Nell’articolo precedente (“Nord-Sud: la prima dicotomia umana e la separazione del ramo australe”) avevamo visto come, quasi immediatamente dopo la fisicizzazione dell’uomo, dalla sede iperborea dovette verificarsi una prima consistente ondata migratoria diretta verso Sud, con il conseguente inizio del processo di differenziazione razziale che avrebbe interessato i gruppi più meridionali; nel frattempo, la restante parte dell’umanità rimaneva immersa nel “sonno di Adamo” in qualche enclave nordica circoscritta, che probabilmente corrispose a Varahi, la mitica “Terra del Cinghiale” sorta all’inizio del Secondo Grande Anno del nostro Manvantara. Questo ramo boreale dovette costituire, pur nell’ambito generale di una certa eterogeneità di partenza – la Razza Rossa iniziale – una componente forse meno esposta, rispetto a quella australe, a spinte “centrifughe” ed involutive, probabilmente in conseguenza del fatto che alcuni millenni di “stasi” e di isolamento ebbero l’effetto di stabilizzare maggiormente le caratteristiche bio-antropologiche appena raggiunte. E’ tuttavia evidente che da questo refugium il ramo boreale dell’uomo dovette pur uscire e migrare a sua volta, per andare a costituire quell’ampio strato di popolazioni caucasoidi nordeurasiatiche che, senza soluzione di continuità, in tempi antichi collegò il nostro continente fino all’estremo oriente, dove ad esempio una particolare forma residuale è costituita dagli Ainu giapponesi.
Per cercare di ricostruire i primi passi di questo ramo dell’umanità, credo sia necessario iniziare da qualche considerazione di carattere mitico-tradizionale, esaminare alcuni elementi legati alla geografia sacrale ed approdare infine ai dati dell’antropologia, della genetica e della paleolinguistica per cercare di farci un’idea il più possibile integrata di queste vicende.
Iniziamo quindi ritornando ancora a quella “doppia modalità” della dinamizzazione femminile che già in precedenza avevamo incontrato, soprattutto in relazione al parallelo e corrispondente “doppio stato” del Maschio.
Il primo stato corrisponderebbe alla fase del suo “sonno” ed al momento notturno connesso alla nascita di Lilith, a mio avviso interpretabile sia in termini più totalizzanti e generali – l’intera corporeizzazione umana – sia in termini più specifici – il particolare ramo “australe”: Adamo qui sembra essere “latente”, senza quasi un’esistenza autonoma e vigile.
Il secondo stato, invece, sarebbe quello nel quale Adamo “ritorna”, ma non più nella veste androginica, unitaria ed omnicomprensiva del Primo Grande Anno, bensì ridestandosi ad una nuova, seppur “parziale”, forma di veglia. Azzarderei che Adamo ora prende coscienza di sé stesso attraverso questa nuova modalità proprio per mezzo della relazione che si instaura con il Femminile: un Femminile che però non si estrinseca più secondo le oscure vie di Lilith. Questa fase, se vogliamo di carattere più “diurno”, rappresenterebbe il raggiungimento, dopo l’iniziale spinta “inconscia-promanativa”, di quel “punto di equilibrio” che, come ricorda Julius Evola, ad un certo momento interviene nel reciproco rapporto che ora sorge tra i due principi: potrebbe quindi essere contestuale al manifestarsi di Eva – figura che almeno all’inizio si presenta in modo meno tenebroso di Lilith – e soprattutto al suo “riconoscimento” da parte di Adamo (che, verrebbe da dire, è anche un auto-riconoscimento della propria identità separata nella nuova situazione ontologica).
Mi sembra, quindi, che sia di cruciale importanza cercare di comprendere secondo quali percorsi si arrivi ad Eva ed al suo reciproco “rispecchiarsi” in Adamo.
Diversi elementi, a questo punto, suggeriscono la necessità di integrare la già accennata ottica “verticale/principiale” della ri-bipolarizzazione maschio-femmina (accennata nel precedente articolo “La seconda metà dell’Età Paradisiaca: alcuni concetti preliminari”, e fin qui prevalentemente utilizzata) con un’ulteriore prospettiva, che per convenzione definirei “orizzontale/correlativa”; è, questa, una visuale che mi sembra ben applicarsi soprattutto al tema della doppia valorizzazione lunare/solare implicita nella manifestazione sottile, la quale allude all’idea della “duplicazione del Centro” e quindi, in chiave antropogenetica, all’instaurarsi della “coppia” Adamo/Eva.
In termini ermetico/alchemici l’Anima Mundi viene accostata al principio mercuriale, il quale notoriamente può avere una duplice caratterizzazione, ovvero acqueo-femminea se in movimento e sotto il segno della Luna, oppure ignificata e maschile se fissata e sotto il segno del Sole. Anche Julius Evola ci ricorda il “doppio segno” del mercurio, inteso come “Ruach” o soffio, segnalando inoltre come questo venga spesso raffigurato anche sotto forma di un albero che, in varie saghe europee, spesso si sdoppia in un’albero del Sole, orientale, ed in un’albero della Luna, occidentale. Analogamente a ciò, in un’ottica di complementarismo tra i sessi, Michel Valsan fa in generale corrispondere il maschile all’Oriente ed il femminile all’Occidente, concetto che tuttavia si potrebbe leggere in parallelo all’immagine, presente nella tradizione indù, di un similare albero con sopra due uccelli rappresentanti le due entità animiche: Jivatma, passiva e legata al corpo, sul ramo di sinistra, ed Atma, attiva e distaccata, sul ramo di destra. Mi sembra interessante rilevare come nell’interpretazione di Valsan – e qui ritorniamo ancora alla netta polivalenza ed alla “relatività” dei simboli tradizionali – queste due figure siano comunque entrambe maschili, mentre invece in altri autori, ad esempio Bohme (per il quale il fuoco è chiaramente virile, mentre l’acqua è femminile), Jivatma viene invece considerata di segno femminile. Ciò come se, ipotizziamo, si alludesse al fatto che il “polo” lunare-occidentale possa apparire “femminile” in rapporto a quello solare-orientale, ma invece “maschile” in rapporto alla più bassa ed oscura Terra; quindi un’analogia, su scala diversa, della possibile doppia valorizzazione essenziale/sostanziale del principio animico ricordata da Renè Guenon.
La duplicazione mercuriale è stata avvicinata anche a quella insita nell’Albero della conoscenza del bene e del male, che Schuon ci ricorda rappresentare la potenza manifestante o cosmogonica; sotto questo aspetto, quindi, la pianta mitica sembrerebbe tutta di segno femminile (ritengo, allo stesso modo in cui l’Adamo “psichico” viene paradossalmente denominato anche Eva) ma la cui duplice natura sembra evidente nel nome stesso. La sua funzione, è stato notato, viene rappresentata anche nel simbolo della Scala, sotto forma dei due staggi verticali, nessuno dei due veramente assiale ma unificati dai gradini, comparabili alla colonna del centro (ed alla precedente fase ancora unitaria ed androginica); ciò emerge anche da un’altra raffigurazione simbolica estremamente significativa tramandataci dalla Kabbalah, ovvero le due colonne dell’albero sefirotico. Infatti, se lo osserviamo attentamente e consideriamo la sephirah Tiphereth, che rappresenta il nucleo centrale analogo al Sole (ma, a mio avviso, quello primordiale ed unificante, verso il quale, infatti, è l’elemento indifferenziato Etere a convergere), vediamo che questa sephirah si scinde in altri due elementi, Daath (Consapevolezza) e Yesod (Psichismo-senso dell’oggettività, legata al mondo sublunare ed alla cerebralità); sappiamo che la coscienza dell’uomo ordinario non riesce a seguire Daath e viene trascinata in basso da Yesod, rimanendo così invischiata nello psichismo formale e ritenendo di assumere qui la sua vera identità. Daath risulta tuttavia strettamente allacciata al Centro-Tiphereth, assume caratteristiche solari ed infatti è proprio attraverso Daath che si rivela il trascendente; in qualche modo tale sephirah è connessa al concetto di fuoco (“fuoco sacro”, “fuoco di Vesta”) e di “Veglia”, termine che significativamente ci riporta ai già incontrati “Veglianti”, le enigmatiche entità del mondo intermedio che in questo caso sono interpretabili sotto l’aspetto solare e “positivo”. In tale modo, da un cerchio con centro in Tiphereth, viene così a crearsi un’ellisse con due fuochi (Daath in alto e Yesod in basso), raffigurazione che, lo noterei di passata, fu utilizzata anche da Jakob Bohme, che immaginò il Dio vivente non come un cerchio normale, bensì proprio come un’ellisse bicentrica, e proprio per questo ambivalente e bipolare; i due fuochi per Bohme rinviano rispettivamente ad una “volontà dello Spirito” (lato paterno) e ad una “volontà della Natura” (lato materno). Ma anche a voler mantenere il simbolo del cerchio, significativamente Coomaraswamy evidenzia come la semplice ruota, il cui centro corrisponde all’Essenza e la circonferenza alla Natura, comunque lascia tra questi due un zona mediana – Antariksha, Akasha – dove trovano spazio le coppie di opposti (bene-male, luce-ombra, nascita-morte…), che rimandano al concetto di un’ambivalenza di fondo, idea che invece nell’ellisse viene suggerita dalla presenza del doppio fuoco. Lo sdoppiamento di Tiphereth viene messo in relazione all’analoga duplicazione della coscienza umana, passaggio che nella tradizione indù si trova espresso dall’immagine di Ida e Pingala, i due canali psichici (rispettivamente femminile e maschile) che sono laterali in rapporto all’Axis Mundi centrale; Renè Guenon infatti ci ricorda che Ida corrisponde alla Luna, Pingala al Sole ed entrambi rappresentano i due occhi di Vaishwanara, entità analoga all’Uomo Universale, mentre il canale mediano, Sushumna, corrisponde all’occhio frontale di Shiva, identico a quello di Giano bifronte.
Ma la duplicazione del Centro primigenio a mio avviso sembra essere suggerita anche da diverse altre immagini.
Ricordiamo ad esempio, nel mito indù, il triplo perno centrale (nabhi) ricordato da Coomaraswamy come mozzo della ruota del carro solare, intesa anche come cerchio della vita e del mondo. La simbologia montana ci consegna Mashu “il monte dei Gemelli”, presente nella saga dell’eroe mesopotamico Gilgamesh, forse con qualche tratto analogo alla vicenda di Ermafrodito (frutto dell’unione di Ermes e Afrodite) che viene fatto corrispondere al Parnaso, la montagna dalla “doppia vetta”, attraverso la quale passa l’Asse del mondo; una doppia sommità che non può non richiamare “le due cime del mondo”, costituite dal monte Otri, sede dei Titani, e dal monte Olimpo, casa di Zeus e del suo seguito. Idee e rappresentazioni mitico-geografiche che probabilmente resistettero “sottotraccia” fino a tempi molto recenti, se interpretiamo in tal senso anche la mappa di Zeno del 1380 la quale, oltre ad indicare una grande isola posta ad est della Groenlandia (che però non corrisponde all’Islanda) evidenzia alcune incongruenze cartografiche le quali, è stato rilevato, possono essere spiegate solo considerando la presenza di due diversi nord geografici.
E sempre nel corpus ellenico, su questa stessa linea si potrebbe interpretare la coppia di fratelli Apollo-Artemide quali simboli rispettivamente del centro solare-maschile e di quello lunare-femminile; secondo una tradizione, loro madre sarebbe stata Latona, o Leto, in certi passi ricordata come la prima donna del mondo (quindi assimilabile ad Eva, nella misura in cui si sovrappone all’Adamo psichico ?) e che, significativamente, si narrava fosse nata nell’Iperboreo. Se di tutta evidenza sono i legami solari-apollinei, va detto che non trascurabili sono anche quelli che relazionano Apollo all’oriente eurasiatico e siberiano, come ben mostrato da Mircea Eliade, nelle caratteristiche sciamaniche che il Nume evidenzia direttamente o indirettamente: in quest’ultimo caso, ad esempio, tra i personaggi semi-mitici considerati tra i suoi più devoti adoratori si narra di poteri oracolari e magici, o di vicende legate a bilocazioni, discese agli inferi, crisi estatiche. Per quanto invece riguarda Artemide, è stata opportunamente sottolineata la sua interessante connessione con la falce lunare, ma anche con la figura dell’Orso (l’Artemide d’Arcadia viene trasformata in orsa ed in onore della Artemide Brauronia si esegue una danza dell’orso) e con la caccia notturna, spesso ai danni del Cinghiale: simboli e funzioni che la avvicinano marcatamente alla casta guerriera.
Proprio il concetto della differenziazione delle prime due caste, argomento già toccato in precedenza secondo un’ottica di carattere più “verticale/principiale”, in relazione al presente tema dello sdoppiamento del Centro potrebbe ora essere letto secondo una diversa visuale.
In questa direzione si può infatti notare che Adamo, risvegliatosi dal sonno e posto di fronte ad Eva, quasi ri-specchiandosi in lei la riconosca sua immagine – come detto più sopra – nel senso di una sua pari. Tale prospettiva tradisce l’instaurarsi tra i due di quella nuova dinamica, definita appunto “orizzontale/correlativa”, nella quale il Maschio passa ora a ri-definirsi sullo stesso piano ontologico della femmina, tuttavia “rappresentando” a questo livello più basso, come ricorda anche Evola, il principio soprastante. In rapporto all’essere androginico relativo al Primo Grande Anno, plasmato / sostanziato di polvere “sottile”, ora infatti si propone un suo nuovo significato: come sottolineato da diversi esegeti biblici, Adamo si “umanizza” pienamente nel momento in cui, dopo il sonno, conosce la dualità, l’alterità (cioè, in effetti, davanti ad Eva) ed è proprio grazie alla creazione della donna che egli si trasforma, da essere privo di genere, a uomo nel senso odierno, corporeizzato. E’ stato infatti rilevato come sia ora la stessa, intorpidita, condizione di Adamo (con evidente riferimento al sonno precedentemente fatto scendere su di lui), a farne ormai un essere di questo mondo, sottoposto cioè a tutte le condizioni proprie al nostro piano di esistenza, tra le quali anche quelle di un nuovo tipo di coscienza “ordinaria”. D’altro lato, sul versante “sottile”, è stato osservato come contestualmente a questo salto ontologico, Adamo passi – ragionando ora in termini “teistici” – da una situazione in cui era “in” Dio, ad un’altra fase in cui appare solo “di fronte” al Principio superiore: posizione quindi non più assunta in prima persona ma solo in termini indiretti, che gli conferisce tuttavia uno status di mediatore con le forze sovrumane nel loro aspetto eminentemente solare e sostanziate di luce diretta, diversamente delle entità lunari viventi di mera “luce riflessa”. Ecco perché adesso, sul piano corporeo, può essere congruo sovrapporre Adamo alla casta Brahmana (sacerdotale e, appunto, mediatrice con il Divino), entrambi ovviamente intesi – in questa nuova chiave di lettura – secondo un significato diverso rispetto al precedente, “sottile”, loro attribuito (ricordo che i Brahmana, nel triangolo iniziatico di Guenon, erano posti in corrispondenza alla funzione del “Mahatma” ed al livello psichico-intermedio).
Di conseguenza il centro “lunare”, sorto in relazione alla nuova fase raggiunta tra maschio e femmina, corrisponderebbe alla figura di Eva, in una situazione non di opposizione rispetto al principio solare ma, almeno all’inizio, di armoniosa complementarietà, per usare le parole di Gaston Georgel. D’altro lato, la funzione solare ora rivestita da ciò che è divenuto Adamo dopo il risveglio dal sonno, richiamerebbe per certi versi il concetto di “veglia” e quindi forse una certa relazione con le correlate entità dei “Veglianti” relative al mondo intermedio, assieme ad alcune ricadute sul piano corporeo che approfondiremo più avanti. Anche l’immagine delle due montagne contrapposte Otri ed Olimpo, presenti nella mitologia ellenica, a mio parere pone chiaramente quest’ultimo in relazione ad una coscienza ora di tipo “diurno”, collegata alla sfolgorante luce solare, seppure ad un più basso livello esistenziale rispetto a quello precedente ed androginico.
Spostando il tutto su un discorso geografico più preciso, credo che questa catena di concetti possa trovare una certa attinenza con il fatto che nel continente euroasiatico furono arcaicamente costituiti centri tradizionali di diretta derivazione iperborea indipendentemente da quello atlantideo; Atlantide che Evola stesso pone in relazione alla femmina, ma di cui, non a caso, ricorda come la controparte maschile sia ora costituita da un Adamo che però non è più puro spirito (ovvero, interpreto, non è più – egli stesso – univocamente “polare”). La tradizione indù richiama l’aspetto solare di Vishnu come quello che esprime l’archetipo della manifestazione corporea, e lo pone temporalmente in relazione alla discesa del suo terzo avatara e geograficamente in corrispondenza alla sede boreale Varahi, la “Terra del Cinghiale”. Si tratta di un’area che, assieme al già menzionato accenno alla posizione dell’albero solare-maschile e del mercurio ignificato, indicano una localizzazione orientale – o piuttosto nord-orientale – di questo centro, l’enclave nordica citata ad inizio articolo; forse un’ulteriore elemento in questa stessa direzione ci arriva sempre dal mito indù, nell’idea che la sede di Indra sia posta a nord-est. A mio avviso quest’area coincise con la Beringia, che anche secondo l’odierna ricerca scientifica sembrerebbe aver assolto una funzione di grande importanza nella preistoria umana, come già ricordato nell’articolo “Il Paradiso iperboreo” e la recente formulazione del modello “Out of Beringia”; zona che anche in precedenza – pur genericamente definita come “asiatico nordorientale” – era stata indicata come una probabile “culla” la quale, stretta fra coltri glaciali e costa marina, avrebbe favorito l’insediamento ed il temporaneo isolamento di una consistente popolazione Sapiens.
Invece, il centro più nord-occidentale, acqueo-mercuriale-femminile e gravitante attorno all’albero “lunare” avrebbe avuto relazione, come accennato da Evola, con i primi albori di Atlantide; va certamente tenuta in evidenza l’importante sottolineatura di Renè Guenon, secondo il quale “la stessa Atlantide settentrionale non aveva nulla di iperboreo”, ma forse il continente artico primordiale andrebbe inteso in un senso più ampio di quello dei singoli “centri” sacrali in esso contenuti. Un’ampiezza che magari potrebbe giustificare anche l’interessante nota di Ugo Bianchi, secondo la quale Adamo ed Eva vivevano in due parti distinte del Paradiso Terrestre. E’ stato infatti osservato che tutta la vasta terra iperborea dovette essere molto estesa sia in latitudine (dal Polo Nord a quello che, dopo l’avvento delle stagioni, sarebbe divenuto il Circolo Polare Artico) sia in longitudine (dalla Groenlandia a tutta la porzione settentrionale dell’Eurasia, arrivando quindi fino alla Beringia); probabilmente coprì un territorio nemmeno in continuità geografica, forse in parte sovrapponendosi ad un arcipelago costituito dalle “quattro isole a Nord del mondo” più una quinta terra assiale posta al centro, cioè la vera Tula iperborea. Nel mito ellenico proprio attorno a Tula – o Tule – si sviluppa un equivoco di fondo che Guenon ha spiegato con l’attribuzione del nome della prima terra, letteralmente polare, ad una seconda che fu successiva e localizzata in area nordoccidentale (equivoco che, ad esempio, avrebbe coinvolto anche i Toltechi nella denominazione della loro patria di origine, posta nel nord dell’Atlantico). Secondo Eratostene di Cirene, infatti, la latitudine di quest’ultima sarebbe stata di 66° Nord, mentre altri autori la associarono esplicitamente all’isola di Ogigia, situata a latitudini un po’ più basse, circa a metà strada tra Scozia ed Islanda (quindi in prossimità delle isole Faeroer o anche dell’isolotto di Rockall); per Plutarco di Cheronea, Ogigia si trovava ancora più a Sud, appena ad occidente della Britannia. Per Renè Guenon in Omero, tuttavia, la distinzione tra la sede nordatlantica e quella iperborea appare chiara, nel momento in cui afferma che la “Siria primitiva”, terra dove avvengono “le rivoluzioni del sole”, si trova “oltre Ogigia” e quindi necessariamente non vi coincide; bisogna però rilevare che il metafisico francese – come cortesemente segnalatomi dal prof. Ernesto Roli, che ringrazio – dovette essere tratto in inganno dalla similarità tra il nome di “Ogigia” e quello di “Ortigia”, che è il vero toponimo indicato nel passo omerico interessato, ovvero in Odissea, libro XV, 403 – 406 (dialogo tra Telemaco ed il pastore Eumeo).
In ogni caso, oltre al mito di Tule con le sue diverse ed equivoche localizzazioni, come noto nel corpus ellenico è presente anche quello della terra degli Iperborei, che De Anna tiene ben separato dal primo e colloca piuttosto in un settore nord eurasiatico, ma la cui presenza contribuisce in ogni caso a complicare ulteriormente il quadro generale (come ad esempio in Jean Richer, che connette Iperborea alla direzione di nord-ovest, quindi sovrapponendola a Tule).
Problemi tutto sommato analoghi si evidenziano anche nell’analisi della mitologia indù che, tra le varie terre avvicendatesi a Nord nel corso del tempo, ricorda Ilavrita (polare-artica e sicuramente primordiale), l’anzidetta Varahi (nordorientale) ed una ulteriore, Uttarakuru (genericamente “terra settentrionale” che però è semplicemente boreale e legata piuttosto al nord-ovest); come nel caso ellenico, non si può escludere che, nel corso del tempo, le caratteristiche di tutte queste siano state oggetto di numerose reciproche sovrapposizioni. A mio avviso Ilavrita, come la Tule polare, potrebbe essere collegata al Primo Grande Anno del Manvantara, da cui il suo significato di “terra nascosta”, termine che mi sembra in qualche modo suggerire, per analogia, la fase di non ancora avvenuta corporeizzazione umana; nel corso del Secondo Grande Anno non escluderei che possa aver avuto luogo un momento più prettamente “circumpolare” con il predominio di Varahi e forse i primi albori occidentali di Uttarakuru, poi seguito, dopo la fine del Satya Yuga – ma non per forza immediatamente dopo – da un periodo contraddistinto dall’esistenza, nel Nord, solo di quest’ultima (ipotesi che però, va riconosciuto, non sembrerebbe ben conciliarsi con le analisi di Giuseppe Acerbi che la pongono molto più tardi, nel Quinto Grande Anno). Comunque, sembra almeno abbastanza certa la collocazione nordoccidentale di Uttarakuru – quindi in area nordatlantica – zona che peraltro Evola segnala essere stata occupata dalle popolazioni iperboree non subito, all’atto della primissima migrazione da Nord, ma solo dopo qualche tempo: una stima che dunque sembra coerente con il nostro assunto. Nel quadro cronologico evoliano non è però chiaro se tale arrivo si collochi prima o dopo della fine dell’Età Paradisiaca, visto che in alcuni punti pare collegare la fase nordico-atlantica, per forza di cose conseguente a questo afflusso, al momento della “solarizzazione” di Adamo, successivo alla precedente fase puramente uranica e siderea, legata all’Androgine; quindi, nella nostra interpretazione, ponendolo indirettamente ancora nel Krita Yuga. In qualche altro sporadico passaggio, il pensatore romano, oltretutto, segnala un “secondo ciclo” della stessa età primordiale, nella quale evidenzia l’enuclearsi di due diverse componenti spirituali-antropologiche, una boreale ed una atlantica. E’, questo, un punto che mi sembra significativamente concordare anche con l’ipotesi, formulata da Gaston Georgel, di un “polo” sacrale sorto in zona Nordatlantico-Groenlandia meridionale già a partire da circa 43.000 anni fa e che potrebbe testimoniare il primo concentrarsi in quell’area di popolazioni correlabili alla figura di Eva già dalla seconda metà del Secondo Grande Anno (ovvero, nell’ultimo quarto del Satya Yuga). Anche secondo Hermann Wirth, fin da circa 42.000 anni fa sarebbero stati stanziati in un quadrante compreso tra Groenlandia, Islanda e Spitzbergen, quei “Prenordici” già incontrati in precedenza (articolo “Il colore della pelle”) che per lui costituirebbero la radice iperborea primaria, ma a mio avviso ponendola in tempi troppo recenti (nella presente visuale la corporeizzazione della nostra umanità data da circa 52.000 anni) e localizzandola troppo esclusivamente ad ovest; i “prenordici” infatti potrebbero piuttosto rappresentare solo la branca occidentale del ramo boreale unitario che, più o meno in quel periodo, aveva iniziato ad uscire dal refugium della Varahi nordorientale approfittando di migliorate condizioni ambientali.
Infatti, da un punto di vista paleoclimatologico, si era già precedentemente accennato alla fase di Peyrards, posta proprio tra 42.000 e 44.000 anni fa, la quale sembra corrispondere all’oscillazione termica di Laufen (Grahame Clark, in termini più larghi, cita l’interstadiale Laufen/Gottweig posto fra 40.000 e 50.000 anni fa), un intervallo che potrebbe aver favorito la circolazione di popolazioni appartenenti al ramo boreale unitario in aree ancora emerse (perché ci troviamo sempre nel Wurm, e quindi in presenza di vaste calotte polari che mantenevano basso il livello marino) ma probabilmente non più glacializzate (perché in un interstadio relativamente temperato). Questo ramo forse coincise con la razza “paleoartica” ipotizzata da Wiklund che, essendo contraddistinta dalla presenza di caratteri sia paleoasiatici che paleoeuropei, dovrebbe di conseguenza rappresentare un’entità antropologica più ampia dei “prenordici” di Wirth, ricomprendendoli al suo interno; comunque di questi paleoartici oggi non rimarrebbero che poche popolazioni residuali quali ad esempio i Lapponi e gli Uralici. E’ interessante notare come diversi antropologi (ad esempio, Virchow) abbiano a suo tempo ipotizzato in Europa, prima dell’arrivo degli Indoeuropei, proprio un antichissimo popolamento di tipo lapponoide, considerato similare al ceppo sardo-ligure; una teoria correlata indicherebbe negli attuali “Sami” (che, significativamente, presentano una certa frequenza di capelli rossi, carattere probabilmente tra i più antichi) l’ultima sopravvivenza di un tronco preistorico che poi avrebbe originato sia i Bianchi che i Gialli odierni. Analogamente Montandon interpretò i lapponoidi come un ramo precocemente differenziatosi da una stirpe arcaica della quale gli europoidi rappresenterebbero invece una derivazione tardiva. Forse a conclusioni molto simili stanno portando le più recenti analisi genetiche condotte sulle popolazioni europee, che avrebbero individuato un gruppo paleolitico ancestrale nordeurasiatico alla radice di tutte le attuali genti del nostro continente; gruppo probabilmente più antico di un’altra popolazione, occidentale ed indirettamente collegata al continente africano (sulla quale torneremo in futuro), i cui geni però non sembrerebbero presenti tra gli europei del nord-est (infine, un terzo gruppo fondante, ma molto più recente degli altri due – i primi agricoltori neolitici – risulterebbe anch’esso debitore per circa la metà del proprio patrimonio genetico ai precedenti nordeurasiatici). La distanza genetica tra il gruppo nordeurasiatico e quello occidentale forse emerge anche dalla distribuzione della seconda “componente principale” europea, sviluppata dalle analisi di Cavalli Sforza, che nel nostro continente individua rispettivamente due poli opposti, proprio uno tra i Lapponi ed uno tra i Baschi; la particolare lingua di questi ultimi, come vedremo più sotto, probabilmente origina dallo stesso gruppo fondatore primario, ma in termini genetici la relativa popolazione deve invece aver acquisito (lo vedremo tra un paio di articoli), una certa quantità di elementi di origine africana, che costituirebbero la principale motivazione della distanza evidenziata da questa “componente principale”.
A questi “nordeurasiatici” recentemente individuati dalla genetica corrisponderebbe dunque il nostro ramo boreale, o forse la sua branca più occidentale (Eva), che appunto sarebbe migrata dalle sedi est-siberiane quasi come la “costola” miticamente uscita dal Maschio; una branca che probabilmente fu molto estesa in senso trasversale Est-Ovest, andando ad occupare una posizione intermedia tra l’Adamo nordorientale e le popolazioni più australi staccatesi dal tronco comune alcuni millenni prima. La mia interpretazione è che tale “costola”, oggi, sia rappresentata dai residui frammentati della superfamiglia linguistica “Sino-denè-caucasica” citata da Merritt Ruhlen (che, tra l’altro, comprende anche l’enigmatico idioma basco) ed anche per il genetista Cavalli Sforza si sarebbe originata nell’oriente eurasiatico; una superfamiglia che, negli alberi filogenetici proposti dal glottologo macro-comparatista, appare proprio come un ramo staccatosi precocemente da quell’ampio insieme di quasi tutte le altre famiglie linguistiche eurasiatiche (tra le quali l’Indoeuropeo) ed amerindie, la cui ancestrale forma comune è stata definita “Nostratico” principalmente dai glottologi di scuola russa (Illich Svitych, Shevoroshkin, Starostin; significativamente al termine “Nostratico” Dolgopolskij preferì “Boreale”, come anche ad un quadro nettamente nordeurasiatico si riferì Ivanov). Tuttavia, remote tracce della comune origine tra il raggruppamento nostratico e quello sino-denè-caucasico – all’interno cioè del nostro ramo boreale – potrebbero ancora permanere ad esempio in alcuni paralleli che Georgiev ritenne di aver individuato nella fase primordiale-formativa delle lingue indoeuropee con il cinese. Ma anche nelle più profonde affinità genetiche rilevate tra Lapponi, Caucasici e Baschi in alcune “componenti principali” europee di ordine inferiore (la quinta e la sesta) che evidentemente, a questo livello, “scremano” il contributo africano dei paleolitici occidentali, quantitativamente più rilevante (e che infatti emerge in una CP di ordine superiore, la seconda) ma che tuttavia non arriva al punto di sommergere del tutto le evidenze della comune origine boreale, più remota.
In ogni caso, la superfamiglia “Sino-denè-caucasica” si diffuse in Eurasia ed in America, rappresentando un elemento importante nel popolamento sia del “Vecchio” che del “Nuovo” Mondo, ed in quest’ottica furono soprattutto le genti nordatlantiche che probabilmente rivestirono una funzione di interposizione / mediazione tra il Nord ed il Sud: ciò in virtù della loro relativa vicinanza razziale ai gruppi più “nostratici-solari-settentrionali” (per essersene separate in tempi meno remoti rispetto a quelli meridionali) e, contemporaneamente, da un terreno spirituale non troppo dissimile da quello delle popolazioni australi, con le quali venne condivisa una matrice prevalentemente lunare di riferimento “sottile” (seppure in gradi diversi, come evidentemente diverse sono le modalità / fasi di manifestazione selenica). In termini macrocosmici ed evoliani, potrebbe essere questa una possibile spiegazione della penetrazione verso Nord di quella “Luce del Sud” che si infiltrerà soprattutto attraverso il “corridoio” atlantico; in termini microcosmici e cristiani ciò forse appare nell’interpretazione di Eva come il “fianco debole” dell’umanità, il lato dal quale Satana porta il suo attacco ad Adamo.
Non è infatti un caso che il titano occidentale Atlante venga ricordato come colui che “tenne separati il cielo e la terra”: “cielo” e “terra” che, in un’interpretazione di carattere più geografico-antropologico che cosmologico (ma, come sappiamo, le due chiavi di lettura possono benissimo coesistere), a mio avviso simboleggerebbero anche il Nord ed il Sud del mondo e dell’Umanità. Atlante, peraltro, che più tardi guiderà la fazione titanica nella guerra contro Zeus (il famoso episodio della “Titanomachia”), ma per adesso ci basti soffermare la nostra attenzione sugli eventi relativi all’enuclearsi del centro nordoccidentale, probabilmente emblematizzato dal monte Otri che si pose come contraltare al monte Olimpo (dalle caratteristiche adamico-maschili, nordorientali e solari).
Nella memoria greca si sottolinea la sovranità che venne attribuita al titano Atlante, delle sette potenze planetarie, proprio su quella lunare. Ma anche a prescindere dalla figura specifica di Atlante, tra la Luna e la classe dei Titani è stata notata una certa connessione generale, quale, ad esempio, il loro volto bianchissimo, “lunare”, quando nel mito ellenico dilaniano il fanciullo divino.
In termini generali, come ci ricorda Titus Burckhardt, le forze lunari rappresentano l’elemento vitale più a contatto con il corpo (quello soprattutto “involontario” e legato ai meccanismi automatici del fisico, pertanto di carattere più “esistenziale” che “intellettuale”), relazionandosi quindi a potenze che, pur appartenendo alla manifestazione intermedia, si trovano ad interagire strettamente con il piano fisico; corporeità che peraltro, da un’opposta visuale, può anche essere vista come un potente magnete che richiama, ed in parte condiziona, le energie sottili più prossime. La Luna, inoltre, viene tradizionalmente connessa all’elemento acqueo, come il Sole a quello igneo: sembra quindi essere una diretta conseguenza di quanto avvenuto sul piano sottile e ricordato più sopra (cioè, la bipolarizzazione del mercurio e la nascita dell’albero orientale e di quello occidentale), l’analoga separazione che, come ricordato da Guenon, ora inizia a manifestarsi, anche a livello materiale, tra i due elementi Acqua e Fuoco che si dipartono dall’Aria. La corrispondenza di quest’ultima all’umanità primordiale ed unitaria di Razza Rossa, mi induce analogamente ad ipotizzare che, in rapporto ai due nuovi elementi venuti alla luce, adesso poterono iniziare a specificarsi alcune caratteristiche razziali più precise, o almeno degli ambiti estesi entro i quali queste, da un livello embrionale, avrebbero avuto modo più tardi di svilupparsi e di acquisire una certa importanza. Oltretutto, da un punto di vista cosmologico, la nascita dell’elemento Acqua potrebbe, a mio avviso, essere messa in relazione anche con il superamento dell’equatore terrestre da parte delle popolazioni australi nel frattempo spintesi più a meridione, per il fatto che ora, sul piano dei guna, l’azione di Tamas iniziò progressivamente a fare sentire la sua presenza a fianco di Rajas, che comunque rimarrà prevalente fino al termine del Krita Yuga.
A mio avviso non si potrebbe escludere che tale polarizzazione presentò una certa analogia con la nascita dei “Figli di Dio” e delle “figlie degli uomini”, attori che però non sarebbero adesso da intendersi sul piano “sottile” delle entità immateriali (per queste figure già nei due articoli dedicati al Demiurgo si era espressa la possibilità di una loro interpretazione su un doppio livello ontologico) come ad esempio per il caso dei “Veglianti” e/o gli “Angeli Caduti”; l’ambito di riferimento sarebbe ora quello materiale sotto le sembianze di razze umane distinte, in relazione alle quali i primi allora avrebbero corrisposto al ramo boreale e “paleoartico” rimasto a Nord, mentre le seconde al ramo australe-equatoriale, tendente verso una direzione in prevalenza pigmoide ed uscito precocemente in direzione Sud. Più avanti vedremo che in realtà questo discorso implicherà degli eventi un po’ più articolati, ma comunque ci basti per ora registrare come, sul finire del Satya Yuga, l’incontro di queste diverse componenti porterà alla generazione di coloro che nel Mito sono i Giganti; i quali, in quest’ottica specifica, verranno quindi a corrispondere ad una particolare forma di Homo Sapiens, sulla quale torneremo.
Ma non è solo sul piano biologico-razziale che inizia a prendere corpo una prima tendenza alla diversificazione umana, bensì ciò si verifica anche – e, forse, soprattutto – al livello delle multiformi forze “sottili” con le quali i vari gruppi decidono di relazionarsi in via preferenziale (o che la loro “natura” conduce a fare): forze dalle quali è anzi probabile che siano derivate come conseguenza alcune caratteristiche fenotipiche da essi ricevute. Se ad esempio la parte nordorientale dell’umanità ha in qualche modo incarnato l’ “Adamo” sul piano corporeizzato, rappresentando una componente antropologica ancora più stabile e vicina al principio superiore, ciò probabilmente è dovuto al mantenimento di un contatto vivificante con il Centro solare e le relative presenze sovrumane alle quali essa, di fatto, corrispose su di un livello più basso. Discorso diverso da quello di altre popolazioni che, in varia misura, rimasero invece in maggior comunione con energie ed entità di matrice più prettamente lunare, peraltro ondivaghe e mutevoli com’è per antonomasia l’astro selenico e l’intero complesso del mondo intermedio, dal quale prenderemo spunto per iniziare il prossimo articolo.
Michele Ruzzai
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