11 Aprile 2024
Sapienza Greca

Il segreto di Afrodite – Nicola Bizzi

Un segreto inconfessabile, noto solo a ristrette cerchie di Iniziati, si celerebbe dietro la nascita di Afrodite e la costruzione del suo mito

 

 

William Adolphe Bouguereau: Naissance de Vénus, 1879
(Parigi, Musée d’Orsay)

 

 

In un mio saggio di prossima pubblicazione, La Teogonia di Esiodo: prospettive esoteriche ed iniziatiche, “vivisezionando” letteralmente con gli occhi e con gli strumenti dell’Iniziazione Eleusina quello che è considerato il principale poema cosmogonico, teogonico e teologico della Tradizione ellenica, ho posto in luce molti dei suoi enigmi irrisolti, molte delle sue apparenti contraddizioni e numerosi dei misteri e dei segreti iniziatici che si celano, abilmente nascosti agli occhi dei profani, fra i suoi versi talvolta oscuri e sibillini. E, facendo questo, ho affrontato in maniera meticolosa molti dei temi trattati da Esiodo nel suo testo. Fra questi ve n’è uno assai poco oggi affrontato dai mitologi, dai filologi e dagli storici delle religioni, che probabilmente (e superficialmente) lo ritengono forse non meritevole di adeguati approfondimenti, oppure già adeguatamente trattato e approfondito. Un tema che ho invece dimostrato essere denso di incognite e di interrogativi mai risolti, al punto da celare un indicibile segreto, un segreto mai fino ad oggi rivelato e da sempre tenuto nascosto da determinati ordini iniziatici. Mi sto riferendo alla nascita di Afrodite.

Nei versi dal 188 al 206 così Esiodo nella Teogonia ci descrive la nascita della Dea Afrodite (Ἀφροδίτη) dalla spuma marina, frutto del seme del membro di Uranós gettato da Kronos, dopo l’evirazione del Padre, nelle acque del mare:

 

«Come [Kronos] ebbe tagliato i genitali con l’adamante,
dalla terra li gettò nel mare agitato.

Così per lungo tempo furono portati al largo;

ed intorno all’immortale membro sorse una bianca schiuma

e da essa nacque una fanciulla: dapprima giunse a Kýthera divina,

poi arrivò a Kýpros lambita dai flutti:
lì approdò la Dea veneranda e bella

e l’erba nasceva sotto i suoi morbidi piedi; gli uomini

e gli Dei la chiamano Aphrodíte, Kýthereia dalla bella corona 

e  Aphrogenéa, perché nacque nella schiuma;
la chiamano Kýthereia, perché approdò a Kýthera;

oppure Kyprogenéa, perché nacque a Kýpros;
ovvero Philommedéa perché nacque dai genitali.

Eros l’accompagna e Hímeros il bello la segue,
da quando appena nata andò dalla stirpe degli Dei.
Sin dal principio Ella ebbe tale sorte e tale onore,
come destino tra gli uomini e gli Dei immortali:
le chiacchiere delle fanciulle, i sorrisi e gli inganni,
il dolce piacere, l’affetto soave»
[1].

 

Poche Divinità come Afrodite sono state, nella letteratura e nella Tradizione religiosa e mitologica della antica Grecia, soggetto e al contempo oggetto di pesanti snaturamenti e stravolgimenti di immagine, natura e significato, tanto da alterarne ed occultarne in maniera così incisiva l’autentica natura, e potrà sorprendere molti il fatto che, nella Tradizione Misterica e nella Teogonia dell’Eleusinità Madre, non è Afrodite ad essere nata dalla spuma marina generatasi per il contatto fra il seme di Uranós e le acque del mare, bensì sua madre Dione (Διώνη). Occorre quindi, prima di affrontare la figura di Afrodite, focalizzare l’attenzione su questa importante Divinità, anch’Ella oggetto di pesanti snaturamenti e stravolgimenti da parte di una certa letteratura permeata dalla religiosità Olimpica.

Antichissima Dea Titana venerata dalle popolazioni pelasgiche pre-greche della Grecia continentale e dell’area dell’Egeo fin dai tempi più remoti, Dione ebbe un suo Santuario nella fredda città di Dodona (Δωδώνη), in Epiro, ai piedi del Monte Mitsikèli, il più antico Santuario d’Europa, in cui aveva sede un Oracolo, il più antico di tutta la Grecia, i cui vaticini, scritti su laminette di piombo, venivano interpretati dai Sacerdoti della Dea attraverso il suono prodotto dallo stormire al vento di una quercia sacra alla stessa Dione, considerata per questo “parlante”. Ritenuta dai Pelasgi la massima Dea Madre, Signora del Cielo, della Terra e del Mare, nei Testi dell’Eleusinità viene spesso chiamata Dione-Akakal. Era infatti venerata nella Creta Minoica con il nome di Akakal, il cui significato etimologico è “Alta Bellezza”.

Nella mitologia greca più arcaica, Dione era infatti comunemente nota e venerata come una delle Dee Titane Primarie, ovvero della Prima Generazione Divina, e così infatti ce la presenta Apollodoro nella sua Biblioteca[2], ribadendo che Ella è una Titanide, figlia di Uranós e Gea, e quindi sorella di Temi, Rea, Teti, Mnemosyne e Teia. Esiodo, invece, nella sua Teogonia, cade in apparente contraddizione, poiché nel Proemio, al verso 17, menziona «la bella Dione» fra le massime Divinità, mentre, più avanti nel testo, non la menziona fra i Titani di Prima Generazione e finisce per includerla, al verso 353, fra le figlie di Okeanós e Tetys, retrocedendola così ad una delle tremila Oceanine. Questo ha fatto pensare, più che ad una “svista” di Esiodo, ad un’alterazione successiva del testo, ad una sorta di “censura” finalizzata a rimuovere Dione dal novero dei Titani Primari, mentre per quanto concerne la sua presenza fra le Oceanine, non si può invece escludere che fra le tremila figlie di Okeanós e Tetys non ve ne fosse una con lo stesso nome della Grande Dea.

Ma Dione era una figura decisamente troppo ingombrante per il “nuovo ordine” zeutico e la grande venerazione di cui era ancora oggetto, in piena epoca micenea, presso quelle popolazioni pelasgiche naturaliter ostili a tale “nuovo ordine” fece sì che le classi sacerdotali di quest’ultimo corressero ai ripari, apparedrando Dione nientemeno che a Zeus, il suo massimo nemico! Fu così che Zeus le venne forzatamente affiancato nel culto come “marito” un po’ ovunque, addirittura nel massimo Santuario della Dea, quello di Dodona, dove la figura di Zeus, con il passare dei secoli, arrivò a mettere in ombra quella della “consorte”, fino a sostituirsi del tutto ad essa, divenendo in epoca classica lo “Zeus di Dodona”, l’unico titolare del Santuario e dell’Oracolo.

Fu anche necessario, nel contesto di questa operazione politico-religiosa, dare a Zeus e a Dione una figlia e, siccome non fu trovata per tale ruolo una figura divina credibile o adattabile fra le tante che già erano state oggetto, fino all’inverosimile, di simili manipolazioni, si ricorse ad una nuova Divinità “costruita”: Afrodite.

Il nome Ἀφροδίτη, come sostengono unanimemente i moderni filologi, non è attestato in Lineare B (Miceneo), ed il suo significato etimologico, al di là del suo accostamento al termine ἀφρός (afrós, “spuma del mare”), evidenziato da Esiodo che la definisce Aphrogenéa al verso 196 della Teogonia, resta del tutto incerto. E anche sulle sue origini non vi è mai stata piena concordanza. Ed il suffisso δίτη (dite), come mi ha fatto osservare Guido Maria St. Mariani di Costa Sancti Severi, evoca necessariamente gli Inferi, l’Oltretomba, il mondo sotterraneo, facendo ipotizzare riguardo a questa Divinità aspetti della sua natura fino ad oggi non contemplati o non del tutto presi in considerazione dagli storici delle religioni, dagli storici e dai mitologi.

Nell’Inno Omerico ad Afrodite la Dea emerge nuda dalle acque del mare e viene accolta dalle Horai, che l’abbigliano con divine vesti, e già ai tempi di Omero possiamo vedere come l’operazione politico-religiosa che abbiamo detto avesse sortito i suoi pieni effetti. Nell’Iliade, infatti, Ella appare già come figlia di Zeus e di Dione, ma vi è però una contraddizione: Afrodite difende i Troiani ed è madre dell’eroe Enea, da Lei generato con il Troiano Anchise. Sempre nell’Iliade (terzo libro), salva Paride quando sta per essere ucciso da Menelao. In queste vicende la Dea, schierandosi apertamente con i Troiani, dimostra implicitamente di rifiutare la paternità zeutica attribuitagli, in quanto furono gli Dei Titani i sostenitori per eccellenza dei Troiani, rappresentando Tarua dei Teucri uno degli ultimi baluardi del loro antico ordine. Ma non finisce qui: ancora nell’Iliade Ella, intervenendo per salvare suo figlio Enea, che, ferito, rischia di restare ucciso nella mischia, mentre cerca di coprirlo con il suo peplo sgargiante, viene vista da Diomede che le scaglia contro una lancia ferendola gravemente al polso (fatto che potrebbe denotare una sua origine umana piuttosto che divina), tanto da essere richiamata all’ordine dal suo presunto “padre” Zeus, che la rimprovera di occuparsi di fatti guerreschi anziché attendere a quelli riguardanti «amabili questioni d’amore» che sarebbero di sua competenza[3].

Secondo la narrazione omerica, disperata, Afrodite lascia Enea alle cure di Apollo e ripara sull’Olimpo, dove si getta ai piedi della madre Dione. Al vederla, la madre domanda la causa del suo dolore, dando per scontato che solo un immortale avrebbe potuto procurarle quella ferita, ma Afrodite le svela il contrario, confermando ulteriormente la sua possibile origine non divina. Un tema che risulta fondamentale e sul quale torneremo più avanti.

Anche nell’Odissea Afrodite dimostra di avere già assunto la sua prerogativa di Dea dell’amore, ma qui Omero ce la figura come moglie del Dio Efesto, ma amata contemporaneamente anche da Ares (Ἄρης), originariamente un Dio tracio della vegetazione, successivamente “cooptato” dalla religione Olimpica e divenuto noto nella mitologia ellenica come figlio di Zeus e Hera e come Divinità simboleggiante gli aspetti più violenti della guerra e della lotta intesa come sete di sangue. Non a caso, sempre Omero ci riferisce che fu proprio in Tracia che Ares decise di ritirarsi dopo essere stato sorpreso mentre si univa ad Afrodite[4]. Dall’unione fra questo Dio e Afrodite, secondo la tradizione ellenica, anche se le fonti risultano alquanto contrastanti, sarebbero stati generati Eros (Ἔρως), Dio dell’amore fisico e del desiderio, Anteros (Άντέρως), Dio dell’amore corrisposto, Imeros (Ίμερος), gemello di Eros e uno degli Eroti, Pothos (Πόθος), personificazione del desiderio d’amore carnale, Armonia (Ἁρμονία), Dea dell’armonia e della concordia, che Zeus diede in sposa a Cadmo come ricompensa per averlo liberato dal mostro Tifeo, Adrestia (Ἀδρήστεια), Dea dell’equilibrio fra bene e male, che sovente accompagnava il padre Ares alla guerra, Deimos (Δεῖμος), personificazione del terrore che suscita la guerra[5], Phobos (Φόβος), personificazione della paura, e Priapos (Πρίαπος), personificazione dell’istinto e della forza sessuale maschile e della fertilità della natura[6].

Ulteriori fonti attribuiscono ad un’unione fra Afrodite e Hermes la nascita dei già menzionati Eros e Priapos e di Ermafrodito (Ἑρμαφρόδιτος), trasformato, come ci riferisce Ovidio, in un essere androgino dopo la sua unione con la Ninfa Salmace, di Eumonia (Εὐνομία), Divinità minore della legge e della legislazione, da altre fonti menzionata come figlia di Zeus e Themis e come una delle Horai di seconda generazione, Peitho (Πειθώ), personificazione della persuasione in quanto auspicabile nelle relazioni amorose, e Tyche (Τύχη), personificazione della fortuna.

Secondo Platone, sarebbero esistite due Afrodite: la prima, nata da Uranós, era l’Afrodite Urania, Dea dell’amore puro, la seconda, l’Afrodite Pandemia (cioè l’Afrodite del Popolo), figlia di Zeus e Dione, Dea dell’amore volgare. Tuttavia, si tratta di un’interpretazione filosofica tardiva, estranea ai più antichi miti della Dea. Di queste due Afrodite, infatti, Platone, nel Simposio, dà un’interpretazione mistica in senso antimondano, e dunque antidivino, per cui l’Urania riscuote tutto il suo favore, assurgendo a simbolo dell’amore ideale, mentre la Pandemia diviene ai suoi occhi simbolo dell’amore volgare. In tal senso, come rileva l’enciclopedia on-line della De Agostini Sapere.it[7], la funzione dialettica di un’Afrodite precosmica poteva coinvolgere l’aldilà (inteso come l’altro mondo o addirittura l’antimondo), il che è attestato dai suoi numerosi attributi funerari e particolarmente dall’epiteto di Pasifaessa (“colei che splende ovunque”) che Ella ha in comune con la Regina degli Inferi (e qui ci ricolleghiamo all’osservazione di Mariani di Costa Sancti Severi), o coinvolgere un mondo religioso marginale, quello magico degli incantesimi, delle malie e dei filtri amorosi, ieri come oggi tipico della religiosità popolare. Elementi che contribuiscono a fare di Afrodite anche una Divinità ambigua e imprevedibile, capace di infondere la sua benevolenza, ma anche di arrecare disgrazie e sventure. Non a caso, fra i suoi numerosi epiteti vi erano quelli di Doloplokos (“tessitrice d’inganni”) e di Epitymbidia (“colei che sta sulle tombe”).

Assimilata dai Latini a Venus (Venere), la Dea italica della bellezza, dell’amore e della fecondità, l’origine e il significato etimologico del cui nome è anch’esso incerto e ancora oggi dibattuto fra i mitologi e i filologi, assunse nella tradizione religiosa romana una grandissima importanza anche “politica”, proprio per la sua veste di madre dell’eroe troiano Enea e, di conseguenza, della stessa Gens Julia. E Virgilio, nell’Eneide, si adegua sostanzialmente alla tradizione omerica, chiamandola con l’appellativo di “dionea”, allo stesso modo di Ovidio. Igino, invece, nelle sue Fabulae, confermando di essere non solo un grande erudito, ma anche un valente Iniziato, narrandoci della nascita della Dea, come scrive Antonio Marcianò in un suo articolo[8], non riporta la stereotipata versione ellenica, bensì una interessantissima versione orientale frutto di una contaminatio del mito greco della nascita di Afrodite con quello della Dea Atargatis (chiamata talvolta anche Atagartis), nata da un uovo caduto dal cielo nel fiume Eufrate.

Rilievo del I° secolo d.C. raffigurante la Dea Atargatis con corona turrita e due colombe ai lati, dal Tempio di Adone a Dura Europos, Siria (Yale University Art Gallery)

Atargatis, come rileva sempre Marcianò, era una Divinità dell’umidità fertilizzante, corrispondente alla Inanna sumerica e alla Ištar babilonese. Non si conosce con certezza il nome originale di questa Dea, ma i filologi suggeriscono che la sua denominazione primigenia fosse Ata Divina, collegata alle grandi Ištar e Astarte[9]. Così ce la descrive Patricia Monaghan nel suo Dizionario delle Dee e delle Eroine:

«Ella discese dal cielo sotto forma di un uovo da cui emerse la Dea-sirena. Bella e sapiente, suscitò la gelosia di un rivale che la maledisse, augurandole di consumarsi d’amore per un bellissimo giovane. Ella restò incinta del ragazzo e partorì Semiramide. Poi si assicurò l’eterna fedeltà del giovane rendendolo invisibile. Dopo aver portato la figlia nelle foreste dove fu nutrita ed accudita da colombe, Atagartis si gettò in un lago e divenne un pesce… In onore suo e di sua figlia, i Siriani non vollero più mangiare colombi e pescare. Questa la forma base della sua leggenda, ma ve ne erano delle varianti: quella di Dea della vegetazione, quella di Dea del cielo, con la testa cinta di un velo di nubi e circondata da aquile, quella infine di Dea del mare, coronata di delfini. I suoi Santuari contenevano tranquilli laghetti pieni di pesci, circondati da alberi sacri su cui i colombi si appollaiavano. Durante l’epoca romana, Atagartis era venerata con danze estatiche da sacerdoti eunuchi. Atagartis è una figura paragonabile ad Ishtar e a Cibele»[10].

Leggiamo adesso il passo della Fabulae di Igino relativo alla nascita di questa Divinità, passo in cui Marcianò evidenzia alcuni aspetti suscettibili di un’esegesi clipeologica:

«Si racconta che nel fiume Eufrate cadde dal cielo un uovo di straordinaria grandezza. Si narra che i pesci si riversarono sulle sponde, mentre delle colombe si posarono sull’uovo e, scaldatolo, si aprì portando alla luce Venere, in seguito chiamata Dea Syria. A quella Dea, poiché superò gli altri Numi in giustizia e probità, da Giove fu data la facoltà che i pesci fossero trasformati in astri. Per questo motivi i Siri considerano i pesci e le colombe nel novero degli Dei e non se ne cibano»[11].

Alla luce di queste parole di Igino, non posso che concordare con l’ipotesi clipeologica avanzata da Marcianò, la quale apre del resto degli scenari interpretativi che già da molto tempo vengono contemplati, in maniera non profana, dalle Scuole Misteriche degli Eleusini Madre. Ed è interessante sottolineare, come fa Marcianò in una sua nota, che le colombe, assurte a simbolo di fecondità, divennero sacre sia all’Afrodite ellenica che alla Venere latina, e che la trasformazione dei pesci in astri riportata da Igino rientra nel fenomeno del Catasterismo (dal Greco Καταστερισμός, derivazione di  Καταστεριζω, “collocare fra gli astri”), molto presente nella mitologia classica, che prevede la trasformazione in astri del cielo, per lo più dopo la morte, di particolari animali, Eroi o uomini divinizzati, come Sovrani o Imperatori.

Rovescio di un sesterzio dell’Imperatore Filippo II° (247-249) emesso dalla zecca siriaca di Cyrrhestica, raffigurante la Dea Atargatis che cavalca un leone

In ogni modo, Afrodite andò sempre più assumendo, nel culto e nella tradizione letteraria, le caratteristiche di una Divinità dell’amore, inteso anche come attrazione delle varie parti dell’Universo tra loro, simboleggiando al contempo l’istinto naturale di fecondazione e di generazione, e anche sotto questi aspetti è stata da molti assimilata alla Ištar babilonese, all’Astarte fenicia e alla Inanna sumerica. E vedremo che, in effetti, esiste più di un collegamento con queste Divinità del Vicino Oriente nella “costruzione” della figura di Afrodite.

Il Filosofo stoico ed Iniziato Romano del I° secolo d.C. Lucio Anneo Cornuto, nel suo Compendio di Teologia Greca, così scriveva riguardo alla Dea:

«È verosimile che anche di Afrodite si tramandi che sia nata nel mare per nessun altro motivo se non per questo: affinché tutto venga all’essere, c’è bisogno di movimento e di umidità, entrambi presenti nel mare in abbondanza. (…) Afrodite, per altro, è la potenza che conduce insieme il maschile e il femminile: forse ha assunto tale denominazione in virtù del fatto che i semi generatori degli animali sono spumosi (aphróde) (…). È presentata come bellissima, poiché agli uomini risulta gradito in massima misura il piacere relativo al congiungimento come eccellente al di sopra di tutti gli altri, ed è chiamata per questo anche amante del sorriso (philomeidés). (…) La fascia ricamata, poi, è come adorna, trapunta e variegata, e ha il potere di legare e serrare insieme. È chiamata inoltre sia celeste (Ouranía), sia terrena (Pándemos), sia marina (Pontía), poiché la sua potenza si osserva sia in cielo sia in terra sia in mare»[12].

Gli ultimi tre epiteti riferiti da Cornuto, Ouranía, Pándemos e Pontía, non a caso li abbiamo già visti in riferimento a Dione, che dai popoli pelasgici era appunto ritenuta la Signora del Cielo, della Terra e del Mare, a dimostrazione di come la figura di questa scomoda Dea Titana Primaria sia stata offuscata e annubilata secondo un preciso disegno politico e le sue prerogative, non cancellabili per via del grande livello di devozione che aveva caratterizzato questa Divinità, tanto da essersi radicate nella mentalità popolare di innumerevoli generazioni, siano state trasferite in blocco alla “costruita” figura della “figlia”, Afrodite.

Il filologo Giulio Guidorizzi, in un suo recente saggio, scrive che:

«Afrodite rappresenta la potenza irresistibile dell’amore e l’impulso alla sessualità che stanno alla radice della vita stessa. In ogni creatura vivente la Dea, se vuole, sa accendere il desiderio, che procede come un incendio, travolgendo ogni regola (…). Al di là delle regole, al di là della giustizia, una forza possente travolge ogni creatura e la spinge a osare ciò che non avrebbe mai osato se fosse stata in senno. Poiché quando ama, ognuno sembra perdere la ragione, e si lascia trascinare dalla passione, quella di Afrodite è considerata μανία, una follia appunto, ma di tipo particolare: “i più grandi doni (scrive Platone, Fedro 244 a) vengono agli uomini da parte degli Dei attraverso la follia, quella che viene data per grazia divina”»[13].

Allo stesso modo, Filippo Cassola, in una sua celebre edizione critica degli Inni Omerici, evidenziava come la potenza divina di Afrodite risiedesse nell’amplesso (γάμος), non solo quello “legittimo”, perché «qualunque attività umana può assumere una dimensione sacrale; e l’amplesso è sacro in quanto vi si manifesta “la forza” (δύναμις) che congiunge l’elemento maschile con l’elemento femminile, impersonata da Afrodite»[14].

Tutte prerogative e caratteristiche che, ancora una volta, non possono non ricondurci all’Astarte fenicia, alla Ištar babilonese, alla Inanna sumerica o alla siriaca Atargatis, nota nell’antichità anche come Dea Syria, che Michail Ivanovič Rostovcev amava chiamare «la Grande Signora delle terre della Siria del Nord»[15].

Tutti gli indizi, quindi, come abbiamo visto, ci portano ad un’origine orientale della figura di Afrodite e a una sua diretta derivazione dalle figure di Inanna, di Ištar, ma soprattutto dalla Atargatis siriaca e dalla Astarte dell’area siro-cananea.

Astarte (Αστάρτη in Greco, Ashtoreth in Ebraico, Atirat in Ugaritico e Atarsu in Accadico), è sostanzialmente assimilabile alla Atargatis siriaca, pur con alcune debite differenze connesse proprio con l’area di provenienza e formazione del suo culto, fattori che ne hanno delineato un contorno mitologico peculiare. La figura di Atargatis, infatti, nonostante la sua nascita dall’Eufrate narrataci da Igino, giunse in Siria non dall’area mesopotamico-babilonese, bensì da Settentrione, dall’Anatolia, attraverso gli Hittiti e la loro influenza politica e religiosa. Tuttavia, poiché il territorio siriano fu ugualmente permeato dall’influenza hittita e da quella babilonese, e prevalendo in ogni caso gli elementi comuni, le due figure divine hanno finito per fondersi quasi ovunque, mantenendosi distinte solo in alcune località, come ad esempio ad Ascalona in Palestina, dove, come ci riferisce Luciano di Samosata, si trovavano Templi di entrambe le Divinità[16].

Dante Gabriel Rossetti: Astarte Syriaca, 1875
(Manchester, Manchester Art Gallery)

Venerata come una Grande Madre da tutte le popolazioni fenicio-cananee, Astarte ebbe fra i suoi maggiori centri di culto Sidone, Tiros, Ascalona e Byblos, ma Templi e Santuari a Lei dedicati sorsero in tutti gli insediamenti fenici del Mediterraneo centro-occidentale, fra cui Malta, Tharros in Sardegna e Erice in Sicilia, dove la Dea divenne una figura di primo piano nel pantheon degli Elimi, con la fondazione, già attorno al XIII° secolo a.C., di un celebre Tempio divenuto noto in seguito come quello della “Venere Ericina”. Nella Sicilia Nord-Occidentale, infatti, Astarte venne rapidamente assimilata ad Afrodite e alla Venus romana, tanto che Diodoro Siculo ci narra che Erice, figlio di Bute e di Afrodite, aveva eretto un Tempio dedicato alla propria madre e fondato la città che da lui prese il nome. Ci narra poi l’arrivo di Liparo, figlio di Ausonio, alle isole Eolie, aggiungendo che anche i Sicani «abitavano le alte vette dei monti e adoravano Venere Ericina»[17].

Sulle rovine del Tempio menzionato da Diodoro venne poi edificato dai Normanni, nel XII° secolo, il tutt’oggi esistente Castello di Venere. E sempre in Sicilia, però sul versante opposto dell’isola, sui Monti Nebrodi, a dimostrazione del radicamento del culto della Dea, troviamo Mistretta, il cui nome, a detta dei filologi, deriva dal fenicio Am-Ashtart, “Città di Astarte”.

Le origini di Astarte e di Atargatis, come abbiamo visto, vanno ricercate in Mesopotamia, nelle figure della Inanna sumera e della Ištar babilonese, nelle quali possiamo di fatto trovare buona parte delle caratteristiche, degli attributi e delle prerogative che, successivamente, nel mondo greco e poi romano, si riversarono in quelle di Afrodite e di Venere.

I Babilonesi, grandi conoscitori dell’Astronomia, già associavano la Dea al pianeta Venere, e poiché esso ha due aspetti, il vespertino e il mattutino, anche Ištar vantava un duplice aspetto: «Io sono Ištar Dea del mattino, io sono Ištar Dea della sera»[18]. E come Dea della sera era “La Benevola”, la Dea dell’amore nei cui Templi avevano luogo riti licenziosi, mentre come Dea del mattino era la prode sorella del Dio solare Šamaš, la “Regina delle Battaglie”, tanto da essere raffigurata sui rilievi di Susa in forma maschile e addirittura barbuta, caratteristica che ritroviamo anche fra quelle dell’Afrodite di Cipro menzionata da Macrobio nei suoi Saturnalia.

E ritroviamo il suo collegamento con gli Inferi e l’Oltretomba in un testo noto come la Discesa di Ištar agli Inferi, un racconto mitologico mesopotamico pervenutoci in diverse redazioni in lingua Accadica su tavolette rinvenute nei siti assiri di Assur e di Ninive, ma derivante da una più antica tradizione sumerica del III° millennio a.C., avente come protagonista la Dea Inanna. Secondo il testo, Ištar giunge alle porte dell’Oltretomba e chiama a gran voce i Guardiani, minacciando, qualora non le fosse aperto, di distruggere la porta e far uscire i morti, che avrebbero divorato i vivi, così da sovvertire l’ordine del mondo. Ma i Guardiani corrono ad avvertire la Signora dell’Oltretomba, Ereškigal, sorella di Ištar, che coglie l’occasione per attirarla in una trappola. La Dea viene così fatta entrare attraverso le sette porte dell’Irkalla, e ad ogni attraversamento viene spogliata gradualmente delle sue vesti e dei suoi gioielli, simboli del suo potere. Alla fine, completamente nuda, viene accolta nella sala del trono di Ereškigal. Quest’ultima, rivelando così le sue reali intenzioni, ordina allora al suo ministro Namtar, Dio del destino, di scagliare contro la sorella sessanta malattie, che colpiscono ogni parte del suo corpo. Di fatto Ištar viene presa prigioniera e questa prigionia della Dea sortisce l’effetto di interrompere ogni attività di generazione nel mondo dei viventi. Ma questo stato di cose preoccupa non poco il Consiglio degli Dei, ed è Enki a trovare una soluzione, creando un giovane di grande bellezza, Tammuz, da inviare a Ereškigal per sedurla e indurla al perdono nei confronti della sorella. Il piano sembra però fallire (il testo risulta mutilo in alcuni passaggi), perché la Signora dell’Irkalla, seppur inizialmente affascinata, inizia a maledire la creatura di Enki. Alla fine però Ella concede la grazia a Ištar e ordina al fido Namtar di innaffiarla con l’acqua della vita. La Dea così può risalire nel mondo dei viventi, rivestita dei suoi abiti e dei suoi ornamenti. Tuttavia, in cambio della propria salvezza, dovrà lasciare nell’Oltretomba Tammuz, divenuto suo amante. Questi sarà destinato a fare ritorno sulla terra ogni anno per un solo giorno, quello dei Riti a lui consacrati.

Così recita un brano della Discesa di Ištar agli Inferi, nella versione riportata da un saggio di Paul Dhorme:

«Da quando la Signora Ištar era discesa nel Paese senza Ritorno, il toro non si appressava più alla giovenca, né l’asino all’asina; l’uomo non si accoppiava più alla donna incontrata sulla via, questi si addormentava nelle sue camere e la donna sul proprio giaciglio»[19].

Anche nell’epopea di Gilgameš viene menzionato Tammuz come amante di Ištar, nel passo in cui l’Eroe, rimproverando la Dea per avergli fatto delle proposte amorose (che egli rifiuta), ne denuncia gli aspetti lascivi e devastanti di “Grande Prostituta”:

«Chi è il tuo amante che Tu ami per sempre? Chi è il tuo eroe che nell’avvenire ti sarà grato? Io rivelerò le tue prostituzioni! A Tammuz, l’amante della tua giovinezza, anno per anno Tu hai fissato la lamentazione! Tu hai amato l’uccello Allalu e poi lo hai colpito e gli hai spezzato l’ala. (…) Tu hai amato il leone, perfetto in vigore, e gli hai scavato sette e sette fosse! Tu hai amato il cavallo, fiero nella battaglia, e gli hai destinato le redini, il pungolo e la sferza, Tu lo hai destinato a galoppare per sette doppie ore! Tu hai amato il pastore, quel pastore che ogni giorno faceva salire a Te il fumo del sacrificio, che ogni giorno t’immolava capretti. Tu l’hai colpito e l’hai trasformato in leopardo! E ora i suoi compagni pastori lo perseguitano e i suoi cani gli mordono la pelle! Tu hai amato Išullanu, il giardiniere di tuo padre, che ogni giorno faceva brillare la tua mensa. Tu levasti gli occhi su di lui, andasti da lui e gli dicesti: “Oh mio Išullanu, oh pieno di forza, mangiamo, stendi la tua mano e tocca le mie carni!”. Ma Išullanu ti disse: “Che vuoi da me? Mia madre non ha cotto e io non ho mangiato. Quelli che io mangio sono alimenti di vergogna e maledizione”. E Tu, a sentire queste parole, lo colpisti e lo trasformasti nell’animale tallalu»[20].

L’accadico Tammuz non è altri che il sumerico Dumuzi, chiamato nei testi mesopotamici anche Dumuzi-Apsu, in quanto “figlio delle acque”, simboleggiante, a livello profano, la vegetazione che nasce a primavera e che muore con i calori dell’estate, scendendo nel “mondo di sotto”, dove la Dea va a cercare la fonte che deve riportarlo alla vita, piangendo per lui quella celebre litania conosciuta con il nome di Canto di Tammuz.

E la figura di Dumuzi-Tammuz trova piena corrispondenza, nella tradizione fenicio-cananea, con quella di Adone (Adon è un epiteto che significa letteralmente nelle lingue semitiche “Il Signore”, e possiamo trovarlo più volte anche nell’Antico Testamento, dove è stato applicato per non pronunciare direttamente il nome di Yahwé), il cui hieros-logos è divenuto il nucleo centrale sia di una ritualità a carattere misterico imperniata sulla sua figura e su quella di Astarte, che della celebrazione di solenni cerimonie a carattere pubblico (e quindi anche profano), officiate annualmente ovunque vi fossero comunità o insediamenti fenici. I Misteri di Adone e Astarte e le solenni cerimonie pubbliche ad essi legate trovarono successivamente ampia diffusione in molti territori dell’Impero Romano, e anche nella stessa Urbe, sia per la presenza di numerose comunità orientali che per la diffusa pratica dell’Evocatio praticata dalle autorità imperiali, che di fatto favoriva l’adozione dei culti stranieri e una loro collocazione sotto l’ala protettrice dello Stato. È stata confermata, infatti, dagli scavi archeologici la presenza a Roma di un importante Santuario di Astarte sul versante Nord del Gianicolo, presso il Lucus Furrinae, edificato originariamente in età neroniana e oggetto di vari rifacimenti successivi, fino al IV° secolo; Santuario che comprendeva entro il suo perimetro anche una piscina che fungeva da vivaio per i pesci sacri alla Dea.

Il poeta bucolico siracusano Teocrito, che visitò l’Egitto nel 273 a.C., in un suo celebre idillio intitolato Le siracusane o le donne alla festa di Adone[21], ci fornisce con dovizia di particolari la descrizione dello svolgimento di una festa in onore di Adone e Astarte organizzata ad Alexandria dalla Regina Arsinoe, consorte di Tolomeo II°. Apprendiamo così che sotto un padiglione ad alcova, su un tappeto di porpora, veniva collocato un letto per i due Sposi Divini. Tutto intorno venivano disposti in bell’ordine preziosi doni della natura, frutta matura, focacce, unguenti di Siria conservati in vasetti di alabastro e, all’interno di canestri d’argento, zolle di terra fiorite, i cosiddetti “Giardini di Adone” (in genere vasetti di terracotta contenenti della terra che veniva seminata con pianticelle di rapida crescita e di breve durata, che si disponevano attorno al simulacro di Adone e che poi venivano gettati nelle acque del mare o del fiume più vicino al termine della festa). E questo avveniva nel corso della prima giornata della festa, chiamato il “Giorno della Gioia”, in cui si celebrava l’imeneo della coppia. La seconda giornata era invece una giornata all’insegna del lutto. All’alba, quando ancora la rugiada bagnava il suolo, una processione di fedeli e di Iniziati muoveva verso il mare, mentre le donne, con le chiome sciolte e le vesti discinte, si disperavano e piangevano la dipartita di Adone, rivolgendogli preghiere affinché egli ritornasse propizio con il nuovo anno, riportando la gioia.

Qui si arresta la narrazione di Teocrito, che non accenna al rito di gettare in mare le zolle fiorite, che conosciamo però da altre fonti, né ci descrive il terzo giorno della festa, che, come sappiamo sempre da altre varie fonti, era dedicato a delle rappresentazioni pantomimiche incentrate sul tema della resurrezione di Adone, che l’Adoniaste, una figura sacerdotale, asperso di acqua lustrale e coronato, si recava a incontrare in un apposito edificio.

Si ebbe così, in sostanza, come ci confermano questo idillio di Teocrito, la Lisistrata di Aristofane e numerosi altri testi sia greci che latini, una progressiva diffusione del culto di Astarte, che recava in sé le caratteristiche, gli epiteti e le simbologie di Atargatis, di Ištar e della più antica Inanna sumerica, in tutto il bacino mediterraneo, parallelamente ad una ellenizzazione dei miti di queste/questa Divinità, con la creazione – anzi, potremmo dire con la “costruzione” – de facto, della figura di Afrodite.

Erodoto sosteneva che il culto di Afrodite Urania fosse originario di Ascalona, importante città cananea e filistea sulla costa meridionale della Palestina, e che da lì i Ciprioti lo avessero importato[22], mentre secondo Pausania sarebbero stati i Fenici, già adoratori di questa Divinità, a trasferirne il culto a Citera[23]. In ogni modo, la sua figura già era attestata nella sua forma “ellenica” o “ellenizzata” al tempo di Omero, che nell’Odissea[24] ne indica l’origine del culto dal Santuario che alla Dea venne edificato a Pafos, sulla costa sud-occidentale di Cipro, Santuario la cui fondazione è stata attestata dagli archeologi al XII° secolo a.C., in concomitanza con la dominazione micenea dell’isola e circa un secolo dopo la fondazione di quello di Erice. E a pochi chilometri da Pafos, lungo la costa in direzione di Limassol, è ancora oggi visibile e meta di intensi pellegrinaggi turistici, la Roccia di Afrodite, chiamata dai Ciprioti anche Roccia dei Romani (Πετρα του Ρωμιου), sul luogo dove, secondo la tradizione che si rifà alla Teogonia di Esiodo e, in generale, a tutte le fonti elleniche da essa derivate, sarebbe emersa dalle acque del mare l’Afrodite Cipride su di una conchiglia di madreperla. Quelle stesse fonti che, più o meno concordemente, ce la descrivono come spinta da Zefiro sulla riva cipriota e che prosaicamente ci narrano come, non appena Ella mosse i primi passi sulla spiaggia, i fiori iniziarono a sbocciare sotto i suoi piedi e subito le vennero incontro le Horai, le Cariti, Peitho (la persuasione), Pothos (il desiderio) e Himeros (la bramosia d’amore) per accoglierla, onorarla e servirla, rivestendola con abiti sontuosi e ornandola con gemme e gioielli, prima che un carro splendente, tirato da due colombe, discendesse dal cielo per farla salire e per condurla nel novero degli Dei.

Ma, se l’Afrodite greca e, conseguentemente, la Venere latina non furono, come sostengono gli storici delle religioni, che trasposizioni e adattamenti “occidentali” delle figure di Astarte, Atargatis, Ištar e Inanna e delle relative caratteristiche, prerogative e simbologie, e, talvolta, dei relativi epiteti, per quale ragione in età ellenistica e durante l’età romana imperiale le figure di tali Divinità, e in particolare mi riferisco ad Astarte e a Atargatis, ben lungi dall’essere messe in ombra dalla nuova arrivata, continuarono a mantenere i propri luoghi di culto, dove continuarono ad essere venerate da moltitudini di fedeli fino alle persecuzioni cristiane? Per quali ragioni continuarono a coesistere in parallelo, talvolta anche nelle stesse città e perfino negli stessi quartieri, e mantenendo le proprie caratteristiche distintive, Templi e Santuari sia di Venere/Afrodite che di Astarte o della De Syria?

Semplice attaccamento alle tradizioni degli antenati oppure riflesso della componente etnica “orientale” dei fedeli e degli Iniziati? Sicuramente, almeno in parte, in una prima fase ciò dipese da tali fattori, anche se, soprattutto in epoca tardo-imperiale, è attestato che si iniziassero ai Misteri di Adone e Astarte e prendessero parte alle cerimonie connesse al loro culto cittadini di qualsiasi estrazione sociale o delle più disparate origini etniche. Quelli di Astarte e della Dea Syria, già nel III° secolo d.C., al pari di quello isiaco, erano infatti divenuti dei culti in tutto e per tutto romani e pienamente romanizzati, e come tali, dei culti “universali”, potenzialmente accessibili a chiunque vi si avvicinasse, a prescindere dall’origine etnica e culturale.

Cipro: la Roccia di Afrodite, nei pressi di Pafos

C’erano quindi ben altre ragioni per le quali le classi sacerdotali di Astarte o di Atargatis mantennero sempre ben distinto il culto di queste Divinità, evitando fermamente qualsiasi commistione con Venere/Afrodite. Ed una, anzi probabilmente la principale, di tali ragioni era che essi conoscevano la verità su Afrodite e sulla “costruzione” della sua figura e del suo culto, una verità che non è mai stata scritta fino ad oggi da nessuno, ma che è sempre stata nota in ambito misterico ed iniziatico.

Ho accennato, all’inizio di questa trattazione su tale Divinità, al fatto che nella Tradizione Misterica e negli schemi teogonici dell’Eleusinità Madre, non è Afrodite ad essere nata dalla spuma marina generatasi per il contatto fra il seme di Uranós e le acque del mare, bensì Dione, quell’importantissima Dea Titana che fu venerata dalla civiltà Minoica come Akakal e, per secoli, come somma Dea Madre e Signora del Cielo, della Terra e del Mare dai popoli pelasgici, e che, in maniera del tutto impropria, viene indicata dalla tradizione ellenica come sua “madre”.

I moderni mitologi e storici delle religioni, permeati loro malgrado da due millenni di cultura monoteistica imperante e in massima parte digiuni di cultura esoterica e di conoscenze iniziatiche, difficilmente arrivano a comprendere la natura e la portata dello scontro religioso che si verificò fra il XV° e il XII° secolo a.C. nel mondo mediterraneo e, in particolare, nell’area dell’Egeo. Uno scontro religioso consumatosi fra gli antichi popoli pre-greci, con in testa gli eredi materiali e spirituali della civiltà Minoica cretese, fedeli al culto degli antichi Dei Titani e agli schemi sociali del matriarcato, e quei popoli invasori che, progressivamente, occuparono l’intera Grecia continentale, dei quali i Dori furono soltanto gli ultimi arrivati; popoli diversi fra loro, ma tutti caratterizzati da schemi sociali patriarcali e dal culto di Zeus e di quelle Divinità conosciute come “Olimpiche”, quelle Divinità che, in seguito alla Titanomachia, avevano spodestato dal potere i Titani, ponendo fine al loro Regno di Giustizia. Tale scontro religioso, fondato su un’assoluta incompatibilità, divenne ben presto anche scontro politico e militare, vedendo il suo apice in quella che è comunemente conosciuta come la Guerra di Troia. E, man mano che tali popoli consolidarono il proprio potere e la propria presenza sul territorio, con la fondazione dei primi regni “Micenei”, le loro classi sacerdotali, vere detentrici del potere, dettero inizio ad una serrata politica di “riforme” religiose miranti a stabilire il primato del loro Dio principale, Zeus, e a demolire la persistente presenza del culto Titanico sul territorio con abili operazioni sincretistiche e di sostituzione che, nel lasso di un paio di secoli, riuscirono a plasmare a proprio uso e consumo buona parte della mentalità popolare. Quasi ovunque, così, la potente ed ingombrante figura del Dio Titano Primario Krios (o Kreios) venne abilmente sostituita da quella dell’usurpatore Zeus, e buona parte delle Dee Titane, sia di prima che di seconda generazione, furono vittima della creazione di miti ben congegnati che le facevano “amanti”, “mogli” o “figlie” dello stesso Zeus, o che oppure le apparedravano ad altri suoi sodali della cerchia degli Olimpici. Ovunque vi fosse un importante Tempio o Santuario di un Dio Titano o di una Titanide, quando questo non veniva abbattuto, se ne sostituivano le gerarchie sacerdotali con altre più compiacenti e le Divinità Olimpiche, come una metastasi, si insinuavano e si imponevano nel culto. Ciò è avvenuto a Delfi, con l’imposizione della figura del “nordico” Apollo, ed è avvenuto, come abbiamo visto, a Dodona, il più antico Santuario oracolare della Grecia continentale, dove la figura di Zeus venne inizialmente imposta al fianco di quella della Dea Titana Primaria Diona, fatta figurare addirittura come sua “moglie”, finendo poi per sostituirla del tutto: già in epoca classica, quello che era stato il Santuario oracolare per eccellenza della Dea veniva ormai comunemente chiamato in tutto il mondo greco il Santuario dello “Zeus di Dodona”.

Ma la figura di Dione risultò piuttosto difficile da eradicare, per via della straordinaria diffusione popolare che ancora, sul finire dell’età micenea, incontrava il suo culto presso tutte quelle popolazioni ancora apertamente ostili al nuovo ordine zeutico. Si rese quindi necessaria, come già abbiamo accennato, la “creazione” di una figura che sostituisse questa ingombrante Dea Titana. Venne così stabilito, più o meno all’indomani della Guerra di Troia, di darle una figlia, fino a quel momento del tutto inesistente nei miti relativi a questa Divinità, che ne assumesse la natura (compresa la nascita dalla spuma marina, frutto del seme del membro di Uranós gettato da Kronos, dopo l’evirazione del Padre, nelle acque del mare), le caratteristiche e gli epiteti fondamentali, ma in forma molto più blanda e più facilmente gestibile e manipolabile. Una “figlia” che era destinata, nelle intenzioni dei suoi “creatori” (le classi sacerdotali zeutiche) a sostituire e a obliare in toto la figura di Diona, a farla col tempo letteralmente scomparire dal culto e dalla visione religiosa popolare. Ed è molto interessante vedere come tutto ciò sia potuto avvenire.

Non trovando, evidentemente, fra il risicato novero degli Dei Olimpici, una figura femminile all’altezza del ruolo e del compito preposto, le classi sacerdotali zeutiche ricorsero addirittura ad una mortale, una certa Afrodite, che alcune fonti misteriche ci riferiscono essere stata una Sacerdotessa di Dione originaria della regione anatolica della Frigia, rimasta uccisa per mano degli Achei proprio nel corso del conflitto troiano, al quale i Frigi presero parte numerosi in quanto alleati di Troia, e divenuta oggetto, a livello locale, di una sorta di “divinizzazione”, secondo una consolidata tradizione che riguardava gli Eroi e le Eroine, soprattutto se di rango sacerdotale, che cadevano in battaglia. Ed è questo, in sostanza, il messaggio che Omero, nell’Iliade e in alcuni passi dell’Odissea, ha tentato segretamente di trasmetterci, fra le righe, senza poter dire apertamente tutta la verità.

Una simile scelta venne probabilmente pianificata, nel XII° secolo a.C., sull’isola di Citera, uno dei luoghi indicati dalla tradizione ellenica per la nascita di Afrodite, o nella stessa Cipro, dove, per via della vicinanza geografica con le coste dell’Anatolia e con quelle dell’area siro-cananea, non dovevano essere del tutto sconosciute le figure di Atargatis e di Astarte, e dove, proprio nello stesso secolo, sorse il Tempio di Pafos e si consolidò il mito della nascita della Dea presso lo scoglio di cui abbiamo parlato. E venne deciso, spudoratamente, di riversare su questa Divinità di fatto creata “a tavolino”, oltre alla genealogia, le caratteristiche e gli epiteti di Dione, anche quelli della “Grande Prostituta” Atargatis/Astarte/Ištar/Inanna. E la scelta di una Divinità orientale, estranea al contesto ellenico e pre-ellenico, quindi fino a quel momento avulsa dalla mentalità popolare greca, per il completamento di una simile operazione, si rivelò sicuramente vincente e strategicamente determinante.

Venne così “creata” ex nihilo una nuova Divinità, sfruttando abilmente la memoria di una mortale, un’autentica Martire della causa troiana (e, quindi, anche della religione Titanica; oltre al danno, quindi, anche la beffa!), addossandole sulle spalle sia le caratteristiche e gli epiteti di una grande Dea Titana Primaria che di una Divinità orientale le cui radici più antiche vanno ricercate nell’antica Mesopotamia. E non possiamo certo fare una colpa a Esiodo, se nella sua Teogonia ci narra la nascita di Afrodite secondo uno stereotipo ormai era già da tempo affermato e consolidato nella visione popolare.

Si tratta, questa, di una verità indubbiamente scomoda e, al contempo, di uno dei segreti più nascosti ed occultati dell’intera storia religiosa mediterranea. Una verità che potrebbe oggi suonare quasi come una bestemmia per i moderni seguaci della religione “ellenica”, che tendono a fare di tutta l’erba un fascio, mettendo sullo stesso piano Zeus, Dioniso, Afrodite e gli Dei Titani, spesso senza neanche comprendere chi o cosa venerano (a proposito, lo stesso verbo venerare, derivato dal Latino, significa letteralmente domandare una grazia agli Dei,ed è strettamente connesso con Venus/Venere, e quindi con Afrodite, a cui nell’antica Roma venivano indirizzate le domande di grazia). Una verità che era però ben nota ai Sacerdoti di Astarte e che è sempre stata nota agli Eleusini Madre, che infatti non hanno mai inserito Afrodite nel proprio pantheon.

 

NOTE

[1] Esiodo: Teogonia, 188-206.

[2] Apollodoro: Biblioteca, I°, 1, 3.

[3] Omero: Iliade, V°, 428.

[4] Omero: Odissea, VII°, 361.

[5] Cicerone, nel De Natura Deorum, indica Deimos come figlio di Erebo e di Notte, mentre Virgilio, nell’Eneide, lo annovera tra i figli di Etere e Gea.

[6] Molte fonti indicano Priapos come figlio di Dioniso, anziché di Ares e Afrodite. Secondo una tradizione alquanto diffusa, non sarebbe stato accettato da Zeus nel novero degli Dei Olimpici perché, ubriaco, avrebbe tentato di violentare Hestia.

[7] Enciclopedia on-line della De Agostini www.sapere.it, voce Afrodite.

[8] Antonio Marcianò: La nascita di Venere in Igino: un’interpretazione clipeologica.

Articolo su: www.usac.it.

[9] Antonio Marcianò: Ibidem.

[10] Patricia Monaghan: Figure di donna nei miti e nelle leggende: Dizionario delle Dee e delle Eroine. Ed. Red, Milano 2004.

[11] Igino: Fabulae, 197.

[12] Lucio Anneo Cornuto: Compendio di Teologia Greca, 24.

[13] Giulio Guidorizzi: Opera citata.

[14] Filippo Cassola (a cura di): Inni Omerici.  Ed. Mondadori, Milano 1997.

[15] Michail Ivanovič Rostovcev: Hadad and Atargatis at Palmyra. Articolo su: American Journal of Archeology n. 37 (Gennaio 1933).

[16] Luciano di Samosata: De Dea Syria, 4.

[17] Diodoro Siculo: Biblioteca Storica, V°, 6, 7.

[18] Paul Dhorme: Choix de textes religieux assyro-babyloniens. Ed. Librairie Victor Lecoffre, Paris 1907.

[19] Paul Dhorme: Opera citata.

[20] Ibidem.

[21] Teocrito: Idilli, 15, 109-144.

[22] Erodoto: Storie, I°, 105.

[23] Pausania: Periegesi della Grecia, I°, 14, 7.

[24] Omero: Odissea, VIII°, 363.

3 Comments

  • umbero bianchi 8 Dicembre 2019

    Una articolo molto interessante, che offre spunti per ulteriori risguardi e chiarimenti sul tema, sempre molto bistrattato, delle radici indoeuropee, a confronto con quelle di altri popoli vicini, ma assolutamente non eguali.

  • Nicola Bizzi 9 Dicembre 2019

    Grazie Umberto!
    A breve invierò ulteriori approfondimenti sul tema.

  • Aristea Ioannidis 7 Ottobre 2023

    Articolo, come già detto da altri, molto interessante. Ho però dei dubbi riguardo certe definizioni. Ho la fortuna d’essere per metà greca e conoscere la lingua greca e questo mi ha portata a seguire studiosi greci di testi antichi e soprattutto di esoterismo ellenico. Specifico questo perché il Greco, moderno e soprattutto antico, sono lingue estremamente complesse, che spessissimo (volutamente o meno) sono state interpretate erroneamente da chi non è madrelingua e non coglie determinate sfumature. Non basta, infatti, né essere iniziati né studiosi di esoterismo e antichi testi, ahinoi. Sappiamo benissimo (Lei sicuramente, ne ha parlato in numerose occasioni) quali interessi si celano dietro all’archeologia e alla filologia, alla cultura in generale.
    Premesso tutto ciò, che io sappia Eros e Anteros sono due aspetti dell’Amore, ma, diversamente da come ha scritto Lei, mi hanno spiegato che Eros rappresenta l’Amore Alto, Superiore, benefico e propedeutico al progresso animico ed infatti è dotato di lira (strumento il cui simbolismo è noto a chi è del settore) e Anteros, al contrario, è l’Amore fisico e carnale, l’Amore che sconvolge e destabilizza e non a caso è colui che è dotato di arco e frecce per ferire. Eros e Anteros, in sostanza, sono Eroe e Antieroe, “eroe” la cui origine etimologica non è distante in greco proprio dalla parole eros. Questo il primo dubbio che volevo evidenziare per avere, se ha modo e desiderio, chiarimenti a riguardo, essendo Lei uno studioso che seguo da tempo e stimo.
    Secondo dubbio, ma a questo non so se potrà rispondere: ho letto suoi diversi testi e ho compreso che gli Eleusini Madre si dicono custodi di una tradizione originaria che è stata calpestata, contaminata e alterata nel tempo non solo dalla religione olimpica, ma da tutte quelle volontà politiche e religiose (compreso il Cristianesimo e l’Ebraismo) che nei secoli si sono susseguiti; dietro a tale volontà di preservare le origini c’è Amore per cosa? Questa domanda, che può sembrare provocatoria, ma non è assolutamente così, è per cercare di comprendere se l’Eleusinità Madre è genuinamente amante della Grecità (mi si passi il termine così generalista) oppure, come spesso temo quando mi trovo di fronte a ordini iniziatici, nasconde una volontà anti greca e quindi pro altro?
    Avendo non solo molto interesse per la materia, ma anche molta spinta e curiosità, per tutto ciò che riguarda gli Antichi Misteri Eleusini, mi piacerebbe avere un confronto con lei. In questo breve messaggio è difficile condensare tutte le mie perplessità e sviscerare, per quanto possibile e per quanto a Lei possibile, certe questioni.
    Se volesse rispondermi Le sarei estremamente grata ✨

    Con profonda stima e rispetto,
    Ioannidis Aristea

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