce, traumatico o grave, da non poter essere rappresentato, diventa qualcosa di non elaborato, un non-detto, un rimosso, un indicibile, che però lascia tracce sensoriali, o psicosomatiche, o motorie. Queste tracce di traumi vissuti dagli antenati in circostanze spaventose (eventi collettivi: la battaglia di Verdun nella I guerra mondiale; il genocidio armeno; i maltrattamenti nei lager… – oppure individuali: una morte violenta, un incidente, un suicidio, uno stupro…)e ritenuti non raccontabili perché troppo terrificanti, sono assorbite inconsapevolmente dai discendenti come un’eredità involontaria. Il segreto vergognoso doveva riguardare qualcosa o qualcuno che per l’ego della persona che l’ha perduto era una presenza indispensabile, la perdita della quale ha ferito l’amore di sé. I traumi non detti, non metabolizzati, divenuti in seguito impensati, ma che sono comunque filtrati di generazione in generazione, si manifestano quindi in maniera psicosomatica, sotto forma di ricordi di traumi che non si sono mai vissuti, di incidenti o malattie che avvengono alla stessa età, nelle stesse circostanze o con modalità molto simili a quelle vissute dall’antenato, di dimenticanze o omissioni apparentemente involontarie, di incubi notturni ambientati in scenari sconosciuti all’individuo. In presenza di un tale segreto familiare, può capitare che una persona morta in circostanze drammatiche, vergognose o ingiuste si “ripresenti” nelle azioni di un discendente sotto forma di tic, atti compulsivi o sintomi ripetitivi, passati dall’inconscio di un genitore all’inconscio di un figlio. Due colleghi dell’Autrice, Nicholas Abraham e Maria Török, parlano di «fantasma nella cripta»; la cripta sarebbe, in metafora, un’area dell’inconscio del discendente che ospita, senza saperlo, il vissuto traumatico dell’antenato. L’Autrice riconosce alcune analogie tra questi fenomeni e la credenza esoterica ebraica nel «dibbuk», il «fantasma» di un antenato che s’impossessa provvisoriamente della personalità di un discendente per compiere attraverso di lui ciò che d’importante restò in sospeso durante la sua vita terrena. Ma sul modo in cui avviene la trasmissione, e sul perché essa avvenga, al momento attuale si possono soltanto formulare ipotesi.

In questi casi è come se un inconscio collettivo familiare – definito variamente da alcuni psicoanalisti: «co-inconscio familiare» (Jacob Levi Moreno); «lealtà familiare invisibile» (Ivan Boszormenyi-Nagy)… – pretendesse che qualcuno nella famiglia “saldi il conto” con le generazioni rimediando alla frattura nei rapporti interpersonali causata dal trauma e dalla sua rimozione. L’inconscio genealogico si comporterebbe come se avesse buona memoria e tenesse a ricordare i fatti e a «sancire il dramma», ma senza dichiararlo né spiegarlo. Ma a sua volta, il modo in cui l’inconscio genealogico sottolinea gli avvenimenti, “attirando l’attenzione” su di essi, dipende anche da come la famiglia interpreta e comprende ciò che viene trasmesso, e di conseguenza da come essa reagisce. Quando il conflitto tra l’esigenza di superare la ferita emotiva e il desiderio di continuare a nasconderla si fa troppo acuto, possono insorgere disturbi psichici e fisici (psicosomatici) nella persona ferita o in un suo discendente. Se invece in famiglia il dolore/il segreto/il trauma sono espressi e rielaborati, c’è molta meno possibilità che diano luogo a ripetizioni inconsce del vissuto nei discendenti. Secondo la prof.ssa Schützenberger, quindi, segli psicoterapeuti curano un individuo senza conoscere l’eventuale presenza e il senso delle ripetizioni intergenerazionali, la terapia potrebbe produrre un miglioramento soltanto provvisorio.
L’Autrice ne ha parlato anche a “Voyager” su Rai 2:
http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-7a3b81e1-3daf-4463-b497-ba0f4fab3dd0.html

Note:

1 – Gustav Meyrink, Il Golem e altri racconti, Roma, Newton & Compton, 1994, pp. 33-34;

2 – Luca Bistolfi, Torino: record di suicidi e follie, in “Torino Cronaca”, 18 marzo 2006.

Piervittorio Formichetti

 

 

2 Comments

  • Gaetano Barbella 27 Maggio 2018

    Tenendo per buona la definizione di alcuni psicoanalisti citati nell’articolo a commento, come «co-inconscio familiare» o «lealtà familiare invisibile» (un termine vale l’altro), in altro modo ‒ mettiamo ‒ potremmo vederlo come una sorta di «sequestratore» che prende in ostaggio il soggetto appartenente alla sua famiglia, obbligandolo al “saldare il conto” in questione. Questo stato comincia a delinearsi sin dalla sua nascita, tanto da creare paradossalmente un clima di convivenza tale da predisporlo ad accettare per forza di cose il sacrificio cui va incontro per la rimozione atavica in sospeso.
    A questo punto la psicoanalisi potrebbe rivedere le cose in esame facendo entrare in gioco un’altra «sindrome», quella cosiddetta di «Stoccolma».
    Con l’espressione «sindrome di Stoccolma», come si sa, si intende un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica. Il soggetto affetto dalla Sindrome di Stoccolma, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice. Di qui la predisposizione rassegnata per arrivare al giorno per pagamento del “debito”, quasi d’onore.
    Cordialità,
    Gaetano Barbella

  • Gaetano Barbella 27 Maggio 2018

    Tenendo per buona la definizione di alcuni psicoanalisti citati nell’articolo a commento, come «co-inconscio familiare» o «lealtà familiare invisibile» (un termine vale l’altro), in altro modo ‒ mettiamo ‒ potremmo vederlo come una sorta di «sequestratore» che prende in ostaggio il soggetto appartenente alla sua famiglia, obbligandolo al “saldare il conto” in questione. Questo stato comincia a delinearsi sin dalla sua nascita, tanto da creare paradossalmente un clima di convivenza tale da predisporlo ad accettare per forza di cose il sacrificio cui va incontro per la rimozione atavica in sospeso.
    A questo punto la psicoanalisi potrebbe rivedere le cose in esame facendo entrare in gioco un’altra «sindrome», quella cosiddetta di «Stoccolma».
    Con l’espressione «sindrome di Stoccolma», come si sa, si intende un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica. Il soggetto affetto dalla Sindrome di Stoccolma, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice. Di qui la predisposizione rassegnata per arrivare al giorno per pagamento del “debito”, quasi d’onore.
    Cordialità,
    Gaetano Barbella

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