11 Maggio 2024
Filosofia

La sapienza e il sacro – Marco Calzoli

“L’ignoranza a proposito del Padre produsse angoscia e terrore. L’angoscia divenne densa come nebbia, tanto che nessuno poteva vedere. Per questo motivo l’Errore divenne potente: plasmò la sua sostanza con il vuoto, ignorando la verità, e prese dimora in una finzione, creando con bell’artificio qualcosa che sostituisse la verità”.

 

Si tratta di un brano del Vangelo della Verità di Valentino, un testo gnostico in copto del II secolo ritrovato tra i manoscritti di Nag Hammadi.

Quando percepiamo e ragioniamo tutti siamo nell’errore. La percezione non è la realtà, ma una costruzione soggettiva. Ciò che vediamo è la nostra mente perché ciò che sta al di là di noi è per noi inconcepibile. Percepiamo non l’oggetto ma abbiamo la sua memoria dentro di noi. Se crediamo di vedere un oggetto davanti a noi, soffriamo di una “patologia dell’epistemologia” (Bateson). Non c’è l’oggetto ma il prodotto dei nostri sistemi percettivi e delle vie neurali fino alla corteccia ove risiede la consapevolezza.

 Il pensiero buddhista sembra negare la sussistenza degli oggetti esterni. C’è un fenomeno, cioè un dato che ci appare ai sensi, ma non c’è una realtà sussistente in sé che giustifica quel fenomeno percettivo. Ci appare una “mucca”, ma tale fenomeno esiste solo nella nostra mente, non c’è un referente esterno svincolato dalla nostra mente. Pertanto quando parliamo il significante (il suono “mucca”) non è collegato a una realtà esterna (la realtà della mucca). Diciamo la parola “mucca” e i parlanti si capiscono perché hanno in mente l’idea della mucca, una rappresentazione (ākāra) di come sia una mucca. Ma dato che non esiste nessuna mucca, la comunicazione è semplicemente ipotetica (vikalpa) e non può dire nulla di vero.

 I discorsi razionali si fondano su questa percezione illusoria, e da essa i discorsi razionali si sono formati sin da quando eravamo bambini. Quindi ogni persona, nel ragionare in un certo modo, ha le sue ragioni che dipendono da tutta la storia passata della quale gli altri non sanno nulla, ma ciò non significa che siano veri.

 A questo punto la Verità è una intuizione metafisica assoluta, che va al di là sia della percezione sia dei discorsi razionali. Ma tra errore e Verità ci sono molte cose. Quindi l’uomo non può dire: Non posso sapere nulla di assoluto, pertanto sono infelice. La vita dell’uomo non è fatta soltanto di Verità, ma anche di piacere. Il piacere però non va inteso in senso assoluto, cosa che offuscherebbe la Verità, ma come mezzo di sussistenza e di utilità.

 Smith arrivò a postulare che il lavoro è ciò da cui ogni nazione trae tutte le cose necessarie e comode della vita[1]. Per questo il lavoro è un piccolo sforzo che le persone accettano pur di ricevere vantaggi: allora non può esistere disoccupazione involontaria, dato che il lavoro è un mezzo prezioso per ottenere ciò che vogliamo[2].

 L’intero patrimonio culturale greco, romano e dell’umanesimo si basa sullo sforzo individuale per ottenere dei vantaggi, a cui si oppone il collettivismo.[3]

 L’errore del piacere starebbe se esso monopolizzerebbe tutte le attività per essere fine a sé stesso. Questa è l’aspirazione dell’Io. Ma la nostra Verità interiore (Sé) controbilancia le spinte egoistiche e lavora inconsciamente per fare in modo che il piacere sia subordinato ai veri valori.

 Facciamo questo esempio. Ci innamoriamo del partner. Sappiamo benissimo cosa sia l’amore, sentiamo battere il cuore, pensiamo sempre alla nostra metà, vogliamo stare con lei. Questa è una Verità intuitiva che però non possiamo cogliere con la ragione. Non ci sono formule matematiche che dicano quello che stiamo provando quando siamo innamorati né i filosofi hanno concetti così potenti e universali per giustificare razionalmente quella esperienza.

 Abbiamo da una parte la Verità intuitiva sentita dal nostro Sé e dall’altra la pochezza della ragione discorsiva del nostro Io. Il piacere, i beni, il denaro non devono essere un valore assoluto ma a servizio di questa Verità, di questo amore. Non dobbiamo esaltare il possesso di una abitazione solo per il gusto di possederla, ma considerarla lo strumento mediante il quale questo amore si sviluppa nella realtà, farne l’alcova del progetto amoroso.

 Secondo una concezione vedica esiste sia la verità delle parole vere sia la verità della menzogna. “Sicché la verità tutta intera è quella che include la menzogna, ma che la include in modo da seppellirla. Quando le si concede di accedere al dire, la menzogna non è altro che menzogna. Ma finché le si pone la diga del divieto, finché le si impedisce di riversarsi nella parola e di avvelenarla al punto da renderla sterile, la menzogna è una riserva che trae oscuramente la propria forza fecondante dal fatto di non affrontare né la prova della corrispondenza esatta con le cose né quella della comunicazione”.[4] È questa la forza delle false verità della ragione discorsiva?

 Sesto Empirico (Lineamenti pirroniani I, 1-4): “Per coloro che indagano una qualche questione è verosimile vi sia come conseguenza o la scoperta o la negazione della scoperta e l’ammissione di incomprensibilità oppure la perseveranza nell’indagine. Per questo motivo, probabilmente, anche presso coloro che indagano in ambito filosofico alcuni affermarono di aver

trovato il vero, altri dichiararono non esser possibile comprenderlo, altri lo cercano ancora. E sembrano averlo trovato coloro che sono

detti propriamente dogmatici, come ad esempio Aristotele ed Epicuro e gli Stoici e alcuni altri; intorno alle cose incomprensibili si pronunciarono invece Clitomaco e Carneade e altri Accademici, mentre gli Scettici proseguono la loro indagine. A ragione, dunque, le fondamentali filosofie sembrano essere tre: dogmatica, accademica, scettica”.

 Il vero deve essere cercato sì ma con altri strumenti. Gli strumenti razionali vanno abbandonati. Eraclito: “Nessuno di tutti coloro di cui ho sentito i discorsi giunge a riconoscere che la sapienza è ben distinta da tutte le altre cose, oti sophòn esti pantōn kechōrismenon” (fr. 108 DK).

 A questo punto il vero si rivela come una emozione, che come tale non va spiegata, altrimenti non sarebbe più tale. Il vero è la sensazione di quell’amore universale che lega tutte le cose. È il senso del nostro esistere, che tutti noi più o meno abbiamo, ma che non possiamo dimostrarlo con una formula matematica, un esperimento scientifico né con una affermazione filosofica.

 Il filosofo medioplatonico Albino (Prologo V) diceva che per filosofare occorre avere queste disposizioni:

 

  1. Buona inclinazione naturale;
  2. Età giusta;
  3. Il giusto scopo;
  4. Livello avanzato di conoscenze;
  5. Esistenza libera dagli impegni.

 

Il filosofo neoplatonico Salustio (Sugli dei e il mondo I, 1) diceva che per filosofare occorre:

 

  1. Essere stati ben allevati sin da fanciulli, senza essere cresciuti in mezzo a stolte opinioni;
  2. Essere buoni e assennati per natura;
  3. Conoscere le nozioni comuni.

 

 Ma tutto il ragionamento basato su causa ed effetto, sulla logica discorsiva, sulle parole deve essere abbandonato. È preparatorio per capire che ogni discorso è vano, perché, come diceva Nietzsche, “ogni causa efficiente riposa in ultima analisi su qualcosa di imperscrutabile”.[5] Alla fine, dopo anni di studio, bisogna ammettere con Socrate: “Una sola cosa so: di non sapere”.

 Il vero ha quindi a che fare con la sfera del divino, riguardo la quale le parole non possono dire granché. Il vero è la intuizione che unisce in una unica identità noi e il mondo. Sta oltre i concetti razionali e le parole. Il vero è la virtù della gioia, che non ha a che fare con i vani sproloqui dei filosofi, ma con l’arte di ben vivere.

 Allora non stupisce sapere che per la concezione greca la divinità era non una persona ma qualcosa che accade. Euripide, Elena 560: thòs gar kai to gignōskein philous, “è dio il riconoscere gli amati”. Gli dei olimpici con nome e forma maschile o femminile erano allegorie di fenomeni naturali e di fenomeni spirituali. Nell’antica Grecia una divinità si confondeva con la città stessa tanto che per conquistare un territorio, prima di aggiogare con le armi la popolazione, si rapivano le immagini sacre, custodite nel tempio principale e che solo il sacerdote poteva vedere, pena follia e morte. Le immagini sacre erano la cosa più preziosa di una comunità, in cui era insito il vero potere della stessa. Quindi rapirle equivaleva a togliere potere e a farlo acquistare al nemico. A Roma la cosa era mediata dal nome, che era conservato segretamente (a Nietzsche pareva che la divinità segreta di Roma fosse Flora). [6]

 Il sacro non è mai limitato ad un corpo. Può apparire con un corpo, ma non è incapsulato in quel corpo. Il sacro è una energia libera che costruisce il mondo.

 L’opera d’arte ha sempre a che fare con il sacro. Supera il limite che gli dei assegnano agli uomini e attinge l’essenza stessa di tutto ciò che esiste. “La capanna di Eumeo è il secondo luogo dove nasce la narrativa occidentale: la seconda Feacia. Là c’erano i cani e i giovani d’oro e d’argento di Efesto, i muri di bronzo e un chiarore come di sole e di luna: qui ci sono lo steccato dei porci, le stalle delle scrofe, autentici cani, e la carne di maiale che brucia sul fuoco. Quella era la sede del racconto fantastico, a cui si sono ispirate le storie più celebri delle Mille e una notte, Potocki, Hoffmann e Poe. Questa è la sede del racconto di avventura, da cui discendono i romanzi ellenistici e quelli di Alexandre Dumas e di Stevenson, con i viaggi, le peripezie, i pirati e i tesori. Sia gli uni che gli altri racconti vengono narrati in una notte ‘incommensurabile’, che non sta nei limiti di ciò che è fissato dagli dei; e suscitano la stessa eco”[7].

 Eraclito avvertiva che il dio non dice ma allude (fr. 93 DK). Gli oracoli erano oscuri perché la divinità era in sé criptica. Quando gli uomini avevano un contatto più immediato con gli dei, cioè agli inizi della loro storia, le parole erano spesso ambigue, doppie, con più significati, con polisemie spesso intraducibili nelle lingue moderne. Lo vediamo ancora in Eraclito, che voleva imitare l’oracolo di Delfi. Lo vediamo anche nelle parole dell’indoeuropeo, del vedico, e persino dell’ebraico biblico.

 Nulla vieta di pensare che all’origine di questa libertà dei significati vi fosse una attenzione particolare al sacro. Nella tragedia greca, rappresentata in onore del dio Dioniso, ci sono spesso giochi di parole simili. Facciamo questo esempio. Sofocle (Trachinie 618-619): … an ē charis keinou te soi/kamou xunelthousa ex aplēs diplē phanēi, “il favore (ē charis) si assommi per te da lui e da me: da unico (sia) doppio …”. Qui Sofocle fa un gioco di parole con i genitivi keinou, “di lui”, e kamou, cioè kai emou, “e di me”. Sono genitivi soggettivi: il favore di lui e di me a te concesso. Ma xunelthousa sta vicino al complemento di provenienza ex + genitivo: questo assegna ai primi due genitivi (keinou, kamou) anche un valore di provenienza. Quindi qui Sofocle gioca sintatticamente in maniera ambigua[8].

 

NOTE

 

[1] A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Milano 2008.

[2] J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Milano 2019. I lavoratori accettano un salario che per loro equivale alla quantità di lavoro offerta. Allora la disoccupazione può esserci solo se i salariati rifiutano questo rapporto sul quale si basa l’economia liberale. Pertanto non può esserci disoccupazione involontaria.

[3] F. von Hayek, La via della schiavitù, Soveria Mannelli 2011.

[4] C. Malamoud, Femminilità della Parola, Roma 2008.

[5] F. Nietzsche, Appunti Filosofici 1867-1869 – Omero e la filologia classica, Milano 1993, Quaderno P I 8, 40.

[6] F. Nietzsche, Il servizio divino dei Greci, Milano 2012.

[7] P. Citati, La mente colorata, Milano 2002.

[8] O. Longo, Commento linguistico alle Trachinie di Sofocle, Padova 1968.

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