10 Aprile 2024
Tradizione

La filosofia decadente dell’Ulisse dantesco e i suoi ammonimenti all’uomo moderno – Jari Padoan

I temi più caratteristici e famosi del XXVI canto dell’Inferno dantesco, e i significati che la figura magistrale del suo Ulisse reca con sé, sono in realtà anche i più fraintesi, o almeno quelli la cui comprensione è spesso alquanto approssimata. Notoriamente, questi concetti centrali del canto sono: l’evidente peccato di frode commesso da Ulisse che giustifica la sua presenza nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio (ma è appunto il caso di approfondire per quale frode, in particolare, l’eroe greco si sia assicurato la dannazione eterna); l’altrettanto evidente atto di “superbia” dell’attraversamento delle Colonne d’Ercole; e, in diretta e stretta relazione con tutto ciò, la celeberrima e proverbiale «orazion picciola», questo breve proclama, se non un vero e proprio “manifesto” improvvisato da Ulisse per persuadere i fedeli compagni a lanciarsi oltre il limite estremo del mondo conosciuto, nell’ultima avventura che non avrà il successo sperato. Questi punti, come si vedrà $1000 cash loan online, si rivelano latori di precise questioni etico-filosofiche particolarmente care al Dante poeta e uomo, questioni che si deve tentare di decifrare e approfondire per poter comprendere appieno questo indimenticabile episodio del poema.

È molto importante delineare su quali basi e quali ispirazioni l’Alighieri abbia modellato questa sua personale re-invenzione fantastica non solo della figura di Ulisse, ma anche del contesto al quale questo personaggio archetipico dell’immaginario occidentale è da sempre inestricabilmente legato: il suo viaggio, o meglio la sua navigazione, verso l’ignoto. Consideriamo intanto che è regola costante nell’opera del Dante poeta, e in particolare nello scrittore della Divina Commedia, quella di elaborare le proprie invenzioni poetiche sulla base di una o più auctoritates della tradizione letteraria (nonché, ovviamente, filosofica o religiosa), per poi riservarsi un largo margine di libertà nell’integrare e ricomporre i vari elementi e le varie fonti, in un procedimento del tutto normale e naturale per ogni grande Autore. Notoriamente il codice poetico dantesco va infatti ricercato nei grandi poeti latini come Virgilio, Orazio, Stazio (del quale Dante, oltre a mantenere come opere di riferimento l’Achilleide e la Tebaide, farà un importante personaggio nel Purgatorio) e Ovidio, le cui Metamorfosi rappresentano una inesauribile enciclopedia di mitologia classica e in particolare greca, sulla quale verranno modellate proprio le immagini mitologiche rievocate nella Commedia. Vari studiosi che si sono occupati del XXVI canto (ad esempio il dantista inglese Edward Moore, autore di importanti studi risalenti a inizio Novecento) hanno quindi individuato con un buon margine di probabilità in questi e in altri fondamentali autori le fonti alle quali Dante può avere attinto per la sua personale ricostruzione del personaggio di Ulisse. Ma, risalendo alle lontane origini della questione, è noto che il topos del viaggio del Laerziade attraverso l’Oceano fino ai più remoti confini del mondo è presente già nell’Odissea omerica, e si tratta anzi di un elemento-chiave nella struttura e nella trama del poema: fin dall’apertura del primo libro si sa che l’eroe è ospite da ben sette anni presso Calipso, nella leggendaria isola di Ogigia, ubicata, a quanto si desume, nel mare aperto aldilà dello stretto di Gibilterra e definita come l’«ombelico» o il centro del mare.[I] Ma il fascino della figura di Ulisse, che per la tradizione classica è per antonomasia quella del viaggiatore ai confini del mondo –oltre che del guerriero sagace, astuto e potenzialmente fraudolento, come vedremo tra poco– si radicherà ben oltre la cultura dell’Ellade antica.

Il tema dei viaggi dell’eroe aldilà delle Colonne d’Ercole prima, dopo o invece del ritorno ad Itaca, che in questo modo riconferma il suo essere il grande simbolo dell’esplorazione dell’ignoto, viene infatti ripreso (o meglio, spesso perlopiù accennato, senza in realtà trovare una autentica codificazione attraverso un’opera definita) da numerosi fonti nella letteratura latina, e anzi da alcuni tra i suoi massimi esponenti. Proprio a cominciare dal succitato Ovidio, che rievoca in più punti delle sue opere l’aneddoto di Ulisse che non torna più all’isola natia ma riprende imperterrito le sue peregrinazioni marine, dimostrando ben poco riguardo nei confronti della straziata Penelope.[II] Segue Orazio che, in una sua epistola all’amico Massimo Lollio, non lesina di lodare Ulisse come esemplare figura eroica votata ad esplorare l’inconsueto, ricordando: «Quid virtus et sapientia possit utile proposuit nobis exemplar Ulixen, qui domitor Troiae multorum providus urbes, et mores hominum inspexit latumque per aequor». Oltre al passo oraziano, in cui si nota l’espressione «virtus et sapientia» che non può che ricordare direttamente il «virtute e canoscenza» del canto dantesco, vanno ricordati due passi di Lucio Anneo Seneca. Nell’Epistola LXXXXVIII ad Lucilium, il filosofo accenna a un possibile viaggio di Ulisse «extra notus nobis orbem», mentre nel De constantia sapientis l’eroe viene annoverato tra gli uomini che, in linea con la visione dello stoicismo romano, sopportano con pazienza e fierezza le avversità del Fato ineluttabile. Si ha inoltre un passo nel De finibus di Cicerone molto importante in questo senso, in cui il viaggiare di Ulisse è esaltato e interpretato come manifestazione di una ardente bramosia di scoprire, per la quale egli preferisce le avventure e i pericoli dell’errare per terre e mari anziché «Regnare et Ithacae vivere otiose cum parentibus, cum uxore, cum filio» (e anche in questo caso pare di leggere un evidente e diretto modello per i versi del XXVI canto).

Si potrebbero aggiungere molti altri riferimenti al tema, ad esempio da parte di Plinio il Vecchio, del geografo Giulio Solino e in opere poetiche come le Elegie di Properzio o le Fabulae di Iginio. Nella tarda antichità il tema è accennato nei Saturnalia di Macrobio e nell’opera di Cratete di Mallo, fino a sconfinare nella cultura medievale e in particolare in certe famose compilazioni di poesia epica, nella fattispecie la cosiddetta materia troiana, ripresa in opere come il tardo Historia Destructionis Troiae di Guido delle Colonne, risalente allo stesso XIII secolo che vede la nascita di Dante.

L’altra grande questione che interessa il XXVI canto, si è detto, è quella dell’Ulisse astuto e infido per antonomasia. Nel canone omerico, tra gli eroi tradizionali achei Ulisse è il simbolo della versatilità della mente umana, e dell’ingegno spesso votato all’astuzia fraudolenta; tale immagine è tipica soprattutto dell’Iliade, senza dimenticare celeberrimi episodi dell’Odissea (ma il poema del ritorno riporta comunque l’immagine di un Ulisse più sensibile e umano proprio perché provato dagli anni e dalle esperienze, e il cui principale obiettivo è l’agognato ritorno alla Terra dei Padri). Una figura quindi molto ambigua, in questo modo idealmente contrapposta a quella di Aiace Telamonio, che rappresenta invece l’eroe integerrimo, a sua volta ancora diverso da Achille, personaggio estremamente instabile e problematico (la sua ben nota caratteristica, oltre al massimo valore guerriero, è quella di essere propenso alla μηνιν, l’ira funesta). Uno degli epiteti di Ulisse più ricorrenti nell’epica omerica è quello di «πολιμετις Οδυσσεύς», «Odisseo dai molti accorgimenti» (per esempio in Iliade, III, 200) e il tratto principale attraverso cui il suo ingegno si esprime è quello dell’arte oratoria, della locutio: Ulisse è il guerriero che riesce a volgere le cose a proprio vantaggio con l’arte della parola e della persuasione. In seguito, nell’Eneide, Virgilio traccia un ritratto alquanto negativo dell’eroe itacese, se viene ricordato con la definizione di «scelerumque inventor» (II, 164), in riferimento non solo al celeberrimo inganno del Cavallo di legno, ma all’altrettanto poco encomiabile gesto di sottrarre la statua di Pallade dal tempio sulla rocca di Ilio, sempre con la partecipazione dell’alleato Diomede, in modo da inficiare la protezione divina sulla città. Oppure, in occasione dello scontro tra l’esercito dei Teucri e dei Rutuli in terra latina (IX, 602), il re Turno irride Enea e i suoi uomini affermando che i Rutuli si faranno valere ben più dei contingenti greci a Troia, celebri per il loro Ulisse «ciarliero e mentitore» («non hic Atridae, nec fandi fictor Ulixes»). Anche grazie al massimo poeta epico di Roma e i suoi «alti versi», quindi, la fama di essere stato (tra l’altro) un avversario poco onesto e un infido affabulatore è assicurata al re di Itaca, che non casualmente verrà ritratto da Dante, per la legge del contrappasso, dannato all’interno di una lingua di fuoco.

Avvicinandoci appunto al personaggio che il Poeta colloca in quel di Malebolge, è evidente che non si tratta certo dell’Ulisse stoico, o comunque riflessivo e paziente, che avrebbe voluto Seneca; l’Alighieri lo modella su tratti evidentemente più ispirati a quelli riportati da Cicerone e da Orazio, che restituiscono la proverbiale curiositas di Ulisse, denotandolo come colui che vaga per i mari perlopiù allo scopo di un personale inspicere mores hominum, indagare le usanze degli uomini e dei popoli. È proprio in questo contesto che Dante ascrive l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra, che l’eroe compie in quello che si rivelerebbe il suo definitivo atto di superbia, o meglio, di tracotanza e di mancato rispetto della norma. Nella simbologia mitologica, le Colonne d’Ercole rappresentano notoriamente il preciso limite di azione e di esperienza dal quale, per l’uomo, è ancora possibile il ritorno. Lo stesso Eracle/Ercole, appunto, si è recato per ben due volte, nel corso delle dodici fatiche, nell’estremo occidente dell’Oceano per raggiungere l’Orto delle Esperidi da cui cogliere la mela d’oro e nell’isola Eritea per domare i buoi di Gerione: al ritorno da quest’impresa, le due montagne (il Monte Abila e il Monte Calpe) che l’eroe sposta con la propria forza sovrumana, e pone rispettivamente sulla costa mauritana e su quella iberica, si rivelano così non solo l’ultimo confine del mondo familiare alle culture del Mediterraneo antico, non solo tra noto e ignoto, ma anche tra noto e ciò che non è stato dato conoscere. Essendo Eracle una manifestazione divina (è un semidio figlio di Zeus e della mortale Alcmena), questo limite ultimo indica anche quello tra fas e nefas, «acciò che l’uom più oltre non si metta» (Inferno, XXVI, 109). L’Ulisse di Dante compirebbe così un tipico atto di υβρίϛ, che per la tradizione e la visione del mondo ellenica è forse l’unica grande colpa, manifestabile in varie forme di violenza e scorrettezza (orgoglio, omicidio, incesto, negligenza verso il Divino …), ma sempre riconducibile ad una problematica ben precisa: lo sconsiderato superamento dei limiti imposti all’essere umano dalla natura, e quindi dalla divinità. Fin dalla captatio benevolentiae che Virgilio rivolge alla fiamma bicornuta («…ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi», v.84) si comprende infatti che quello di Ulisse è stato un viaggio destinato alla sconfitta e alla fine (e la scelta da parte del Maestro di chiedere all’eroe greco di raccontare la sua ultima avventura avviene, nella finzione poetica, in modo che Dante stesso possa trarre insegnamento,[III] per i motivi che vedremo). Ma come si lega, quindi, questo atto di “dismisura” intellettuale e pratica al peccato di frode che l’Itacese sta scontando nell’Inferno dantesco? Sono indipendenti, ovvero Ulisse è sì un ben noto fraudolento ed è anche un superbo e un empio verso le leggi divine, oppure vi è una vera e propria connessione?

A questo proposito, si giunge a un punto focale: Dante fa pronunciare al suo Ulisse, nell’orazion picciola, lo stesso identico principio espresso in apertura della Metafisica aristotelica. Se, dal punto di vista poetico-letterario, il modello dell’orazione di Ulisse è probabilmente da ricercare nel discorso che Enea rivolge ai compagni (Aen. I, 202), esortandoli appunto con «O socii…», il contenuto delle parole dell’eroe acheo è una citazione quasi letterale dell’incipit del testo di Aristotele (riportata da Dante anche in apertura del suo Convivio): «Πάντες ᾶνθρωποι τοῡ είδέναι ὀρέϒονται φύσει» («tutti gli uomini per natura tendono al sapere»).[IV] È stato affermato da studiosi come Mario Fubini (1900-1977), e più recentemente Massimo Cacciari, che la chiave per comprendere questa figura dell’Ulisse dell’Inferno, tanto drammatica quanto complessa ed enigmatica, sia non solo considerare questo dato di fatto ma anche in che modo intendere questo “aristotelismo dell’Ulisse dantesco”; si ricordi infatti che Dante non aveva una autentica conoscenza di Omero (se non indiretta, attraverso la moltitudine di riferimenti e citazioni dei grandi autori latini), ma vantava invece un profondo studio dell’opera dello Stagirita.

Per Dante, uomo e intellettuale del basso Medioevo, Aristotele è infatti il paradigma filosofico per definizione,[V] è il «maestro di color che sanno» (Inf., IV, 144) che siede fra la filosofica famiglia nel castello degli Spiriti Magni. Il poeta, naturalmente, non è certo alieno dalle dottrine del platonismo, anzi: l’influenza del pensiero di Platone, nella cultura del Medioevo occidentale, è pressoché ovunque per quanto esso sia filtrato attraverso le studiatissime opere di autori cristiani come Agostino, Boezio, Origene, lo pseudo-Dionigi Aeropagita… Senza contare che accanto alla Patristica e alla stessa Bibbia (il testo che fornisce il bagaglio ideologico di tutto il Medioevo,[VI] secondo Jacques Le Goff) rimane imprescindibile e onnipresente l’importanza dei classici latini di cui sopra, per quanto reinterpretati in chiave cristiana (come lo stesso Virgilio, e si ricordino a questo proposito i riferimenti platonico-pitagorici del VI canto dell’Eneide). Una tradizione ben familiare a Dante il quale, forse, potrebbe avere letto anche il commento al Timeo scritto in latino da Calcidio, testo fondamentale in quanto unica fonte medioevale pressoché completa e diretta sulle dottrine platoniche (ipotesi a cui darebbe adito il riferimento, nel II libro del Convivio dantesco, alle Intelligenze Celesti di cui si argomenta nel Timeo).

Secondo il primo tomo della Metafisica, la particolarità e la caratteristica intrinseca dell’essere umano è quella di venire affascinato dal trauma, dalla meraviglia dell’Essere che lo colpisce nel profondo, e lo spinge a muoversi verso di essa, nel tentativo di conoscere il suddetto. Per il dizionario Rocci, θαυμα è «meraviglia», «prodigio», «miracolo» (ma «anche in senso spaventoso e negativo», accezione che è rimasta nell’uso comune del concetto di trauma; proprio nell’Odissea, appunto, Polifemo «era un mostro orrendo», «θαυμα ετετυχτο πελωριον»). Quindi, è la filosofia stessa a nascere dalla meraviglia (Metafisica, A, 982 b 10) conducendo l’uomo nello stato contrario a quello del suddetto θαυμα, in questo modo superandolo e raggiungendo la condizione che Aristotele definisce ἄμεινον (983 a 18), parola che, come la forma latina amoenus che denota la stessa radice, indica lo splendore del Bene che, in quanto tale, si fa comprendere e amare.[VII] L’intelletto umano, dice il Filosofo, ha per presupposto il sensibile: sempre proseguendo nel primo libro, infatti, si legge che «il percepire è cosa comune a tutti». Subito dopo, però, che «le più rigorose tra le scienze sono quelle che hanno per oggetto le cose prime», ovvero le cosiddette scienze teoretiche: matematica, fisica e metafisica (e quest’ultima ha il suo corrispettivo naturale nel Cielo delle Stelle Fisse, sostiene Dante nel Convivio sulla scia di Aristotele). E le cose prime non sono altro che le cause e i principi dell’Essere in quanto Essere, la cui indagine è la Metafisica, la vera sapienza.[VIII]

È la grande prospettiva filosofico-teologica ripresa dalla cultura del pieno Medioevo, che si riflette tanto nelle monumentali architetture delle cattedrali[IX] quanto in opere come la Summa Theologiae di Tommaso e naturalmente la stessa Commedia: il compimento mistico è la meta da perseguire in alto, alla quale si può giungere soltanto attraverso una complessa struttura che poggia su precise, solide e imprescindibili fondamenta. Seguendo il concetto aristotelico, riadattato per quanto possibile alla temperie religiosa e fideistica cristiana, la teologia è quindi il compimento della metafisica, ma la filosofia, compresa ovviamente tutta la tradizione filosofica precedente e successiva all’avvento del Cristianesimo, non può che rivelarsi, al massimo, una ancilla theologiae (un principio teorizzato fin dal pensiero di Agostino per poi radicalizzarsi secoli dopo nella tradizione scolastica, in particolare grazie a Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino). Una disciplina subalterna, quindi, anzi propedeutica e letteralmente al servizio dell’autentica conoscenza della verità religiosa che spetta alla teologia, la domina scientiae: il raggiungimento della conoscenza dell’Ente Sommo di cui già parlava, appunto, proprio il XII libro della Metafisica aristotelica. Ora, teoricamente, se l’uomo non riesce a raggiungere questa realizzazione nella Conoscenza divina, rimane incompleto e quindi infelice; ma, dice Dante (nel solco di Aristotele e del suo interprete Tommaso), l’intelletto umano, per quanto limitato per sua stessa natura, se applicato in modo equo a ciò a cui può giungere realizza sé stesso in un progressivo susseguirsi di nuovi arrivi e di nuove partenze: la conoscenza umana è un viaggio in itinere. Ogni volta che si acquisisce un nuovo sapere, a quel punto l’uomo che vuole sapere è soddisfatto, ed è, fino alla prossima conoscenza, compiuto.

È all’interno del Convivio, o Convito, che si trova la magistrale argomentazione di Dante su questo tema centrale. Il poeta scrive i primi (e unici) quattro libri del trattato tra il 1304 e il 1307, in un periodo nel quale è ormai da anni in esilio per le terre dell’Italia settentrionale (essendo ideologicamente guelfo bianco, è bandito nel 1301 dalla Firenze in mano ai “neri”); in questo periodo è molto probabilmente a Lucca ospite dei Malaspina e a Treviso presso Gherardo da Camino.[X] L’importanza del Convivio è capitale anche “soltanto” considerando il suo essere praticamente il primo trattato filosofico nell’Europa medievale scritto in fiorentino dopo secoli di latino e greco (un caso al quale sono paragonabili soltanto le opere in volgare catalano di Raimondo Lullo e il Trésor di Brunetto Latini, celebre «maestro» dello stesso Dante ricordato in Inf. XV). Qui Dante sostiene come, considerato che la Teologia sia naturalmente la Domina Scientiae, le altre scienze (o Arti Liberali suddivise nel Trivio e del Quadrivio, canone di origine classica rielaborato nel Medioevo attraverso l’opera di Marziano Capella e di Boezio), nella loro subordinazione gerarchica alla suddetta sono comunque in loro stesse perfette e compiute perché realizzano pienamente il proprio essere, ciò che in termini aristotelici è la loro ηνηργεια. E per quanto riguarda l’intelletto umano, la sua propria ηνηργεια, se applicata correttamente, è proprio quella di conoscere: ogni persona è (o meglio, dovrebbe essere…) ontologicamente portata a realizzarsi attraverso l’intelletto e la conoscenza. Per l’uomo, quindi, vivere «è ragione usare» (Convivio IV, 7).

Ora, l’Ulisse del XXVI canto si comporta (apparentemente) proprio nel modo di cui si argomenta nella Metafisica: colpito, anzi ossessionato dai prodigi dell’Essere, cerca di raggiungere con i suoi mezzi, che sono umani ed empirici, ciò che per lui è il più lontano possibile, almeno dal punto di vista fisico e geografico. Perché, quindi, Dante lo “condanna”? Significativo è anche il dato che la sua orazione venga strutturata, strategicamente, in tre terzine (versi 112-120), e la si può quindi intendere come una terzina-sillogismo di palese impostazione aristotelica:

  1. Tutti gli uomini, per loro stessa natura («semenza»), dovrebbero seguire virtù e conoscenza;
  2. Voi, compagni di Ulisse, siete uomini;
  3. ergo, è il momento di andare oltre le Colonne d’Ercole!

Predicando ciò, e agendo di conseguenza, Ulisse non applica quindi correttamente il proprio intelletto umano, in linea con i più alti principi filosofici della tradizione del Medioevo occidentale, invitando peraltro i compagni a fare altrettanto?

La risposta è negativa. Esaminando i fattori più evidenti, è palese che la ricerca di Ulisse non sia quella di una persona che segue un percorso in itinere, una indagine paziente e progressiva: al contrario, il suo è un «ardore», un furor inarrestabile, quasi, si direbbe oggi, una attività compulsiva. Inoltre, la sua furiosa spedizione esplorativa tra i mari e le terre conosciute («L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna», vv.103-105) è una ricerca, come accennato, che si limita alla sfera del sensibile e dell’empirico, e ciò emerge esplicitamente dall’orazione («…a questa tanto picciola vigilia d’i nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza…»): l’Ulisse di Dante limita il mondo, quel mondo che tanto brama conoscere, alla sola sfera materiale dei sensi, ignorando la via del Trascendente che, lascia intendere il Poeta, è la sola che possa dare significato all’esistenza umana.

Si ha quindi una decisiva e abissale differenza tra l’Ulisse omerico (ma in particolare, ovviamente, quello della stessa Odissea) e quello dell’Inferno: se il primo è un eroe del mondo tradizionale che ha un’esperienza del Divino pressoché normale e quotidiana (viene costantemente consigliato da Atena, è perseguitato dall’ira di Poseidone –e il suo equipaggio da quella di Iperione–, conosce l’importanza della prassi del rito e del sacrificio, giunge persino a unirsi con una ninfa), il secondo, quello di Dante, pratica un personale “aristotelismo” puramente fisico, e quindi una filosofia atea. È notevole, infatti, la totale assenza di riferimenti metafisici o religiosi nel lungo monologo-racconto, almeno fino all’arrivo della nave al largo della montagna del Purgatorio, che già appare ad Ulisse «bruna per la distanza», avvolta nelle nebbie e nella lontananza dell’Inconoscibile al comune sentire umano. Estremamente rilevante è anche il fatto che l’Ulisse dantesco, così ardito e risoluto a superare ogni limite, non ponga in discussione i suoi limiti di essere umano e perciò soggetto, per sua stessa essenza, alla finitudine e al transeunte. Il Conosci te stesso, e niente di troppo comandato dal Tempio di Delfi (o l’agostiniano In interiore homine habitat veritas, più familiare al tempo di Dante) è del tutto trascurabile e trascurato da parte dell’eroe: il sé stesso di Ulisse è una curiositas implacabile che ignora o forse sopravvaluta la propria natura umana, seguendo il suo unico imperativo di indagare e comprendere sensibilmente e razionalmente. Ancora una volta a scapito, quindi, di un primo legame tra l’uomo e il Trascendente che inizia appunto dall’indagine della propria interiorità: anche qui un riferimento di Dante, e una negligenza da parte del suo Ulisse, agli insegnamenti di Platone e Aristotele.

Al «folle volo» di Ulisse, lanciato senza compromessi alla scoperta di ciò che è fisicamente esperibile e infine volto ad affrontare l’ignoto assoluto, manca perciò il fine ultimo, quello metafisico, in totale opposizione al viaggio che, nella Commedia, sta invece compiendo Dante. Se entrambi i loro percorsi sono diretti verso il Purgatorio (cosa che peraltro Ulisse ignora), quella di Dante è una strada molto particolare dalla schiavitù del peccato alla libertà, che il poeta intraprende gratia dei (a differenza dell’iniziativa personale di Ulisse) e sotto una precisa e particolare guida (quella di Virgilio, poi di Beatrice e Bernardo), contrariamente all’eroe greco che segue solo la sua curiositas e, al limite, la parziale e insufficiente guida dell’intelletto umano che si limita alla sfera del sensibile e del puramente razionale. E questo è sapientemente simboleggiato dallo stesso ambiente naturale in cui prosegue il «folle» viaggio: la stessa espressione «di retro al Sol» (v. 117) è molto eloquente e altrettanto inquietante, poiché per tradizione l’astro diurno è l’orientamento dell’uomo, la guida «che mena dritto altrui per ogni calle» (Inf., I, 18). Il Sole è allegoria di luce divina e intellettuale, fondamento della conoscibilità delle cose (si pensi, naturalmente, al mito della caverna di Platone, o all’incipit del Vangelo di Giovanni «et lux in tenebris lucet», la luce che è anche il Λόϒος), e Ulisse e i suoi seguono la via del Sole declinante, immagine che già nell’antica cultura egizia era in uso per indicare metaforicamente il trapasso. L’eroe e i compagni si inoltrano nell’«alto mare aperto», ed ecco l’immagine archetipica dell’Oceano come simbolo del grande ignoto: quello che ripropone Dante è un concetto fondamentale della visione sapienziale classica, indicando come oltre il πέρας rappresentato dalle Colonne d’Ercole ci si inoltri nell’απέιρων, il mare senza limiti dove, per definizione, ci si perde, e l’infinito rappresenta in questo caso anche il non-ente che, conseguentemente, non può essere conosciuto: la contraddizione insita nell’impresa è perciò evidente, e la lezione (trascurata) dell’oracolo di Delfi incombe sempre più minacciosa. Ancora, Ulisse racconta della vista delle stelle del cielo australe e fa riferimento al lume della Luna (vv.127-132): come osservato da Daniele Mattalia,[XI] dopo il superamento del limite non si accenna più alla luce solare, e l’atmosfera in cui si svolge la navigazione diviene notturna, il che si può intendere tanto come un’allusione simbolica al tema del viaggio, ossia il mistero, quanto all’idea che la luce-guida solare (Dio) venga inadeguatamente sostituita dalla più debole luce lunare e stellare (la ratio umana, guida valida ma non del tutto sufficiente).[XII]

Non è tutto: vi è un altro aspetto fondamentale per comprendere la portata negativa e pericolosa della filosofia “fraudolenta” propugnata da Ulisse diretto verso l’Oceano ignoto. L’Ulisse dell’Inferno racconta che, sempre ricollegandosi a quanto si narra nel XV libro delle Metamorfosi e dimostrandosi ancora una volta in antitesi all’eroe dell’Odissea, lasciata Circe riprende il mare non certo per tornare ad Itaca ma per «divenir del mondo esperto». In questo modo, sovrappone l’importanza della sua ricerca alla «dolcezza di figlio», «la pièta del vecchio padre» e «’l debito amore» per Penelope, trascurando quella che a Roma è la pietas, ovvero la comprensione, il rispetto e l’obbligazione verso i parenti, nonché verso gli amici, i sodali e il prossimo, e che formava con la fides e la virtus la base dell’etica tradizionale romana: l’opposizione della figura di Ulisse è perciò evidente anche rispetto a quella di Enea, per definizione pius verso la stirpe e la patria (quella originaria, Troia, e quella futura in Italia) in quanto votato, per mandato divino, alla missione civilizzatrice che lo conduce nel Lazio. Ecco quindi come il comportamento di Ulisse si ponga negativamente anche alla luce dell’altro grande tema aristotelico caro a Dante, quello appunto dell’etica (da ἔϑος, cfr. latino suesco, sodalis, soleo, ovvero abitudine, consuetudine, “costume” nel senso più alto: quello che mantiene unito un ordine e una tradizione). Dante, nel secondo trattato del Convivio, ricorda che senza amore è impossibile la pratica della filosofia e quindi la ricerca della verità, riprendendo precisamente le dottrine dell’Etica Nicomachea di Aristotele (che aveva conosciuto nella traduzione latina del medico fiorentino Taddeo Alderotti), opera che a sua volta tramandava gli insegnamenti del suo maestro, in particolare del Fedro e del Simposio. Dante ribadisce in questo modo il primato dell’etica per raggiungere virtute e canoscenza, facendo agire il suo Ulisse in modo specularmente inverso: atto finale di incosciente e sistematica autodistruzione è la stessa «orazion picciola», la frode terminale e totale di Ulisse, la retorica più diabolica con la quale convince i compagni a seguirlo nel folle volo verso ciò che non può essere sensibilmente conosciuto.

I messaggi del XXVI canto dell’Inferno, che Dante ha trasmesso attraverso questa figura immensa nella sua contraddittoria tragicità, non possono quindi che rivelarsi ancora una volta quanto mai attuali, drammaticamente attuali: per l’uomo è possibile una realizzazione attraverso il sapere restando nei limiti consentiti, mantenendo il legame con l’etica, mantenendo il legame con la propria interiorità, senza contraddittori tentativi di vie traverse o equivoche verso il Trascendente. Un Trascendente che, come insegnano le grandi tradizioni, può essere compreso e raggiunto, ma non attraverso certe degenerazioni e devianze culturali, scientistiche e “morali” adottate negli ultimi secoli dalla più arrogante mentalità moderna, la quale è giunta addirittura a negarlo.

Ritrovandosi, in questo modo, «di retro al Sol», e ormai molto lontano oltre le Colonne d’Ercole.

 

NOTE

[I] Per quanto il fatto che Ulisse «sfrutti il vento di Borea» per riprendere la navigazione da Ogigia lasci intendere invece un’ubicazione geografica ben più “nordica” per l’enigmatica isola. Autori come Plutarco (nel De facie quæ in orbæ Lunaæ apparet) la collocano infatti a cinque giorni di navigazione dalla Britannia; a latitudini altrettanto settentrionali, per quanto approssimate nella deformazione del racconto mitico, veniva situata per tradizione anche la lontana e caliginosa terra dei Cimmeri dove Ulisse si reca su indicazione di Circe per accedere all’Ade, allo scopo di ottenere responsi divinatori dalle ombre dei defunti e in particolare di Tiresia (Odissea, libro XI). All’interno del poema, entrambi gli episodi accennati sono inseriti nel percorso compiuto dall’eroe per tornare ad Itaca e ristabilire l’ordine nella Casa dei Padri, e naturalmente vanno considerate le possibili letture esoteriche dei rispettivi viaggi, che indicano una simbologia iniziatica: le collocazioni iperboree dei due luoghi, il dettaglio che la semidea ospite di Ulisse porti il nome di «Colei che nasconde» e la discesa agli Inferi da cui l’eroe riemerge e continua il viaggio (tema poi ripreso, non certo casualmente, proprio da Virgilio e da Dante) non lasciano dubbi a riguardo. Sull’argomento, si veda ad esempio René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975; Gianfranco Drioli, Iperborea. Ricerca senza fine della Patria perduta, Ritter, Milano 2014; Vito Foschi, L’isola di Ogigia, in Lex Aurea. Libera rivista di formazione esoterica n.52, aprile 2014, p.4 (consultabile presso il sito web www.fuocosacro.com).

[II] Cfr. Ovidio, Ars Amandi, III 355; Amores, III 4; Metamorphoseon Libri XV, XIV 437-438.

[III] Giorgio Padoan, Ulisse «fandi fictor» e le vie della sapienza, in Giorgio Padoan, Il pio Enea e l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Longo Editore, Ravenna 1977, p.191.

[IV] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2002, Libro A, 1, p.5, traduzione di Giovanni Reale.

[V] La questione è storicamente complessa, in quanto le opere filosofiche e fisiche di Aristotele vengono riscoperte dall’Occidente latino a partire dal XII secolo (in precedenza si conosceva interamente soltanto la Logica), grazie all’opera dei filosofi e commentatori ebraici e soprattutto islamici come Averroè e Avicenna. Le dottrine aristoteliche avranno comunque seri problemi ad essere accettate e interpretate dalla tradizione teologica cattolica (ed islamica, entrambe le quali non potevano che disconoscere concetti, per esempio, come l’eternità e la necessità del mondo, o la tesi dell’unità dell’Intelletto), problemi in parte “risolti” dai grandi maestri della Scolastica come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, peraltro a sua volta influenzato dalle dottrine platoniche esposte dal persiano Avicenna, dopo una iniziale e intransigente opposizione da parte di autori come Alessandro di Hales e Roberto Grossatesta.

[VI] Jacques Le Goff, Prefazione, in Henri-Charles Puech, a cura di, Storia delle religioni, vol.10, Il cristianesimo medievale, Laterza, Bari 1977, p.24.

[VII] Emanuele Severino, Prefazione, in Aristotele, Metafisica, libro I, RCS Libri s.p.a., Milano 2009, p. V.

[VIII]Cfr. Aristotele, Metafisica, libro IV, Bompiani, Milano 2000, a cura di Giovanni Reale.

[IX] Cfr. Titus Burckhardt, L’arte sacra in Oriente e in Occidente, Rusconi, Milano 1976.

[X] Daniele Mattalia, Cronologia, in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Rizzoli, Milano 1960, p.54. La prima decade del Trecento, trascorsa da Dante in peregrinazioni presso varie città italiane (nonché, pare, anche a Parigi) nelle quali lui stesso non si è minimamente premurato di lasciare tracce del suo passaggio, rimane a tutt’oggi una parte molto oscura e ben poco ricostruibile della biografia del poeta.

[XI] Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, cit.

[XII] Anche nella tradizione dell’Alchimia occidentale il principio della ragione e della sapienza umana trovi una sua simbolizzazione (tra le varie altre) nell’immagine della Luna, cioè l’astro passivo e mutevole che brilla della luce riflessa del Sole (il quale è invece la stella invece “completa” e virile, in quanto simbolo del regale e del Divino per definizione). A proposito, cfr. Julius Evola, La Tradizione Ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma 1971 (III edizione).

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