11 Aprile 2024
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Frazer, il razionalista pagano: la filosofia del mito dell’etnologo inglese – Giovanni Sessa

Tra i libri che hanno maggiormente influenzato la cultura del Novecento, va certamente annoverato Il ramo d’oro di James Frazer. Testo enciclopedico che suscitò un serrato dibattito tra gli intellettuali costretti, loro malgrado, a confrontarsi con l’arcaico, con visioni del mondo lontanissime ed antitetiche rispetto a quella moderna. Tracce significative Frazer, con la sua opera, lasciò su alcune delle menti più acute del secolo XX: da Freud a Eliot, da Wittgenstein (che lo criticò) ai Ritualisti di Cambridge. La complessità del pensiero dell’etnologo inglese, nonché la sua eco nel contesto socio-culturale primo novecentesco, sono state ricostruite da Giacomo Scarpelli, docente di Storia della filosofia all’università di Modena e Reggio Emilia in, Il razionalista pagano. Frazer e la filosofia del mito, nelle librerie per Meltemi editore (per ordini: 02/22471892, euro 20,00, pp. 285). La prima parte del volume consta della presentazione del percorso intellettuale frazeriano, da cui emergono le convergenze con una serie di autori quali Vico e Renan. Nella seconda parte vengono, invece, rintracciate le consonanze di prospettiva con la narrativa di Hardy e soprattutto con Freud.

Scarpelli è convinto, e questo è il vero motivo di interesse del volume, che il contributo più duraturo fornito da Frazer alla contemporaneità, vada rintracciato nell’aver collocato le vicende di dei ed eroi antichi: «al centro di una riflessione culturale creativa, identificandole quali metafore e allegorie dell’inconscio dell’Homo sapiens» (pp. 9-10). Il cuore vitale del pensiero frazeriano è, dunque, la filosofia del mito. Quindi, anche se l’etnologo positivista ebbe un approccio razionalista all’Antico, al contempo incontrò le sue realtà più profonde empaticamente, pervaso da un anelito nostalgico e di rimpianto. E’ noto: al centro del suo capolavoro sta la leggenda del ramo d’oro narrata nell’Eneide e commentata dal grammatico Servio, ambientata nel Lazio arcaico. Quest’interesse era maturato in lui fin dal 1874, anno in cui fu ammesso al Trinity College di Cambridge, dove si addottorò in studi classici. Ebbe una formazione a tutto tondo, in cui un ruolo di rilievo svolsero gli studi giuridici e il pensiero evoluzionista di Darwin e Spencer. Da quest’ultimo trasse il metodo centrato sullo: «sviluppo graduale delle culture, tra loro comparabili» (p. 22). Davvero dirimente per l’impostazione della sua ricerca, fu l’incontro con il semitista Robertson Smith, che stava elaborando un’interpretazione del sacrificio animale come rito trasfigurato dell’uccisione di un dio.

Se si dovesse individuare la chiave di accesso che Frazer scelse per la comprensione del mondo antico, si dovrebbe indicare, senza tema di smentita, Pausania. Per questo, proprio nell’anno in cui il Ramo d’oro fu pubblicato in patria, il 1890, Frazer sbarcò al Pireo e, dopo aver visitato Atene, a dorso di mulo, a piedi lungo sentieri impervi o strade polverose, si mise sulle tracce della Grecia descritta da Pausania nella Periegesi. Come accadeva nei secoli precedenti a giovani intelletti ardimentosi, anche Frazer ebbe la sua iniziazione al mondo dei Misteri, grazie a questo viaggio. Quello che incontra ad Olimpia, Micene, Delfi è: «uno scenario di desolata grandiosità» (p. 35). Ciò che contava realmente, a suo dire, al di là delle ipotesi esegetiche relative ai diversi ritrovamenti archeologici, soprattutto a Micene: «era di trovarsi comunque sul suolo che era stato calpestato da eroi tragici e semidei» (p. 38). Con il viaggio in Grecia, il sedentario studioso di Cambridge, aveva scoperto: «l’abisso degli umani trascorsi, la compresenza di un Io selvaggio della specie nella storia della cultura» (p. 39). Questo bagaglio di esperienze intime lo portò con sé anche in Italia, nel 1900, per verificare in loco ciò che era venuto alla luce negli scavi archeologici del santuario di Diana a Nemi.

Ebbe, durante le escursioni ai Castelli romani, quale accompagnatore d’eccezione, un eminente ‘pagano’, l’archeologo Giacomo Boni che, nel 1899, aveva riportato alla luce il Lapis Niger e collaborava con il fascismo nel suo tentativo di ripristinare la romanità. Ma in cosa consisteva il mito del ramo d’oro di Nemi? Va ricordato che, chi presiedeva il tempio della cittadina laziale, era sacerdote ed omicida e, prima o poi, un altro pretendente l’avrebbe assassinato per prenderne il posto. Chi ambiva a tale incarico, assolutamente precario? Probabilmente schiavi, gladiatori, e delinquenti in fuga. Nel recinto del tempio era stato piantato un albero sacro: chi fuggiva da qualcosa aveva la possibilità di svellerne un ramo e di battersi con il sacerdote in carica, per sottrargli il titolo di rex nemorensis. A dire dell’etnologo, Virbio, sposo locale della dea e identificato con

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Ippolito, figlio di Teseo, avrebbe raffigurato l’archetipo del sacerdote di Nemi, il cui sacrificio determinava la sopravvivenza della specie. All’origine del mito stava una realtà primordiale e selvaggia, testimoniata da un busto bifronte ritrovato tra le rovine del tempio. Da un lato raffigurava un giovane procace, dall’altro un uomo vetusto e barbuto: il rex nemorensis e il suo giovane sfidante. Al ragazzo sporgeva dalla bocca una foglia di quercia.

Insomma, la linfa del vischio avrebbe rappresentato lo spirito del nume, mentre il rex ne sarebbe stato l’incarnazione: per sconfiggerlo bisognava masticare le foglie della quercia sacra e strappare il ramo d’oro. Quest’ultimo era d’oro, poiché in esso, attraverso la saetta era disceso Giove, Signore Celeste. Del resto, la luce del vischio aveva accompagnato Enea nel viaggio nell’oltretomba. Attraverso le intuizioni di Frazer, Freud iniziò il proprio viaggio nell’inconscio. Nel mito i sogni sono generati dal regno di Ade, in psicanalisi dalla sfera sottoposta alla coscienza. Il ‘razionalista pagano’ fornì il materiale sul quale lavorò poi Freud. Non è casuale, quindi, che Totem e tabù dello psicanalista boemo fu, fin dal titolo, una resa di onori a Totemismo ed esogamia dello studioso di Cambridge. I due presero le mosse dall’evoluzionismo e quindi pensarono alla mente umana come centrata sul retaggio ferino.

Se, quindi, condividiamo la constatazione di Scarpelli che l’apporto più significativo di Frazer debba essere individuato nella riscoperta della filosofia del mito: «in grado di trasportare il lettore dal nostro mondo a quello arcaico» (p. 232), dissentiamo dal riduzionismo positivista di Frazer, che l’autore sembra sposare, in quanto per noi il mito rappresenta il precedente autorevole attraverso il quale attualizzare nel presente la Tradizione sempre possibile. Esso non custodisce, pertanto, alcun retaggio ferino ma, semmai, divino.

Giovanni Sessa

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