18 Luglio 2024
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Jollivet-Castelot e l’Alchimia, una storia dell’ermetismo – Giovanni Sessa

Occultismo ed Esoterismo vissero, al termine del secolo XIX, una stagione intensa e straordinaria. Si affermarono scuole e tendenze disparate, rappresentate da personaggi di grande spessore che attrassero l’attenzione di intellettuali estranei al milieu magico-iniziatico. Si pensi ai nomi di Papus, Stanislas de Guaita, Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, solo per citarne alcuni tra i tanti. La Francia fu, allora, terra d’elezione della rinascita ermetica. Tra le figure di spicco di tale rinascenza va ricordato François Marie Jollivet-Castelot (1874-1937), alchimista e studioso dell’Ars Regia, che scrisse tra il 1897 ed il 1898, dapprima a puntate sulle colonne del giornale l’Hyperchimie, di cui era direttore, una serie di articoli sull’alchimia, raccolti, in seguito, nel volume, Storia della scienza alchemica. Il libro è uscito recentemente, in seconda edizione italiana, per i tipi della IDUNA edizioni, a cura di Claudio Bonvecchio (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 150, euro 9,00).

L’edizione italiana del 1900, era aperta dalla prefazione di Giuliano Kremmerz, che è stata conservata anche in quella attuale. Il ‘mago’ napoletano riconosceva due indubbi meriti al lavoro di Jollivet-Castelot: innanzitutto, aver presentato la lunga storia dell’ermetismo dall’antichità alla fine del secolo XIX e, inoltre, aver sostenuto in questo compendio storico, che l’alchimia non era affatto una arte vana e chimerica. L’autore del volume è indubbiamente, anche dal punto di vista della formazione, espressione dell’epoca in cui visse: chimico e cultore dell’ermetismo al medesimo tempo. Bonvecchio ricorda che egli era convinto: «dell’esistenza di un pan-spiritualismo in cui materiale e immateriale sono indistinguibili tra loro» (p. 6). In lui convissero, pertanto, errori occultistici con geniali intuizioni realizzative. Simpatizzò, dapprima, per il socialismo utopistico di Fourier per aderire convintamente, nel 1920, al Partito Comunista di Francia. D’altra parte, assunto di fondo della sua visione del mondo era la convinzione dell’esistenza di un’energia onnipervasiva che trasforma di continuo la realtà e la vita. Tale tesi rinviava, da un lato, a certa tradizione neoplatonica, mentre preludeva allo slancio vitale di Bergson.

Fu vicino al Martinismo e al Rosi+crocianesimo e interpretò la figura di Cristo, quale “primo socialista”, ma anche, in sintonia con Schuré, quale Grande Iniziato. Fu, tra le altre cose, presidente della Società Alchemica di Francia. Era sua convinzione, e in ciò colse nel segno, che l’Ars Regia fosse: «la risposta a quella separazione che, da Cartesio in poi, aveva disgiunto […] il mondo materiale da quello spirituale» (p. 7). Le pagine del libro di Jollivet-Castelot sono sostenute dall’intuizione dell’ermetista Dorneus, inerente l’Unus Mundus, vale a dire l’esistenza di un unico sapere capace di condurre l’uomo al cospetto dell’Unità dell’origine. In essa si sarebbe mostrata in tutta la sua potestas la realtà energetica e sinergica dell’Anima Mundi. L’autore ricorda come a tale Principio, nel corso della storia del pensiero, si siano richiamati Platone, Plotino, Guglielmo di Conches, Tommaso d’Aquino, i neoplatonici rinascimentali fino a Giordano Bruno, in una catena ininterrotta di iniziati giunta fino al tempo presente.

Si sofferma, altresì, il nostro, sugli alchimisti del Cinquecento e del Seicento, rammenta il ruolo svolto da Michael Sendivogius Cosmopolita e da Ireneo Filalete. La sua ricostruzione storica non può che muovere dalla terra d’Ermete, l’Egitto: «La Scienza Sacra dell’Egitto, gelosamente custodita dai collegi magici, comprendeva l’integrità di quello che noi, al dì d’oggi, chiamiamo Occultismo» (p. 16). Scopo di tale Scienza era far si che l’iniziato, alla fine del proprio iter, giungesse a realizzare la comunione del corpo umano con la natura naturata, dell’anima con la natura destinale e dello spirito con la natura naturans divina. Ermete era considerato, nella Tradizione di questo antico popolo, figlio d’Osiride e di Iside. Il primo, dio maschio, aveva per corrispondenza sul piano fisico il sole, sul piano astrale il principio virile e sul piano divino, l’Essere. Iside simbolizzava, al contrario, il polo femminile: «il polo fisso e materiale del fluido astrale, della sostanza eterna» (p. 18). Ermete era inteso quale Spirito vivificatore, parola vitale, Messia di tutti i secoli, manifestantesi nell’eterno presente. Tale Scienza veniva esposta in forma mitica, nella sua versione essoterica, in forma geroglifica, nella dimensione esoterica.

I geroglifici stessi avevano un triplice senso: un senso positivo e materiale, uno allegorico e uno divino. Pertanto le scritture geroglifiche risultavano di tre differenti tipologie: demotica, ieratica e geroglifica ammonea. L’ermetismo era arte che apriva ai tre mondi universali: la teurgia conduceva al piano superiore, dove agivano i principi, la magia apriva al piano astrale o delle leggi cosmiche, l’alchimia interveniva sugli esseri vegetali ed animali e sull’uomo. Sostiene Jollivet-Castelot: «per ottenere l’oro perfetto, l’alchimista doveva saper già produrre l’oro filosofico e l’oro astrale» (p. 25), in quanto la trasmutazione alchemica avveniva dopo aver ottenuto l’animica e la morale. Conclusivamente, quindi, Ermete era detto dio trismegisto, perché nella sua Scienza erano incluse tre dottrine: la cosmogonia, l’androgonia e la teogonia. Suggerisce Bonvecchio che, il riferimento prioritario dell’ermetismo dell’autore, va individuato nella tradizione gnostica e neo gnostica. In esse l’Anima Mundi è letta quale mistero di cui nulla si può dire. All’operatività di tale scuole è consustanziale e propedeutico il conseguimento della Grande Opera, la liberazione dell’anima dal corporeo.

Il ritorno della scintilla divina individuale al Deus Absconditus è: «simbolo del calore costante» (p. 10). Se è vero, come sostiene Jollivet-Castelot, che la Tradizione, anche nel momento del suo massimo oblio, non può andare perduta, e che essa, come l’ermetismo, è rizoma serpeggiante sotterraneamente nella cultura europea, è altresì palese che le concessioni al moderno, al piano materiale, che emergono talvolta dalle sue posizioni, possono, come spiegato esemplarmente da Evola, rappresentare dei limiti nell’approccio alla comprensione della Scienza Sacra. Con Bonvecchio non possiamo che augurarci, comunque, che la Tradizione apparentemente inaridita, torni a fiorire e a verdeggiare.

Giovanni Sessa

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