10 Aprile 2024
Cultura Sapienza Arcaica

In principio era la nonna – Rita Remagnino

Mai come negli Anni della Fine s’è vista tanta gente che si dedica alla poesia. Da dove viene tutta questa voglia di esprimersi in versi? Quale filo invisibile ci lega all’oscura melodia delle parole? E perché solo la poesia riesce a pescare dentro di noi pensieri che non sapevamo di avere?

C’è qualcosa di molto antico in tutto questo. Non è sicuro ma assai probabile che questa forma di linguaggio sia stata l’idioma originario degli dèi, cioè dei sapiens che civilizzarono mezzo mondo a partire da circa 40mila anni fa. Sembra che ci sia stato un momento nella Storia del Ciclo presente in cui il lato «divino» della mente umana riusciva a spiegarsi meglio in versi.

Ciò significa che i neanderthal seguirono gli insegnamenti dei civilizzatori come si segue l’onda di una magica musica melodiosa. Forse molti principi in forma poetica venivano memorizzati e poi recitati mentalmente nell’arco della giornata allo scopo di essere fissati nella mente. Si capirebbe, in quest’ottica, come mai i saggi della Valle dell’Indo andavano dicendo che solo ai grandi antenati era toccato il privilegio di «udire» i Veda, mentre in seguito li si dovette studiare al prezzo di enormi fatiche.

L’usanza di cantilenare il sapere penetrò così profondamente nel tessuto culturale della società eurasiatica che ancora in tempi storicizzati si continuava ad esprimere le cose importanti in poesia come dimostrano, ad esempio, l’intensa attività degli aedi sempre impegnati a raccontare i grandi poemi della nostra cultura, la circostanza che nel mondo indoeuropeo poeta e veggente significassero molto spesso la stessa cosa, le attitudini poetiche di alcuni personaggi di rilievo.

Uno per tutti: il nordico Odino. Ritenuto dai suoi contemporanei «colui che conosceva più cose al mondo», il re vagabondo avvolto nel mantello blu cobalto recitava canti magici che rendevano malleabili le rocce, spostavano le pietre, calmavano le acque, aprivano i tumuli e abbindolavano i nemici in battaglia «legandoli con un laccio invisibile». Da vero campione di un’umanità nuova, solare e bellicosa, riunita sotto il sigillo dell’utopia e rigenerata attraverso la scienza, egli esordì sul palcoscenico della Storia con un assassinio, quello del gigante primigenio Ymir, la cui carcassa servì a ri-forgiare Cielo e Terra. Dopo di che fondò un nuovo ordine mondiale dominato dai possenti Æsir, chiamati appunto «i fabbri di canti» per l’abilità con cui manipolavano i suoni contenuti nelle parole.

Nella preistoria un legame ancestrale univa l’espressione linguistica cantata in modo ritmico e cantilenante al soprannaturale. Persino gli oracoli parlavano in versi, quelli che ci sono pervenuti sono esametri dattilici, esattamente come i poemi epici. Bisognerà arrivare al I secolo d.C. per sentire l’oracolo di Delfi esprimersi attraverso un linguaggio misto, sebbene i responsi in prosa dovessero passare al vaglio dei poeti al servizio dei templi prima di essere sdoganati, questo perché il sapere divino era essenzialmente poesia.

Qual è la differenza tra parlare e cantare? Se la parola è una funzione che appartiene all’emisfero celebrale sinistro, il canto e la melodia sono primariamente funzioni dell’emisfero cerebrale destro. E siccome la poesia antica non era mai recitata ma sempre cantata, si trattava probabilmente di un’attività del lobo temporale destro.

Ora sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo, quando si parla di teorie scientifiche) che uomo e donna non siano differenti solo nei genitali e negli ormoni ma anche nel cervello: quello dell’uomo ha più neuroni e lavora principalmente «di sinistro», è razionale, concreto, logico, lineare, analitico, matematico; quello della donna ha maggiori connessioni e lavora invece «di destro», è emotivo, creativo, immaginativo, intuitivo, olistico.

Non stupisce, quindi, che all’interno dei gruppi sociali dell’antichità l’arte del racconto fosse un’abilità squisitamente femminile. A questo proposito sorge qualche dubbio anche su un colosso culturale come l’Odissea, che è qualcosa di molto diverso dall’Iliade. Chi «cantò» in versi le peripezie di Ulisse, l’uomo simbolico chiamato «Omero», oppure generazioni di donne celate dietro la grande donna/maga che occupa un posto centrale all’interno del poema? L’entità chiamata «Omero» le dedica quasi un intero canto. Nessun’altra, fra le avventure narrate in prima persona dall’eroe di Itaca, ha così ampio spazio. Di fatto Circe è il baricentro dell’intera narrazione, le avventure che la coinvolgono sono la chiave di volta dell’intero viaggio, insieme alla discesa nel Regno dei Morti di cui costituiscono il presupposto, e rappresentano il momento in cui le cose per il protagonista cominciano a muoversi nel verso giusto dopo tante difficoltà.

Esiste una base di «ricordi comuni», una «catena tradizionale», i cui anelli partono dalle Origini sino a giungere ai racconti folklorici e alle fiabe, che è stata magistralmente gestita dalla parte «destra» del nostro cervello. Indubbiamente ci vogliono sensibilità e talento per ricevere in dono un’antica storia, conservarla e lasciarla in eredità tale e quale a com’era in origine, e queste qualità alle donne non sono mai mancate.

Per millenni il poeta, il bardo, il cantastorie hanno esercitato il nobile e difficile «mestiere» di conservare e raccontare, sia in tempi di pace che di guerra. Ma fin dai primordi, cioè molto tempo prima che questi artisti di strada venissero al mondo, la salvaguardia della memoria e la conservazione del patrimonio culturale di un gruppo sociale sono state appannaggio delle donne. O, per meglio dire, delle «nonne» preposte alla conservazione del sapere all’interno della comunità.

Ormai esonerate dagli obblighi del lavoro e dalle incombenze legate alla cura della prole, le Nonne avevano tutto il tempo di dare voce al ricordo, creando significati, risvegliando sogni. Dopo avere «fabbricato» un popolo, ora lo tenevano unito, nella buona come nella cattiva sorte, perché sulla narrazione delle proprie radici e dei propri antenati si basava la capacità degli esseri umani di «stare insieme». I racconti hanno fatto sì che l’individuo si evolvesse nel tempo da Homo sapiens in Homo religiosus, mythologicus, faber, economicus, ludens. Il narratore realizzava il suo percorso in quanto elemento sociale, mentre il gruppo esisteva attraverso la narrazione.

Alla domanda “Cos’è un popolo?” lo scrittore e saggista Régis Debray rispose “Un popolo è una popolazione con in più dei contorni [confini] e dei cantastorie”. Il declino dell’Europa di oggi, infatti, andrebbe ricercato anche nella «miseria narrativa» in cui versa, una condizione che rende il continente invertebrato, moscio, effimero. Abbiamo abolito i confini e non abbiamo più i cantastorie, il tutto per rincorrere l’utopia del «senza frontiere e senza memoria» che ha condotto al potere un totalitarismo sgangherato che considera l’essere umano una forma priva di luogo e di tempo a cui negare valore, identità, sacralità.

Chi dovrà scrivere la nostra storia, tra mille o diecimila anni, parlerà di questo tempo come dell’Era della Perdita perché abbiamo perso la Storia, l’identità, la cultura, la bellezza, qualsiasi legame con il territorio. Non senza dolore poiché a nostra insaputa avvertiamo i contraccolpi dovuti alla perdita di una narrazione comune. Sentiamo in cuor nostro che l’io ha bisogno di svilupparsi in seno a un noi, come dimostra il successo spropositato dei social, che sono una forma degenerata dell’antica arte del racconto. Un surrogato della tecnica narrativa che sta in piedi su debolissime stories personali incapaci di fare strada perché «raccontar-si» non è sinonimo di «raccontare». Per raccontare bisogna vivere in comunione con un gruppo «reale», non virtuale. Solo da una simile condizione possono nascere momenti di armonia e di gioia, di apprendimento e di svago, di «vero vivere», visto che la parte prosaica della vita appartiene al sopravvivere.

La narrazione è il nostro modo di costruire una comunità, d’interpretare l’esistenza. Il racconto vive sulla memoria, che è la base su cui costruire. Non è vero, dunque, che le antiche civiltà davano la massima importanza ai racconti orali perché il popolo era analfabeta. Semplicemente: raccontavano perché preferivano raccontare!

E del resto fino a cinquant’anni fa, cioè in tempi ampiamente alfabetizzati, questa pratica era ancora molto in voga. Ogni individuo era consapevole di essere ciò che aveva udito raccontare dai nonni e tutti sapevano di essere le storie che avevano ascoltato crescendo. Il sapere viaggiava di bocca in bocca, qualche volta anche di libro in libro.

Non ci fossero stati i racconti a reggere l’estetica di tutto il patrimonio intellettuale del nostro pianeta, sopravvivendo a cataclismi epocali, la nostra specie sarebbe estinta da un pezzo. Ben lo sapevano gli antenati preistorici, che riconoscevano alle loro «narratrici» il giusto merito, omaggiandole in molti modi.

Ad un certo punto si rese visibile nel girovagare degli esploratori-colonizzatori persino una lunga scia di idoli femminili. Le celebri «Veneri paleolitiche», simpatiche ciccione che nel loro aspetto antropomorfico erano immagini allegoriche della Terra Madre. Umida e pingue, forte e misteriosa, una magia potente e ineguagliabile che alimentava la Vita compiendo senza sosta il miracolo della riproduzione. Ma, soprattutto, custodiva in sé la memoria.

A proposito della Terra vale la pena di ricordare che i Sumeri, già stabilmente insediati in Mesopotamia nel V secolo a.C. e provenienti da un imprecisato nord-est, rappresentavano il pianeta-madre con la lettera «K», il cui significato era lo stesso di «ki» (An.unna.Ki). In accadico «ki» divenne «gi» (o «ge»), da qui l’elemento «geo» (geografia, geologia, geometria, ecc). Solo in un secondo tempo gli Indoeuropei vi aggiunsero «aia», che nella loro lingua significava appunto «nonna». Ne consegue che la parola «Gaia» dovrebbe essere tradotta in «Nonna Terra», nonostante gli antropologi abbiano preferito darle il significato di «Madre Terra».

Amuleti raffiguranti donnine formose e protettive cominciarono a moltiplicarsi come ciondoli attorno al collo dagli uomini preistorici, oppure infilati sotto gli abiti, in un tascapane da viaggio o in un sacco con gli arnesi da caccia. Un omaggio sociale quasi dovuto al femminile in natura. Sul finire di un’intera Era Glaciale avara di frutti e piena di problemi materiali da risolvere era «normale» che le donne giovani e vecchie apparissero all’umanità «divine» nella loro duplice azione benefica: materna e conservatrice.

Ancora oggi possiamo ammirare alcuni di questi oggetti nelle teche dei musei, misurano generalmente pochi centimetri, alcune al posto della testa hanno il tipico occhiello da ciondolo e sembrano quasi … fatte in serie. Non mancano tuttavia le eccezioni, come la Venere di Willendorf, divenuta celebre per la sua singolare acconciatura, o copricapo, che risale a circa 28.000-25.000 anni fa. Alta 11 centimetri la statuetta è stata ricavata da un pezzo di calcare, ma i materiali utilizzati per creare questi talismani potevano variare dall’avorio al serpentino, o all’osso, alla terracotta, al corno, all’argilla, al gaietto. C’è n’era per tutti i gusti.

In genere le figurine avevano un corpo abbondante, segno che si trattava di donne mature e non di giovani vergini, ed erano spesso prive di volto, un chiaro indizio della loro funzione simbolica. Gli artisti che le scolpirono dovevano aver raggiunto un livello di astrazione concettuale talmente elevato e perfetto da far apparire certe statue sumere o egizie come opere naif.

La modernità ha interpretato queste femmine prosperose come simboli di fecondità, dimenticando così la sapienza e la saggezza della donna matura. È il classico difetto di chi pensa che uomini di altre epoche e di altre culture ragionino con il suo stesso metro. Ma il «tipo» di donna che all’interno dei gruppi sociali antidiluviani «contava» di più, sia per autorevolezza religiosa che per esperienza accumulata, non era la Madre riproduttrice bensì la Nonna conservatrice. Ne consegue che le Veneri paleolitiche oggetto di culto erano tanto Madri quanto Nonne, formidabili riproduttrici e impareggiabili consigliere.

Se la modernità non ama la vecchiaia, i pilastri delle società arcaiche furono invece gli anziani in generale, e in particolare le Nonne. Nel senso che i maschi diventavano «nonni» raramente, morendo per lo più nel corso di avventurosi viaggi di esplorazione o sui campi di battaglia prima di veder spuntare sulla loro testa il primo capello bianco. Al contrario delle Nonne, che avevano tutto il tempo di accumulare cultura, diventando così le custodi ideali di un gran numero di storie, nonché le depositarie di saperi antichi, quando non addirittura di segreti ancestrali.

Molti furono i primi dèi-civilizzatori che dovettero ricorrere ai preziosi consigli delle Nonne per portare a termine una certa impresa, o per essere incoraggiati ad affrontare un viaggio pericoloso. I casi più frequenti si registrano nei miti del Nordamerica dove il Creatore, un essere indistinto dall’eroe culturale, è conosciuto con il nome di «Glooscap» sulla costa settentrionale del Pacifico e con quello di Manabozho nel «Southwest», o fra gl’indiani dell’altopiano.

Al fianco di questo soggetto c’è immancabilmente una nonna, custode della sapienza antica e preziosa consigliera. Per la nostra mentalità è inconcepibile che un uomo capace di modificare il paesaggio, di costruire montagne, di sistemare fiumi e laghi, di segnare il litorale dell’oceano, abiti con la propria nonna e ne segua diligentemente le indicazioni. Ma anche la nostra vita «normale» sembrerebbe assurda e totalmente priva di senso a un uomo di soli cent’anni fa, per cui non è il caso di sorprendersi.

Persino gli agguerriti Aztechi avevano una Grande Nonna che si chiamava Temazcalteci, presiedeva il rito della sauna (dal profondo significato spirituale), era la patrona dei guaritori, delle ostetriche, delle partorienti e degli indovini. Le erbe curative legate alla salute fisica e mentale erano i suoi principali strumenti di lavoro. Di solito la si raffigurava sotto forma di Albero della Vita, con ai piedi i fiori dei colori delle Quattro Direzioni sacre che secondo il mito sarebbero anteriori alla nascita dell’Universo.

Ma via via che la comunità umana perdeva la sua dimensione spirituale, allontanandosi dall’eredità verticale ricevuta dai Fondatori, anche l’importanza delle Nonne cominciò a sbiadire. Sul fare della fine, anzi, qualcuno cercò persino di fregare una Grande Nonna, rimanendo a sua volta fregato.

Fu il caso di un celebre trickster ed eroe culturale polinesiano, Maui, che intenzionato ad ottenere l’immortalità partì con alcuni compagni in sembianze d’uccello (sciamani?) in cerca dell’autorevole nonna Hina-nui-te-po, la grande dea della Notte che governava i morti.

Quando Maui arrivò nell’aldilà trovò la Grande Nonna addormentata. Non ridete vedendomi entrare nel corpo di questa vecchia condottiera, disse ai compari, altrimenti la Nonna si sveglierà e mi ucciderà. Potrete ridere solo quando mi vedrete spuntare fuori dalla sua bocca, perché a quel punto sarò fuori pericolo, io vivrò per sempre mentre Hina-nui-te-po morirà.

Maui di tolse dunque i vestiti e cominciò ad entrare nel corpo della vecchia, infilandosi nella sua vagina. I piedi però gli rimasero fuori, un fatto che scatenò l’ilarità degli «uccelli» presenti. Ma la risata svegliò Hina-nui-te-po, che subito schiacciò Maui nel suo grembo interrompendo sul nascere quella folle impresa.

Il nipote che voleva gabbare la Nonna finì così per essere gabbato e non ottenne l’immortalità che intendeva donare a tutto il genere umano. In compenso, il tentativo fallito fece nascere presso il suo popolo un detto che presto si diffuse in tutte le isole dell’arcipelago: “Gli uomini creano gli eredi, ma la Morte glieli toglie”.

Morale: più che di libri eruditi e di regole imposte, l’umanità ha bisogno di esempi viventi per evolvere. Finché i vecchi continueranno a sognare, i giovani potranno vedere il futuro. Diversamente ci sarà, come c’è adesso, una baraonda infernale di persone che dicono la loro senza omogeneità di cognizioni, né vere conoscenze, o capacità di mostrare in concreto quello che si deve fare perché così va fatto.

I Nonni hanno una lunga esperienza e molto spesso, anche se non sempre, sanno prendere la decisione giusta al momento opportuno. Se Hina-nui-te-po non avesse bloccato sul nascere l’idea di Maui di donare all’uomo l’immortalità, se nessuno fosse più morto e il genere umano avesse continuato a riprodursi, oggi una sola Terra non basterebbe a contenerci tutti.

Maui aveva l’ambizione di diventare il profeta di una nuova Era ma la sua dottrina, come tutte le dottrine, in realtà era una semplice teoria. Quando ai saggi «visionari» si sostituiscono i giovani «profeti», testimonianza dell’avvento di una spiritualità scomposta e sospetta, un’epoca sta per chiudersi e un’Era sta per finire. Quando il patrimonio raccolto dagli Avi non viene più trasmesso alla discendenza e il sapere tradizionale viene rimpiazzato da movimenti vitalisti, attivisti e un po’ nevrotici (magari sponsorizzati da gruppi non esenti da secondi fini), vuol dire che la fine si avvicina.

Una società sana non separa la conoscenza che non agisce (quella del vecchio) dall’azione che non conosce (quella del giovane) perché le due cose si completano a vicenda e devono procedere insieme. Nulla al mondo può essere assicurato una volta per tutte, o considerato definitivo, per cui torna utile un certo grado di incoscienza giovanile. Mentre la prudenza dei vecchi insegna a seguire una tradizione, a vivere nel rispetto di questa, il che non vuol dire ripetere come un pappagallo ammaestrato le parole e i gesti di chi ci ha preceduto ma semmai fare tesoro degli errori pregressi per aggiustare il tiro prima di andare avanti.

 

Rita Remagnino

 

 

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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