13 Aprile 2024
Brasillach Celine Drieu La Rochelle Punte di Freccia Valle Giulia

La lunga marcia del ’68 – da Valle Giulia a piazza San Giovanni

di Mario M. Merlino


Drieu la Rochelleinvitava l’intellettuale a collocarsi là dove non vi è arrivato ancora nessuno. Una sorta di apripista in un territorio infido sconosciuto predisposto ad ogni insidia. Come nei romanzi di Emilio Salgari dove il battitore che stana la tigre è, sovente, il primo ad esserne sbranato. E, ma credo che si sia già usata questa similitudine, il rimando doveroso è al funambolo dello Zarathustra. Non solo, del resto, ciò impegna colui che va, attraverso la parola, a costruire nuovi scenari. Il passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto può aprirsi al rischio dell’abisso o, per dirla con i miei ‘amici’ filosofi, trovarsi davanti il nulla invece dell’essere. Martin Heidegger intitola Sentieri interrotti una raccolta di saggi, Holzwege (‘Holz è un’antica parola per dire bosco. Nel bosco ci sono sentieri che, sovente ricoperti di erbe, si interrompono improvvisamente nel fitto’, come lo stesso filosofo ci spiega). E siamo, allora, costretti a deviare il percorso per raggiungere la radura o uscire dal bosco stesso se non vogliamo perderci in esso.

Era mia intenzione prendere le mosse dall’affermazione di Drieu  per introdurre quanto, suppongo, andrò a illustrare al convegno dal titolo ‘La lunga marcia del ’68 – da Valle Giulia a piazza San Giovanni’ dove, invitato a tenere una relazione, l’ho intitolata ‘Anarcofascismo nella cultura di destra’ (e i francesi, quali Drieu la Rochelle e Robert Brasillach e Louis Ferdinand Céline ci sguazzano comodamente, e non solo loro anche se non a tutti si può applicare la definizione a me cara). Forse ai lettori di Ereticamente potrebbe interessare di più rispetto alle divagazioni che, al contrario, mi accingo a scrivere. Appunto deviato nell’errare di qua e di là (sempre Heidegger: ‘Wer gross denkt muss gross irren’. E, va da sé, questo mi consola giustifica gratifica)…
Una domenica d’inverno – il termometro è sceso abbondantemente sotto zero – prendo il tram fino al capolinea, all’estrema periferia. Da qui parte una strada asfaltata che, con ampie curve, sale in cima al monte Taunus. In effetti si tratta di un rilievo montuoso, il Grosser Feldberg non raggiunge i 900 metri, che si estende ad est del Reno e raggiunge il basso corso del Meno. In automobile è una passeggiata e, nel piazzale in alto, vi è una Gaststaette in legno, modello baita alpina, con la birra di Francoforte, la Binding, panini imbottiti di wuerstel caldi caffè con tanta panna e fette di torta alla crema di burro. Vi sono anche diversi sentieri nel bosco, contrassegnati da cerchi o quadrati bianchi e rossi su pietre e tronchi. E’ mattina presto, umida e nebbiosa. Gli scarponi affondano nel terreno reso scivoloso dalla pioggia, da strati di foglie marce. Qua e là macchie di neve. C’è una atmosfera da fiaba, di gnomi nascosti in qualche anfratto e di elfi addormentati in attesa di ridestarsi con la natura in primavera. Ritrovo il gusto del camminare, della solitudine, della montagna. Fa parte della mia pelle. L’animo si spaura e, al contempo, respira la presenza del mistero nel silenzio, rotto solo dal vento sibilante tra i rami. Non dico di Dio che, come avvertiva Drieu la Rochelle, rimanda a figure antropomorfe, a debolezze e bisogni umani troppo fragili e precari. Ci si sente svincolati da ogni forma di razionalità da ogni elaborata riflessione, in uno stato di identificazione elementare e immediata con le cose, manifestazione di energia e musica e colori di una Totalità (o Nientità che sia) ben oltre ogni sforzo di trovarle un nome.
Ho sfogliato di recente Tibet ignoto di Giuseppe Tucci fra i più illustri e stimati conoscitori della cultura indiana e, nello specifico, di quella tibetana. Giovanni Gentile lo volle alla guida del costituitosi Istituto di studi del medio ed estremo oriente. Trovo scritto: ‘L’uomo… è soprattutto l’immenso tumulto dell’irrazionale da cui salgono improvvise le fantasie e le immaginazioni, dove egli ritrova se stesso e abbraccia l’infinito…’ (Poco più che adolescente accompagnai, in un pomeriggio di tarda primavera, mia zia Ada al Colle Oppio, che voleva presentarmi un anziano professore, secondo lei un po’ strampalato con tutte le storie che raccontava di viaggi in Oriente. Era appunto Giuseppe Tucci che portava a spasso una coppia di aristocratici levrieri afghani. Un giorno volle mostrarci la sua abitazione all’interno di palazzo Brancaccio, sede dell’ISMEO e del relativo museo. Una sorta di museo, essa stessa, con oggetti sparsi, frutto dei suoi innumerevoli viaggi in Tibet negli anni Trenta. Allora poco ne capivo e poco erano capaci di destare la mia curiosità. Gli occhi, però, hanno la straordinaria capacità di raccogliere e proteggere, attraverso oscure e insondabili vie, i tesori per il tempo a venire…).
Comincio a salire, un’ora, forse due, il fiato si addensa in piccole forme grigie e disperse nell’aria, le gambe si fanno pesanti, mi perdo fra alberi rugosi e cespugli invadenti. Anche la vista si appanna con gli occhiali che trasudano umidità. Ho voglia di darmi dello ‘stronzo’, brutto segno, sto forse andando in paranoia? Mi fermo, regolo il respiro, ritrovo il giusto equilibrio… Mi trovo a fianco un vecchio signore dal cappello a visiera, feldgrau. Comparso all’improvviso, silenzioso, ad ispirare immediato calore, fiducia. Egli conosce con passo sicuro il percorso, m’accompagna fino al limitare del bosco. Mi giro per ringraziarlo. Se n’è andato svanito nel gioco delle ombre, nel grigiore di una domenica d’inverno. Dopo una sosta, un panino, ridisce
ndo costeggiando, questa volta, la strada.

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