Nel precedente articolo “Le più antiche caratteristiche razziali” avevo esposto una sintesi di quegli studi di carattere genetico ed antropologico che sembrerebbero evidenziare, per la protoumanità di circa 50.000-52.000 anni fa, una netta preminenza dell’elemento “caucasoide (o europoide) arcaico”, vista anche la relativa bassa antichità delle più specifiche e differenziate forme negroidi e mongoloidi; concludevo con un accenno al concetto di “razza nordica” ed al più generale tema della pigmentazione cutanea, punti sui quali ritengo ora utile soffermarmi per alcune riflessioni.
Quando ci si pone in un quadro di impostazione “boreale” e si parla di origini umane, implicitamente sembra darsi abbastanza per scontata l’idea di un gruppo ancestrale con caratteristiche, appunto, “nordiche” secondo quelli che sono i canoni attuali (gruppo che spesso viene anche sovrapposto all’entità indoeuropea, concetto in realtà un po’ diverso, come vedremo più avanti): un nucleo umano iniziale che, soprattutto, sarebbe stato contraddistinto da una scarsissima pigmentazione cutanea.
E’, questo, un comprensibile processo logico che peraltro sembrerebbe avere dalla sua parte qualche elemento di conferma; ad esempio, di recente è emerso che il gene del recettore della melanocortina, responsabile della colorazione della cute, produce una pelle chiara quando si trova nel suo stato di “default” (condizione che potrebbe essere interpretata come quella “standard”, di partenza). In questa stessa direzione, altre ipotesi – però, a mio avviso, meno convincenti perché influenzate da un’ottica evolutivo-progressiva, ma che comunque vale la pena citare – sono quella di Nina Jablonski (secondo la quale i presupposti “progenitori animaleschi” dell’uomo, prima di perdere il pelo, possedevano una pelle chiara) e quella di Charles Goodhart, che postula il comune ceppo ancestrale umano, ancora non Sapiens, spostatosi dall’Africa verso aree più settentrionali per sfuggire da un periodo torrido verificatosi tra 120.000 e 70.000 anni fa; nelle zone boreali il pelo corporeo sarebbe poi stato gradatamente perso attraverso un meccanismo di selezione sessuale e successivamente – ma ormai “evolutosi” a Sapiens – l’uomo sarebbe ritornato verso sud, spinto dai fenomeni glaciali. Fu allora che la cute, chiara in partenza, avrebbe dovuto necessariamente sviluppare quattro tipi di pigmento scuro, che si riscontrano tuttora, a seconda dei diversi ambienti climatici delle regioni occupate: una diversificazione cromatica che, secondo Goodhart, non avrebbe avuto ragione di esistere se la pelle umana fosse stata scura fin dall’inizio.
Anche il fenomeno dell’albinismo, sporadicamente rilevato tra varie popolazioni mondiali (ad esempio Caucasici, Berberi, Negridi, Amerindiani, Eschimesi, Polinesiani, Aborigeni australiani…), potrebbe apparentemente prestarsi all’ipotesi di una popolazione ancestrale completamente depigmentata, visto che qualche autore ne ha tratto una conferma alla visuale monogenetica; va tuttavia rilevato che l’albinismo, più che un carattere razziale e specificatamente umano, è un’anomalia genetica che interessa anche un gran numero di specie animali, e quindi è un elemento al quale non pare molto sicuro attribuire il significato “storico” che qui interessa.
D’altro canto, se più in particolare ci riferiamo a coloro che in genere vengono considerati i “bianchi” per eccellenza – ovvero la classica razza biondo-nordica – e teniamo presente il dato, visto nell’articolo precedente, che vede soprattutto i “Caucasoidi arcaici” presentare delle caratteristiche generalizzate e “primordiali”, noteremo che qui emerge una differenza abbastanza significativa.
E’ infatti stato notato come anche il tipo europeo biondo, depigmentato e ad occhi chiari sia, proprio assieme ai negridi ed ai mongolidi, un gruppo altamente specializzato e ben poco “primitivo” (ovviamente, in senso di “primordiale”), quindi di formazione relativamente recente. Al massimo, per la genesi della razza nordica, Kossinna propone una datazione di circa 22.000 anni fa, come conseguenza di un meticciamento tra uomini Cro-Magnon e uomini Aurignac-Chancelade, mentre invece per Biasutti essa avrebbe popolato l’Europa settentrionale solo 14.000 anni fa ed ancora meno (10.000 anni) per Gunther; più recenti ancora sono le ipotesi di un’origine a partire dai gruppi maglemosiani scandinavi (età mesolitica), o quelle correlabili alla comparsa della mutazione genetica che avrebbe generato gli occhi azzurri (pur con tutte le riserve che in precedenza avevo espresso sull’attendibilità delle stime cronologiche desunte dai dati molecolari). O, infine, le note riportate da Pia Laviosa Zambotti che cita l’ipotesi di alcuni scienziati sovietici secondo i quali un tipo dolicocefalo biondo avrebbe un tempo abitato tutta la Siberia, tipo probabilmente da mettere in relazione con popolazioni protouraliche e delineando così una possibile unità uralico-indoeuropea: un momento che però viene fatto risalire a non prima del neolitico.
Anche le modalità della genesi biondo-nordica deporrebbero per una non eccessiva arcaicità di questo sottotipo, se consideriamo che si è ipotizzata una sua formazione sotto la pressione del clima glaciale (quindi in un contesto ambientale non più corrispondente al clima temperato da “Eterna Primavera” dell’età primordiale) e come effetto della depigmentazione di un gruppo umano ad essa ancestrale; Gunther, infatti, ipotizza che le razze nordica e quella definita “occidentale” (e che nella sua classificazione corrisponde alla mediterranea, probabilmente nella sua varietà “littorale” o “atlantica”, da cui la denominazione legata all’ovest) siano i due tronconi di un tipo umano unitario del paleolitico. Una genesi forse verificatasi anche secondo modalità alquanto articolate, con tutta probabilità passate attraverso uno stadio iniziale che, per usare la denominazione di Montandon, potrebbe corrispondere a quella dei “Protonordici”: un gruppo primario che, a mio parere, dovette avere una relazione più diretta con una forma depigmentata dei Cro-Magnon (alla quale si potrebbe far risalire più specificatamente il tipo “falico”) e che giustificherebbe la diffusione del biondismo, ad esempio, anche tra le popolazioni caucasiche. Fattore che quindi non sarebbe originato da un’influenza diretta su questi da parte degli attuali nordici, ma dalla provenienza di entrambi i gruppi a partire da un comune ceppo ancestrale.
In ambito più generale diversi autori, considerando l’attuale differenziazione mondiale tra popolazioni di pelle chiara e popolazioni di pelle scura (in termini antropologici “leucodermi” e “melanodermi”) hanno ritenuto più logico ipotizzare una stirpe ancestrale che, invece di essere soggetta ad una forte depigmentazione di base, presentasse piuttosto caratteristiche più o meno intermedie tra i due estremi; un punto di partenza che mi sembra più convincente ed, a ben vedere, più coerente con il summenzionato clima da “Eterna Primavera”, per cui anche Mario Giannitrapani non esclude l’ipotesi che, nel quadro di una prospettiva “boreale”, aree circum-artiche abbiano senz’altro potuto vedere la nascita di un tipo umano non necessariamente depigmentato.
A mio avviso, utili spunti in questa direzione possono venire anche da una lettura attenta delle stesse analisi evoliane.
Sia nella sua autobiografia, che in vari scritti – oltre che sottolineato da diversi studiosi della sua opera – il pensatore romano riconobbe la provenienza di molti dei suoi elementi interpretativi dall’opera di Herman Wirth, dal quale mutuò le strutture generali ed il contesto cronologico di quella che era considerata la razza boreale originaria, definita come “prenordica”. E’ in particolare la datazione di questa fase, per Evola primordiale, che ci fornisce un interessante elemento di analisi: la data più antica viene segnalata da Marco Zagni, che rileva come questa popolazione risultasse, secondo Wirth, stanziata tra Groenlandia, Islanda e Spitzbergen fin da 40-42.000 anni fa.
Quindi almeno diecimila anni più tardi rispetto alla prima origine dell’umanità corporeizzata secondo lo schema seguito qui.
Una concreta possibilità è, quindi, che la “razza prenordica” di Wirth ed Evola non rappresenti il nucleo umano veramente iniziale ed unitario, che nacque all’inizio del “Secondo Grande Anno” del Manvantara, ma solo la sua diramazione rimasta a Nord (i già incontrati “paleoartici” di Wiklund ?), cioè dopo la primissima diaspora che aveva già portato verso Sud, da diversi millenni, gruppi che si sarebbero rapidamente diretti verso una direzione “australoide”, “pigmoide” (che vedremo più avanti) e, solo molto più tardi, “negroide”. A riprova di ciò, si può notare il fatto che in “Sintesi di dottrina della razza”, Evola accenni ad “aborigeni rosso-bruni” come di una delle razze originarie, analogamente a quelle negroidi e mongoloidi, che avrebbero, assieme, popolato il pianeta fin dai primordi; siccome però abbiamo già visto come l’antichità dei negroidi e dei mongoloidi, oltre a quella dei biondo-nordici, sia piuttosto relativa, per esclusione ne conseguirebbe che durante la fase aurorale del nostro ciclo il campo dovrebbe esser stato occupato unicamente da questi “rosso-bruni”. L’accostamento di questa tipologia cromaticamente “rossa” all’originaria base definita come “caucasoide arcaica” di cui all’articolo precedente – e più in generale, al concetto ampio, variegato e dai contorni abbastanza sfumati di “razza bianca” – è in effetti possibile proprio perché il tipo “rosso” doveva presentare un aspetto molto simile a quello che noi intendiamo come “bianco”, tanto, oggi, da non essere nemmeno percepito come entità a sé stante, bensì come una semplice variante nell’ambito del vasto ed eterogeneo raggruppamento europoide.
Quindi tale matrice, più o meno “rossastra”, avrebbe a mio avviso rappresentato, essa stessa, la base di partenza anche dei successivi “prenordici” (dei quali, oltretutto, mi pare significativo pure l’aspetto letterale del termine, che, a rigore, dovrebbe esprimere il concetto di coloro che furono “precedenti ai nordici”); un gruppo forse già interessato da una prima blanda depigmentazione, ma che non era ancora giunta ad un livello così marcato da comportare effetti fenotipicamente troppo diversificati rispetto al gruppo di provenienza. Infatti, sembra particolarmente significativo che Evola, quando porta esempi fotografici di “resti della razza prenordica”, proponga individui per nulla biondi o dalla pigmentazione eccezionalmente chiara, oltretutto rinvenendoli in gran parte tra i Nativi nord-americani; inoltre, sottolineando come il sangue del gruppo “0” dovrebbe secondo lui corrispondere a quello originario di origine artica, evidenzia come lo stesso risulti attestato in massima parte proprio in area nordamericana, mentre solo in misura inferiore si collocano l’Islanda e la Svezia. Ma è anche lo stesso Herman Wirth che, nella sua ricerca ad ampio raggio di parallelismi culturali e sacrali, reputa particolarmente interessanti gli elementi riscontrati presso le popolazioni dell’America settentrionale (“Pellirosse” ed Eschimesi), giudicando le popolazioni nordamericane come un’importante testimonianza residuale dei nostri antenati, fino a spingersi forse troppo in là quando arriva addirittura a sostenere che questi transitarono attraverso l’America settentrionale anche prima di insediarsi in Europa ed originare noi tutti. In ogni caso ritengo opportuno sottolineare come non sia assolutamente scontato che l’attuale aspetto dei Nativi americani sia del tutto identico a quello della popolazione originaria di 52.000 anni fa, e ciò anche per le importanti infiltrazioni più marcatamente “mongoloidi” che si sono sovrapposte in tempi successivi, come ricordato nel precedente articolo.
Nella visione evoliana ed in quella di Herman Wirth, il cosiddetto “cuneo della razza prenordica” viene quindi situato soprattutto nella parte nord-occidentale dell’emisfero boreale, coprendo l’area settentrionale del nord-America, quella occidentale dell’Europa ed arrivando fino alla latitudine della penisola iberica, occupando quindi la zona tipica di quelle che, successivamente, saranno le popolazioni Cro-Magnon, le quali potrebbero esserne considerate delle particolari forme di gigantismo e di rimescolamento interno. Questa ipotesi sarebbe peraltro compatibile anche con le ricostruzioni evoliane delle più antiche migrazioni boreali, quando accenna al primissimo movimento partito dall’Artide verso meridione, seguito da una successiva migrazione che si sarebbe spinta ancora più a sud, in America centrale e, contestualmente, in Atlantide: quindi lo stesso ceppo razziale avrebbe presumibilmente popolato sia la terra atlantica (per la prima volta, sembrerebbe) che il continente nord-americano fino al suo istmo centrale. Più tardi ancora si sarebbero verificate le migrazioni partite da Atlantide – e solo a questo punto si tratterebbe dei veri e propri Cro-Magnon – sia verso l’America (mito di Quetzalcoatl) che verso l’Europa (mito dei Tuatha de Danann). Siccome per Evola tale civiltà, che in una fase posteriore a quella autenticamente primordiale viene definita “nordico-atlantica”, avrebbe costituito un centro ad immagine di quello artico originario, sembrerebbe del tutto logico ipotizzare che il suo ceppo umano sia da porre in una certa continuità con quello iperboreo nato 52.000 anni fa.
Potrebbe andare nella stessa direzione anche la nota di Frithjof Schuon che segnala un “elemento atlantico forse anteriore alle grandi differenziazioni razziali”, avallando quindi l’idea che debba essere stata l’area occidentale quella dove forse si sarebbe per più tempo mantenuto relativamente integro il ceppo di partenza; un ceppo che però, sempre secondo Schuon, avrebbe anche presentato sporadici elementi morfologici che potevano anticipare le caratteristiche delle successive razze. Quindi una popolazione che avrebbe presentato notevoli margini di oscillazione morfologica, dato forse collegabile a quanto già accennato in precedenza (articolo “Quale Evoluzione ?”) in merito alla tesi del genetista Vavilov; un punto che mi pare coerente anche con l’interessante teoria della “cosmolisi”, formulata a suo tempo dal paleontologo Alberto Carlo Blanc, secondo la quale, all’inizio della sua storia, Homo Sapiens avrebbe presentato fenotipi alquanto polimorfi, cioè con campi di variabilità assai estesi. Poi, con il tempo, l’enuclearsi più preciso delle razze attuali comportò, per ciascuna di esse, lo stabilizzarsi di specifici standard di oscillazione antropometrica; un polimorfismo che, secondo un’altra teoria, potrebbe essere spiegato con l’intervento di varie ibridazioni tra popolazioni diverse (con il problema, però, che queste andrebbero individuate), mentre per Blanc ciò costituisce un fatto sicuramente primario.
Il gruppo umano di 52.000 anni fa, contraddistinto da una marcata “ecumenicità” (ricordiamo il detto “Krita viaggia ed erra” segnalato da Gaston Georgel), avrebbe diffuso un po’ ovunque nel mondo caratteristiche antropologiche similari al “caucasoide arcaico” e sarebbe stato portatore di questa caratteristica cromatica “rossa” (che in un futuro articolo troverà conferma anche attraverso elementi di altro ordine e che qui ci porterebbero troppo lontano).
Ma come va intesa questa colorazione “rossa” ? In termini antropologici, a mio parere, sia a livello di pigmentazione cutanea che, o anche in alternativa, al particolare fenomeno del rutilismo.
Giusto “di sfuggita”, mi si conceda di azzardare l’ipotesi che il popolare luogo comune del “rosso malpelo”, potrebbe lontanamente originare da quello stesso fenomeno di “inversione semantica” (già accennato nel precedente articolo “Il Paradiso Iperboreo”) che, a causa della traumatica perdita dell’Eden artico, avrebbe colpito sia il Nord geografico, come ricordo dell’ormai inaccessibile sede primordiale, che, parallelamente, la gente “dai capelli rossi”, quale residuo vivente della popolazione originaria….
In effetti il rutilismo, più che una mutazione estemporanea e senza particolari significati filogenetici (come forse può essere per il caso dell’albinismo), sarebbe invece interpretabile come un preciso carattere razziale, tesi ad esempio sostenuta da Topinard ed Hervè; un carattere posseduto da una popolazione antica ed ora presente nel mondo in quantità residuale a seguito dei vari meticciamenti intervenuti successivamente. Si è ipotizzato che tale carattere possa aver rappresentato un tratto tipico delle popolazioni Cro-Magnon (Parenti), o più in generale che fosse una caratteristica occidentale ed atlantidea (Barbiero), se non direttamente iperborea (Dughin). Simile a tale ipotesi potrebbe essere quella – ricalcata sulle narrazioni platoniche riguardanti l’antico peregrinare nel mondo di “Dei” e di “maestri” – che ricorda l’arcaica diffusione nelle più svariate aree (Europa, Egitto, India…) di sacerdoti e guerrieri dai capelli rossi. Elemento fenotipico che, pur sporadicamente, sembra comparire su un’area piuttosto estesa, se consideriamo ad esempio il caso dei Lapponi, tra i quali non sono infrequenti, o quello degli estinti Guanci delle isole Canarie.
Ma, come dicevo, non ritengo si possa escludere che, sia il rutilismo che una colorazione cutanea più o meno tendente al rossastro, possano essere stati a suo tempo presenti contemporaneamente nella prima umanità, scindendosi poi e riemergendo occasionalmente nel mondo come elementi separati ed indipendenti. Ne sono forse testimonianze dirette alcune popolazioni pigmee, che peraltro sottolineano spesso la loro netta diversità rispetto a quelle negroidi e sostengono decisamente di non essere di colore nero; il concetto peraltro pare confermato dall’osservazione delle relative pigmentazioni, che effettivamente appaiono piuttosto bruno-rossastre, non molto scure, e dalla non rara presenza di individui con occhi azzurri e capelli biondi, o tendenti al rosso. Forse si tratta delle stesse popolazioni, o similari, raffigurate in certe pitture rupestri del Sahara e risalenti al neolitico, nelle quali si notano popoli cacciatori dalla pelle scura ma con capelli biondi o rossicci. Per cambiare continente – confermando quindi l’enorme diffusione antica di tali caratteristiche – si potrebbe citare l’antica razza sudamericana di Lagoa Santa che Biasutti segnala contraddistinta, contemporaneamente, sia da capelli che da pelle tendenti al rosso.
Ma anche al di là del rutilismo, vi sono comunque ulteriori elementi antropologici e culturali per ipotizzare un’arcaica diffusione di questi tipi su larghissima scala.
In Africa, a parte le già incontrate popolazioni pigmee odierne, o anche quelle più genericamente pigmoidi, vi sono significative testimonianze provenienti da un passato mitico: Bertaux segnala infatti che gli attuali negridi africani (in particolare i Dogon del Mali) fanno spesso riferimento ad enigmatici “uomini rossi” – non senza una relazione diretta anche con i Pigmei attuali – che furono un popolo a loro preesistente e caratterizzato dalla piccola statura. Più a oriente, avevamo già accennato alle particolarità antropologiche delle popolazioni etiopiche, che presentano caratteristiche scheletriche e facciali di tipo decisamente europoide e la cui pelle scura denota, rispetto ai negroidi classici, un tono decisamente più rossastro (Parenti); non va poi dimenticato il fatto che gli stessi Etiopi definiscano sè stessi come “i rosei”.
In Asia, nella vicina zona meridionale della penisola arabica, i popoli dell’Hadramaut, ovvero gli Himyariti – che nella loro lingua significa appunto “i rossi” – avrebbero in tempi antichi risalito il mar Rosso, che proprio da essi avrebbe preso l’attuale nome, e si sarebbero stabiliti in Libano, da cui i Fenici – “i rossi” anche loro – ne sarebbero i discendenti. Per restare nel Mediterraneo, ricordiamo che anche i Cretesi erano definiti “rossi” dagli Egizi, ma, come loro, un po’ tutte le popolazioni del continente europeo – che Guenon ed altri autori ci segnalano aver rappresentato miticamente la “Terra del Toro” – sembrano essere state delle multiformi propaggini di una onnipresente popolazione “rossa”. Per Julius Evola, tali gruppi sono soprattutto di origine occidentale ed atlantidea – quindi, nella sua visuale, provenienti piuttosto dalla “mistovariazione” della razza boreale più antica – ma purtuttavia, va ricordato, anteriori e di “substrato” rispetto ai più recenti Arii: Pelasgi, Egizi, Cretesi, Subarei, “Indomediterranei” vari, fino a gran parte delle popolazioni mesopotamiche e del vicino oriente. Ma se può sembrare convincente l’idea di un contributo “rosso”, nel caso specifico, al popolamento dell’area mediorientale, meno sicura sembra invece esserne la provenienza da ovest, almeno per gli antenati di Sumeri e Caldei: in una significativa nota lo stesso Herman Wirth ipotizza, infatti, una loro provenienza non dall’area nordatlantica (che sembra invece aver originato i Tuatha de Danann) ma piuttosto da un settore nordorientale. Si sarebbe trattato di gruppi iperborei (forse più recenti e pigmentati in grado minore: una propaggine orientale dei “Prenordici” ?), noti come “esquimesi bianchi”, “uomini del sole”, o anche “gente di Tanara”, il cui ricordo sembra ancor oggi presente tra gli Inuit.
E un elemento simile a quello che avrebbe generato i Sumeri, sembra presente ancora più ad oriente, in India, dove Evola accenna al ritrovamento di resti di civiltà simili all’elemento Maya e databili a prima dell’arrivo degli avi degli indù, che al tempo erano ancora stabiliti nel nord eurasiatico. Un substrato antichissimo che sempre Evola individua perfino in Cina, ed i cui tratti demetrico-atlantidei potrebbero forse rimandare ad una razza analoga a quelle mesoamericane, dal momento che anche altri autori segnalano in zone attigue (ad esempio, sull’altipiano del Tibet) la presenza di popolazioni in qualche modo connotabili come “rosse”.
Proseguendo ancora verso est, e ritornando su aspetti più prettamente bio-antropologici, va ricordata la razza indonesiana, la cui pelle presenta un pigmento bruno-rossastro, come pigmentazioni con componenti rossastre sono frequentemente rinvenibili anche tra le popolazioni australiane (che di tanto in tanto evidenziano anche sporadici casi di biondismo, soprattutto in Australia centrale ed in Nuova Caledonia) e la cui varietà più pura è la Carpentaria, che presenta una cute di colore nerastro con sfumature verso il rosso cinabro e l’arancione. Nella zona dell’Oceano Pacifico, pigmenti rossastri sono spesso presenti nella razza melanesiana ed anche in quella polinesiana, mentre in America caratteristiche analoghe, a fianco di una base cutanea bruno-giallastra, si ritrovano soprattutto tra gli amerindi della razza amazzonica e della razza fueghina, che non a caso è forse la più antica stabilitasi nel “nuovo” continente.
Già sulla base di questi elementi, sembrerebbe quindi confermarsi quella vastissima area di continuità antropologica e culturale mediterraneo-pacifico-americana, passando per i già incontrati Ainu del Giappone; area che probabilmente rimanda ad un’ancor più vasta – quindi planetaria – dispersione di quello che dev’essere stato il ceppo umano originario di tutte le attuali popolazioni mondiali.
Tutto ciò, quindi, pone il tema di un’unità di fondo, ma anche del rapporto tra questa e l’avvento di una fase “duale” che contrassegnò il passaggio dal Primo al Secondo Grande Anno del nostro Manvantara: elementi sui quali si potrà iniziare a ragionare nel prossimo articolo.
Bibliografia consultata per il presente articolo:
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· Ester Panetta – I pigmei e i pigmoidi africani – Guanda – 1959
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· Herman Wirth – Introduzione a “L’aurora dell’umanità” – EFFEPI – 2013
· Gabriele Zaffiri – Alla ricerca della mitica Thule – Editrice La Gaia Scienza – 2006
· Marco Zagni – Archeologi di Himmler – Ritter – 2004
Categorie: Antropologia, Razza
Pubblicato da Michele Ruzzai il 30 Maggio 2014
Le Origini dell’Uomo, la sua Preistoria, le sue Razze. Sono temi che cerco di esplorare seguendo coordinate non evoluzionistiche, ma ciclico-involutive, monofiletiche e boreali, traendo spunto dai pensatori del “Tradizionalismo integrale” e dal Mito, senza tuttavia dimenticare quanto può dirci la ricerca scientifica correttamente interpretata. Non sono né un accademico né uno specialista. Sono solo un appassionato che non pretende di insegnare nulla a nessuno, se non, scrivendo questi articoli, provare a mettere un po’ di ordine tra i tanti appunti raccolti in anni di letture…
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