di Mario M. Merlino
Raccontava sempre mio padre uno di quegli aneddoti, che tanto ci tenevano attenti, le mie sorelle ed io, a tavola (suppongo anche per distrarci dal piatto scarso negli anni dell’immediato dopoguerra) e che ci hanno, credo, condizionato a divenire, tre di noi, insegnanti oltre che roditori di ogni genere di libri. Egli si soffermava sovente sul Risorgimento, da liberale e monarchico, fiero della sua origine piemontese, mai però ottuso e precluso alle altre esperienze, ad esempio, quella mazziniana, avverse ai Savoia e Cavour. Raccontava di Giuseppe Garibaldi, bambino, e di come fosse scoppiato in pianto dopo che s’era divertito, inconsapevole, a strappare le ali a una libellula.
Forse per questo ho sempre preferito al volo maestoso degli uccelli da preda e, ancor più, allo starnazzare delle oche nel cortile quel passerotto ferito, caduto giù dal pino selvatico, nella nostra casa di Romagna, e che raccolsi fra le mie mani ove trovò conforto e, reclinando il capo, sua fine. E, in queste prime ore del mattino – il cielo è ancora scuro e la tazza di tè, accanto al computer, fuma pigra, espandendo aroma di vaniglia e di miele al rododendro – mi vengono a mente dei versi di Robert Brasillach, scritti il 29 marzo del 1934:
‘Ancora un istante di felicità…/ Trattieni il tempo, la sabbia, il passerotto dal piumaggio/ morbido e arruffato tra le tue mani sicure, le tue mani d’angelo,/ ancora un istante di felicità…/ Il sole scivola sull’acqua e fugge tra il fogliame,/ ancora un istante per te solo,/ in attesa della notte’ (poesia inedita e, dunque, plaudite alla mia traduzione e lirica resa!).
E la ricerca della felicità, qui come altrove, egli l’esprime e la vive negli stati interiori, ‘nell’eminente dignità del provvisorio’, della sua giovinezza trasognata inquieta irrequieta ricca di promesse e di speranze, certo resasi illusione, tragico inganno, se all’età di trentacinque anni, legato al palo dei condannati a morte, vede avanti a sé dodici bocche da fuoco, assetate del suo sangue, di quel plotone d’esecuzione, il 6 febbraio del ’45, schierato nel forte di Montrouge. Quel tipo di felicità, l’unica da perseguire, contro quella che venne sancita al momento della nascita degli Stati Uniti d’America e che, nel corso del tempo e in questo malo presente, hanno preteso di imporre nel mondo con le bombe e la coca-cola…
Le ali strappate alla libellula e il pianto del giovane Garibaldi, dunque, rappresentano un buon viatico (del resto, mi suggeriva un amico al tempo dei bastoni e delle barricate come avremmo trovato la strada, la nostra scelta di campo, anche su libri dalle pagine bianche) per stabilire che c’è un solo Fascismo possibile, ‘immenso e rosso’ ( e questa definizione di Brasillach diviene – e non casualmente – il titolo di uno scritto di Giano Accame, attento studioso di un ‘socialismo tricolore’). Tutto il resto cade nel contingente nel compromesso nella prigionia di altro da noi. Non è mia intenzione arrogarmi il potere di detenere la formula unica e magica, che il mio antenato mi suggerisce dalla ‘caverna di cristallo’. Però, mi chiedo e vi chiedo, che ce ne facciamo del rischio della sfida dell’avventura del sognare ad occhi aperti e di una Idea, pur misero straccio di seta, di quel cercare sempre nuove linee di confine da travalicare, come ci impongono la mente il cuore e le gambe, se ci lasciamo ingabbiare nell’aurea prigione della ‘cultura’ borghese?
Woody Allen ironizzava ‘Dio è morto, Marx è morto ed io non mi sento troppo bene’ (certo, lo so, senza vitelli d’oro a cui prostrarsi l’esistenza si rende fragile e difficile. Non è colpa mia se gli dei si sono ritirati nel folto dei boschi o fra impervi speroni di roccia, lasciandoci ‘soli e vivi’, come poetava Cesare Pavese. Non mi resta che prenderne atto senza bisogno di misurarmi la temperatura prendere un’aspirina e mettermi sotto le coperte). E, poi, Drieu la Rochelle , con ben più forti accenti e intimo sentire, ci aveva ammonito di costruire ‘la torre della nostra/ disperazione e del nostro orgoglio’… e noi ci attenemmo fin da quella mattina, all’università, quando agli ingressi di piazzale della Minerva ne distribuimmo i versi in un volantino al tenue colore rosa.
In tante parti del mondo c’è chi strappa ali alle libellule e, a differenza di Garibaldi, non se ne pente; in tante parti del mondo c’è chi tenta di dare al passerotto il calore delle proprie mani. ‘La mia patria è là dove si combatte per le mie idee’… e le nostre idee trovano salde radici e linfa vitale in quel coacervo di forze raccolte nell’allora ‘Italia proletaria e fascista’…
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