10 Aprile 2024
Archeostoria

Il triveneto preromano, celtico e megalitico, quarta parte – Fabio Calabrese

I tre articoli che hanno preceduto questo costituiscono il testo della conferenza da me tenuta al Triskell, il festival celtico triestino, tuttavia nella preparazione della stessa mi sono trovato per le mani diverso materiale che, per motivi di lunghezza (e voi avete visto che si tratta di un testo molto ampio), ho preferito non utilizzare, tuttavia, nulla vieta di aggiungere ora un quarto articolo che li includa completando il discorso.

Bisogna dire che, poiché si tratta di una tematica che ho seguito con particolare interesse negli anni, questo materiale, queste fonti presentano un campionario piuttosto vasto ed eterogeneo.

In realtà, questo campionario sarebbe potuto essere più vasto se nel dicembre 2018 non avessi subito quella formattazione di cui vi ho parlato, soprattutto riguardo alla serie di articoli I volti della decadenza che è quella che ha subito i maggiori sconvolgimenti, ma per fortuna un archivio che funziona ancora abbastanza bene, è quello della memoria.

Riguardo alla tematica che ora ci interessa, avete visto che una delle fonti che ho citato con maggiore ampiezza è stata l’antologia Kurm a cura di Roberto Tirelli, edita nel 2002 dall’associazione La Bassa di Latisana (Udine). (Questo titolo inconsueto è una parola celtica che significa “luogo umido” e la cui radice troviamo anche nel nome del Cormor, il fiume udinese, ed era probabilmente uno dei termini con cui ci si riferiva in età preromana all’area del Friuli attuale).

Bene, “La Bassa” è esistita anche sotto forma di rivista (per chi non conosce il Friuli Venezia Giulia, sarà bene chiarire che “La Bassa” friulana indica la zona pianeggiante e meridionale del Friuli al disotto della linea delle risorgive), ne ho trovati diversi numeri nella biblioteca della mia scuola, e in particolare in un numero del 1999, anch’esso sostanzialmente un volume, dedicato alla transizione epocale che, almeno stando alle cifre, si stava allora verificando, Alle soglie del nuovo millennio c’era un bellissimo articolo che ho fotocopiato e poi scannerizzato, ma il file relativo è andato perso nella formattazione di cui sopra, tuttavia ve ne posso esporre il contenuto, anche perché ho avuto la fortuna di ritrovarne un piccolo estratto che avevo citato in un altro articolo.

L’autore è Enrico Fantin. Il titolo è Una civiltà che sta scomparendo alle soglie del terzo millennio, ed è accompagnato da un ampio sottotitolo: Analisi storica della civiltà contadina in un territorio compreso fra due regioni e diviso da un fiume (Le due regioni sono il Friuli e il Veneto ed il fiume è la Livenza, ma l’analisi s’incentra soprattutto sul Friuli). Il testo si presenta come una sorta di bilancio alla vigilia del trapasso di secolo e di millennio, esponendo delle considerazioni in questo caso riferite al mondo friulano-veneto, ma senz’altro dotate di valore più ampio, nelle quali penso sia possibile riconoscersi a prescindere dall’appartenenza regionale.

L’autore fa notare che l’avvento della società industriale, che per l’Italia si può datare a non prima degli anni ’50 del XX secolo, ha totalmente sconvolto rapporti comunitari, tradizioni, modi di vita, valori, segnando la scomparsa, appunto, della società contadina nella quale i nostri antenati sono vissuti fin dalla preistoria.

Bisogna notare che fino alla metà del secolo scorso, il Friuli e il Veneto erano terre povere, da cui le esigenze della sopravvivenza drenavano una consistente emigrazione, non meno di quanto avvenisse per il nostro meridione.

Tuttavia, proprio il fatto che si trattasse di ambienti poveri e relativamente chiusi, ha permesso fino alle generazioni che ci hanno preceduto, la conservazione di una serie di valori oggi praticamente scomparsi, che sono quelli che hanno caratterizzato la società contadina: la frugalità, la laboriosità, il senso della famiglia, l’attaccamento alle tradizioni, il senso di appartenenza a una comunità. La modernità ci ha privati/ci sta privando di tutto ciò, e ci troviamo sperduti in essa come naufraghi nell’oceano.

Ma veniamo ora al materiale superstite, che fortunatamente non è poco. Si tratta, come vi dicevo, di una massa di materiale eterogeneo, frutto di anni di lavori e di ricerche. Lasciando stare ora Kurm che ho citato con ampiezza nelle parti precedenti, abbiamo il libro La dea veneta di Pietro Favero, poi gli articoli di Maria Visentini sulla rivista “Friuli Venezia Giulia, scuola e cultura”, quindi Il regno dei Fanes di Adriano Vanin: il libro e il sito che è stato tenuto aggiornato fino al 2014, una parte, quella dedicata al venetico dell’ormai vetusto (1961) ma sempre valido testo di Johannes Friedrich La decifrazione delle scritture scomparse, un ampio articolo di Silvano Lorenzoni pubblicato dal Centro Studi La Runa sui Veneti preromani, e ancora diverso materiale sull’argomento proveniente dal defunto portale celtico Celticworld.

“Friuli Venezia Giulia, scuola e cultura” è stata una rivista di notevole spessore culturale dedicata soprattutto agli insegnanti, io stesso vi ho collaborato con regolarità. Maria Visentini, la nostra specialista in storia antica, grazie a essa ha fatto il balzo dalla dimensione locale a quella nazionale, collocando alcune collaborazioni su una testata di prestigio come “Archeo”.

Riguardo ai Celti che si insediarono in Friuli Venezia Giulia in epoca preromana, ci racconta:

Essi erano divisi in molte tribù guidate da capi guerrieri e da «regoli»; abitavano dapprima in insediamenti sparsi poi in borghi fortificati (oppida), conducevano una vita essenzialmente rurale ed esplicavano attività artigianali specialmente qualificate nella lavorazione dei metalli. La loro abilità nella fattura di armi e suppellettili ha dato vita a una personale espressione artistica particolarmente sensibile al valore della linea e dell’intreccio. Una certa uniformità nella civiltà celtica si è creata con l’unità della religione e dei miti che queste genti, pur cosi disperse, avevano in comune assieme alla lingua. Li possedeva un irrequieto e avventuroso spirito di conquista e di espansione che durante il IV sec. ha portato diverse tribù a oltrepassare le Alpi e a insediarsi nella pianura del Po (Gallia Cisalpina) e lungo le coste adriatiche fino alle Marche.

(…).

I Gallo Carni, dunque, come è confermato dai dati archeologici che postulano insediamenti di epoca celtica, si stanziarono nella nostra regione. Cerchiamo di descrivere sinteticamente il loro modo di vivere e la loro economia. Sappiamo che i celti era buoni soldati, ma non erano altrettanto abili nell’organizzare l’attività politica. Non riuscirono a esprimere stabili istituzioni accentrate, ma furono sempre tenacemente isolati nei particolarismi tribali. Avevano costumi semplici, vivevano in povere capanne ed erano dediti all’agricoltura. Quest’ultima era esercitata su terre comuni, che erano disboscate per coltivare generalmente il frumento nelle due qualità di “triticum monococcum” e “triticum bicoccum”, l’orzo e il miglio. L’attività agraria bastava per il fabbisogno del villaggio e .pertanto chiariva i limiti di una società caratterizzata dal separatismo e circoscritta nel piccolo mondo delle tribù. Avevano bisogno di grandi spazi per i liberi pascoli e per la caccia. Infatti, all’agricoltura si accompagnava l’allevamento degli animali domestici, che avveniva allo stato brado, e il primitivo sfruttamento delle risorse territoriali di caccia e di raccolta. Un’economia primitiva, insomma, si poteva ritrovare anche nelle zone montane, nelle quali era praticata soprattutto la pastorizia, mentre nella pianura avevano il sopravvento l’agricoltura e l’allevamento del bestiame.

Tutto questo, naturalmente, era limitato ad alcuni sparsi luoghi del territorio friulano, che in genere presentava un ambiente naturale pressoché intatto e originale. Gli insediamenti dei Gallo-carni con nuclei abitativi di modestissima entità, formati da capanne allestite con il legname dei vasti boschi e circondare dalle terre messe a coltura, non alteravano, se non in minima parte, un quadro d’ambiente che fu invece radicalmente mutato con l’avvento dei Romani”.

L’abbiamo già visto: mentre il Friuli era celtico, Carnia, terra dei Galli Carni (denominazione allora estesa all’intera regione e non solo alla sua parte montana), il Veneto era ovviamente venetico, e per capire chi fossero questi Veneti preromani, sarà utile per prima cosa fare riferimento al testo di Johannes Friedrich:

Mentre tra latino ed osco-umbro vi è una stretta affinità linguistica ed una comunanza di cultura, le cose stanno alquanto diversamente riguardo alla lingua dei Veneti, popolo che abitava la regione nordorientale dell’Italia. Questa lingua non è un dialetto italico, ma probabilmente è un ramo indipendente del ceppo indoeuropeo che ha punti di contatto con l’italico ma anche con il celtico, il germanico e l’illirico”.

Quel che vale per la lingua, vale anche per la popolazione che la parlava, i Veneti non sarebbero stati italici veri e propri (cioè appartenenti al gruppo latino-osco-umbro), ma una diversa popolazione indoeuropea, originaria probabilmente dell’Europa centrale, che in età storica era insediata in tre aree distinte: nell’attuale Polonia, nella Francia/Gallia di nord-ovest (dove Cesare ebbe modo di incontrarli, e ne parla nel De bello gallico come di eccellenti marinai), e ovviamente nel nord-est italico.

Il testo più ampio di cui disponiamo sui Veneti antichi è probabilmente il libro La dea veneta a cura di Pietro Favero. Esso mette in risalto una peculiarità del mondo venetico, alla sommità del cui pantheon non vi era un dio maschio come Brahma, Odino o Zeus, ma una divinità femminile, Reitia, a proposito della quale scrive:

Generalmente, al vertice delle antiche gerarchie mitologiche c’era una divinità maschile, come Giove oppure Odino. Presso i Veneti era differente: pur dislocati in distanti regioni d’Europa essi sempre veneravano una Dea suprema, come Jiva nel Baltico o Reitia nell’Alto Adriatico e nelle Alpi Orientali. In realtà Reitia è una dea misteriosa; reggeva una chiave e probabilmente aveva per compagni il lupo e l’anatra, ma assai poco è noto su questa dea veneta ed i suoi riti religiosi. L’aspetto più importante del culto erano i roghi votivi associati ai banchetti votivi e ciò risulta molto simile ai costumi micenei, come pure lo è l’usanza funeraria dell’incinerazione dei morti”.

Il testo è però molto di più, ci dà una panoramica della storia di questo disperso popolo venetico che, provenendo probabilmente da una sede originaria nell’Europa orientale in prossimità del Baltico, si sarebbe diffuso un po’ in tutta Europa giungendo non solo nel nord-est italiano e nella Gallia di nord-ovest, ma in un’area estremamente vasta, dal mondo miceneo alla Britannia, e a una tribù di questi Veneti dispersi sarebbe appartenuto lo stesso re Artù, e questo ci permette in modo spontaneo di stabilire un collegamento fra Reitia e la figura della Dama del Lago, probabilmente la più enigmatica fra quante compaiono nel ciclo arturiano.

Il nostro Silvano Lorenzoni, lui stesso di buon ceppo veneto, nel 2000 ha pubblicato sul sito del Centro Studi La Runa un ampio e interessante articolo sui Veneti preromani nel contesto indoeuropeo. Il dato che salta maggiormente agli occhi, è che egli collega i Veneti al tipo antropologico alpino, e credo che al riguardo ci sia bisogno di una spiegazione.

Mi rifaccio a quanto vi ho detto nella prima parte:

Paleoveneti-atestini, Euganei, Reti, Ladini, Liburni. Queste popolazioni cominciano a essere un po’ troppe per una zona di mondo tutto sommato non grandissima come la nostra triplice regione: io mi sentirei di avanzare l’ipotesi che si trattasse della stessa popolazione, sommersa prima dall’invasione dei Veneti, poi dall’arrivo dei Celti e infine dalla conquista romana, della quale alcune parti emergono come isole quelle che un tempo erano le alture maggiori di una pianura allagata”.

E’ verosimile che per i Veneti valga lo stesso discorso che si potrebbe fare per moltissime altre popolazioni indoeuropee, formate dalla sovrapposizione di un’élite di conquistatori di origine nordica a un sostrato di altra provenienza che tuttavia mantiene la sua identità, e in questo caso appunto di ceppo alpino.

A tale proposito, Lorenzoni scrive:

Fin dai tempi preistorici le genti alpine ebbero come caratteristica la laboriosità, la serietà nell’impegno preso e l’ingegno tecnico; e questo si riflette nei tempi moderni quando le zone trainanti dal punto di vista economico (economia reale, non virtuale all’americana) sono quelle dove c’è un forte elemento alpino”.

La laboriosità e l’industriosità delle genti venete avrebbero portato ad uno sviluppo molto precoce di queste regioni.

“Già nei secoli XVIII – XI nel Veneto c’era un’importante industria del bronzo, che veniva importato grezzo dal Trentino e lavorato localmente in diversi luoghi. A quei tempi venivano già fatti i bronzetti votivi tipicamente veneti che si continuarono a fare anche dopo l’avvento degli indoeuropei – non a caso, nel Veneto, gli ex-voto furono sempre di bronzo e non di ceramica come nel resto dello spazio geografico italico. L’industria del bronzo continuò a essere, anche in tempi romani, particolarmente importante nel Veneto: le cosiddette situle, vasi di bronzo ornati di scene quotidiane, di contro agli stili geometrici in vigore in quasi tutto il resto dell’Europa, incominciano a essere prodotte nel VI secolo e rappresentano una continuazione ed evoluzione di un artigianato del bronzo già in pieno rigoglio agli inizi del II millennio. Già in tempi preindoeuropei, è chiaro, c’era una florida attività artigianale e commerciale”.

“L’alto Adriatico, crocevia fra l’Europa settentrionale e orientale e il mondo etrusco e greco e poi romano, divenne un centro artigianale e un crocevia commerciale di tutto rispetto. Attraverso il Veneto passava la via dell’ambra, proveniente dal Baltico, ma si commerciava anche in sale, vino, metalli grezzi e lavorati, ceramica (il Veneto, fin da allora, fu terra di grandi ceramisti) e in cavalli, i cavalli veneti essendo fra i migliori d’Europa – i veneti furono grandi allevatori di cavalli (…). Già nel secolo VII c’era una moneta veneta, l’aes rude, sostituita nel secolo III dalla dracma venetica di tipo massaliota e poi, nel I secolo, dalla monetazione romana”.

I rapporti fra Celti e Veneti nell’area triveneta furono senz’altro complessi, e al riguardo sulla Celticpedia di Celticworld comparve un interessante articolo, Archeologia della presenza celtica nel Veneto, firmato Elkjaer (tutti noi sulla Celticpedia dovevamo usare degli pseudonimi, io ero Romnod), ve ne riporto la conclusione senz’altro condivisibile:

Nonostante il Veneto non possa essere definito un antico territorio gallico appare evidente la presenza celtica e la sua commistione con l’elemento autoctono. I Celti non occuparono il Veneto: si attestarono in alcune zone, crearono delle infiltrazioni nel territorio e si integrarono con la popolazione locale (attestazioni onomastiche di “matrimoni misti”)”.

A margine di questo articolo, si sviluppò un interessante dibattito, e un lettore (questa volta firmando col suo nome, ma io preferisco citarvi soltanto le iniziali: L. P.) ci diede questa sorprendente informazione:

Sul perdurare delle religioni amminico-naturalistiche definite come “pagane” e “paganesimo” in generale ci sarebbe da aprire un grande dibattito. Nei Monti della Lessinia (ubicata pressoché in provincia di Verona) , e come altre zone montane che rimasero isolata, il paganesimo riuscì a sopravvivere e convivere fino alla prima grande Guerra Mondiale che spinse verso un’accelerazione sociale e iniziando quella globalizzazione e uniformità che appiattirà le culture locali ed estirperà definitivamente la spiritualità sciamanica, le feste, i riti
e le liturgie di un mondo arcaico che non solo ricercava l’anima degli uomini e nelle cose, ma toccava e riusciva a penetrare negli altri infiniti mondi
”.

Non è un discorso che ci viene completamente nuovo: noi sappiamo che nella cultura contadina, nelle sue tenaci tradizioni, sopravvivono sotto il velo della cristianizzazione notevoli elementi della più arcaica spiritualità europea, ma da qui alla sopravvivenza di un paganesimo consapevole fino a un’epoca così vicina a noi, ce ne corre, e io non metterei la mano sul fuoco su queste affermazioni.

Rimane tuttavia incontestabile il fatto che abbiamo alle spalle una grande eredità, di cui dobbiamo cercare di essere degni e di preservare quanto più possibile.

 

NOTA: Nell’illustrazione, tumulo venetico dell’Età del Bronzo (foto: Auro Wild).

 

 

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