12 Aprile 2024
Punte di Freccia

Europa tra Essere e Nulla – Mario Michele Merlino

Nel precedente mio intervento sul filosofo Eraclito e, utilizzando un suo aforisma celebre e inquietante, sul gioco citavo lo studioso olandese Johan Huizinga. Qui riprendo una sua considerazione, espressa ne La crisi della civiltà (1937), dove rimproverava agli autori della crisi (in particolare al Freud de Il disagio della civiltà) di aver dimenticato come la cifra della cultura e della civiltà medesima nasce si definisce si espande quando possiede un ideale informa se stessa e lo protegge sa darsi in primo luogo una direzione (e il rimando va a Nietzsche e alla grandezza). Tre gli orientamenti, le direzioni, rilevate e a cui attenersi: l’idea di salvezza, la capacità di dominare la natura, possedere un contenuto metafisico. E, in questa prima metà del secolo XX, dopo la tragedia dirompente della Grande Guerra e l’addensarsi prossimo al cupo orizzonte d’altro e ancor più devastante conflitto, il mondo moderno sembrava aver smarrito questi ideali. Oswald Spengler aveva intitolato l’opera sua più nota proprio Il Tramonto dell’Occidente (1917), di cui Julius Evola fece traduzione per la Longanesi nel 1957. Quella ‘terra della sera’ su cui Martin Heidegger ci ha invitato a riflettere…

La stagione affascinante ed esplosiva fra le due guerre dove ogni certezza diviene lacerazione del passato e illusione del futuro, il presente crisi. Scriveva ad esempio Thomas Mann nel 1937: ‘se l’umanesimo europeo non è più capace di prendere coscienza di se stesso, di prepararsi alla lotta in un rinnovamento di forze vitali, allora esso morirà e con lui morirà l’Europa, il cui nome non sarà più che una espressione puramente geografica e storica. E non ci resterà più che cercarci fin d’ora un rifugio, fuori del tempo e dello spazio’. La visione pessimista di un intellettuale borghese. Con la civetteria del perseguitato che, però, dell’esilio non conosce il sudore del lavoro ingrato e l’amaro pane dello straniero. Nel 1928 Drieu la Rochelle, pubblicando Le Jeune Européen, non disperava ancora che si potesse verificare una reazione tale (il Fascismo si sarebbe trasformato ai suoi occhi lo strumento vindice sulla decadenza) capace di ridestare la fisionomia spirituale, quell’originario primato che l’aveva caratterizzata per lunghi secoli. (Insomma: per utilizzare altra forma di linguaggio, la crisi è conseguenza e non premessa o, ancor meglio, l’ottenebramento dell’essere produce e si realizza nel divenire il suo disfacimento).

Mi torna a mente la superba evocazione di Charles Maurras, che tanto piacque al Robert Brasillach dei suoi ultimi giorni e con la quale conclusi l’introduzione, dedicata a Riccardo, alla raccolta di poesie Inattuale, ed era il dicembre del 1979 quando venne pubblicata. Essa recita: ‘La giornata sta per finire senza fiamme: ho pregato che non si accendano fuochi. Che la sera scenda con le sue nebbie incerte: il dettaglio, l’incidente, l’inutile, vi affogheranno, mi resterà l’essenziale. Ho mai chiesto altro alla vita?’. E aggiungevo come fosse il migliore epitaffio da scrivere sulla nuda pietra del nostro ‘essere’… E così, con un attardarsi quasi timoroso di ascendere alla cima del Monte Ventoso, per utilizzare l’immagine del Petrarca, con un girare seguendo la spirale, in modo consapevole o meno, verso una meta. Se ho preso le mosse da Eraclito, ora m’attardo su quel ‘venerando e terribile’ (la definizione è del Socrate platonico, di cui narra da giovane assistette ad una discussione e di cui ammette molto gli rimase incompreso) che fu Parmenide di Elea (e il caso o la necessità mi hanno portato dal 2009 ad abitare in una viuzza privata con questo nome).

Ripensare la questione dell’Essere; riscrivere l’intera storia della filosofia partendo proprio da Parmenide… Da, come riportato da Sesto Empirico, quelle ‘cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva desiderare/ mi fecero arrivare, poscia che le dee mi portarono sulla via molto celebrata/ che per ogni regione guida l’uomo che sa…’. La dottrina di Parmenide viene espressa in un’opera (Sulla natura) in versi di cui ne rimangono solo poco più di centocinquanta, suddivisi fra quelli che trattano della verità (in greco ‘aletheia’) e quelli intorno alle opinioni (‘doxai’), più il Proemio integralmente. Salito su un carro e guidato dalle Eliadi (le figlie del Sole), il filosofo viene condotto di fronte ad una grande porta che divide la via del Giorno da quella della Notte ove dimorano, ignari, gli uomini. L’una ascende (alcuni critici intendono trattarsi dell’akropolis, la rocca, simbolo dell’aristocrazia); l’altra discende (verso l’agorà, la piazza, il luogo del mercato delle chiacchiere del popolo, il démos). La dea della Giustizia ne protegge l’ingresso che viene consentito solo a coloro che meritano essere introdotti nel mondo della conoscenza e delle virtù.

Essere edotti al vero porta alla consapevolezza della sua identità con l’Essere? E, al contrario, soffermarsi alle opinioni, simili a uomini con due teste, ora oscillante l’una ora l’altra, vuol dire disperdersi dal sapere autentico (c’è chi, pur avendone una sola potrebbe bene farne a meno…)? Ecco disegnarsi quell’inizio del conflitto, insanabile, tra l’Essere e il Non-Essere dove la filosofia, tramite Platone e il dissenziente discepolo, ma non su questo punto, Aristotele daranno la corona d’alloro al pensare razionale a tutto danno d’ogni altra forma di conoscenza. Non soltanto l’apparente universo delle cangianti opinioni (ci vorrà Nietzsche, ad esempio, per contestarne la sconfitta), ma il sapere antico e sapienziale, sacro, dell’oracolo della follia della visione magica e sciamanica. Così si dà senso al ‘venerando e terribile’, appunto a quella definizione data a Parmenide, tanto che prima Platone e poi Aristotele si accomodarono a ridisegnare il tratto dell’Essere, alta nel primo e spicciola contabilità nel secondo sul libro mastro delle idee dei concetti del corretto metodo da applicare per trarne esattezza e profitto.

Le idee – vere e giuste e belle – rivestiranno di sé la nudità dell’Essere e finiranno per identificarsi così come un maglione o un pigiama s’impregnano del nostro odore, si modellano delle forme del corpo. Arduo è il comprendere che ‘è la stessa cosa pensare e pensare che è,/ perché senza l’essere, in ciò che è detto,/ non troverai il pensare: né mai vi è o vi sarà/ nessun’altra cosa fuori dell’essere, poiché il Destino l’ha incatenato ad essere tutto intiero ed immobile…’. Allora il vero diverrà familiare attraverso l’elevazione in universale e necessario quale caratteristica dell’idea, liberandola dal rischio d’essere soltanto una opinione più grande, comprensiva, maggiormente estesa, ma… chi stabilirà la distinzione tra l’una e l’altra? La forza, la potenza il divenire nella storia? Fascino dell’Idea in sé, estetica, ma pur sempre l’opinione in armi si fa vittoriosa. E per esserlo dovrà combattere, l’una contro l’altra armata.

Europa, un’Idea tra l’Essere e il Nulla. A guardare la cartina geografica – una volta faceva bella mostra di sè accanto alla lavagna in ogni aula scolastica – a noi bambini con grembiule azzurro colletto inamidato bianco il calamaio ove intingere il pennino ci appariva immediato riconoscerla con il suo colore omogeneo, distinto da quello dell’Asia e, a maggior ragione, dagli altri continenti divisi dal colore azzurro degli oceani. Eppure la catena degli Urali è linea appena marcata (Himmler aveva inteso ed espresso l’intento, però, a edificarvi i ‘castelli dell’Ordine’ a difesa del confine orientale dalle ricorrenti invasioni di orde mongole); sembra quasi tracciata più da mano inesperta che da rilevamento di geografi attenti. Se così è dato pensare, si potrebbe quasi dare ragione a Nietzsche che la considerava soltanto estrema penisola dell’Asia (intuendo, in modo si direbbe profetico, l’Eurasia, quel blocco continentale e terrigno di cui si parla e ci si schiera contro il mondo fluido e liquido, anche in senso ‘spirituale’, ove dominano gli Stati Uniti). E per marcarne la difformità, più volte ho citato Il nodo di Gordio (dialogo a distanza tra Ernst Juenger e Carl Schmitt), sovente s’è appellata con il termine Occidente, prendendo a prestito l’apparente percorso del sole (in Asia il sorgere delle civiltà, in Europa il loro tramonto?).

Un Occidente da opporsi – la sua cifra la ‘libertà’ e la ‘democrazia’ – al grigio e cupo muro di Berlino, al filo spinato, quella ‘cortina di ferro’, per usare l’espressione di Churchill, da Stettino a Trieste, dominata dal blocco sovietico. Dopo aver ucciso ‘il porco sbagliato’ nel ’45, sempre Churchill a parlare, per alcuni decenni sotto la cappa mefitica della ‘guerra fredda’ e del timore di un conflitto atomico. E l’Occidente non fu più il continente delimitato dalla costa atlantica, là dove dal Portogallo e dalla Spagna s’erano partiti uomini dal cuore avventuroso alla ricerca di nuove terre e nuove conquiste per poi essere sostituiti dai francesi e dalla razza dei mercanti calvinisti e puritani. Ora, oltre l’oceano, gli Stati Uniti – già lo scrittore inglese Stevenson ebbe a dire, durante un suo viaggio fino alla costa del Pacifico, di sentirsi ai confini dell’Impero Romano (il gladio e l’aratro equiparati, in modo disinvolto cialtrone ed ignorante, al dollaro e la Coca-Cola) – ergersi a paladini proprio dell’Occidente per dilatarlo in ogni direzione là dove chiama il sopruso e il profitto.

Nel Medio Evo Carlo Magno, pur analfabeta (è bene ricordarlo, talvolta, a tutti i professori, agli intellettuali algidi e soporiferi), creò un Impero, che fu sacro e romano – allora si relegava ai miti il termine Europa – e fu idea capace di ridestare le foreste della pianura germanica, le coste italiche dando loro il senso di vivere nuova linfa e gioia. Poco o nulla di sacralità – Roma già si dava agli interessi mondani – vi era; poco o nulla di Roma e delle sue istituzioni. Eppure fu mito fondante e durevole, non nella dimensione storica dato che i suoi successori ne dilapidarono l’eredità, ma nel tempo vigile e memore degli uomini, con i loro desideri e le speranze le illusioni il confronto con il ricorrente presente, triste e malo. Dante docet. E il giovane amico, pur così ben più maturo di tutti noi, Adriano Romualdi si illudeva di contrapporre alle ideologie del ’68, ai falsi miti marxisti dell’’uovo marcio della borghesia’, il tragico scenario di Berlino in fiamme, difesa estrema e ostinata di volontari francesi e scandinavi e giovanetti della HJ armati di panzerfaust. Un’idea, un mito sono la medesima cosa? L’Europa tra Essere e Nulla…

Parmenide si sarebbe ritratto ‘venerando e terribile’, scuotendo il capo in assoluto dissenso – ‘Così dunque o è necessario che sia del tutto o che non sia affatto’ –. Noi no. L’Idea dell’Essere Europa vive nel tempo e nelle circostanze, nasce si attua muore in noi, è il mito, finito e ricorrente, con cui noi ci siamo sottratti agli inganni dell’esangue mondo borghese e dei suoi modelli timidi e vili, ci siamo dati al fascismo ‘immenso e rosso’, ne abbiamo riconosciuto il tratto di ‘poesia del XX secolo’. E’ quel Non-Essere, espulso e denigrato e abbandonato, di cui la filosofia volle indicare quanto essa non può non deve non vuole manifestare di sé, la maschera altera e orgogliosa. Noi, però, ‘nell’eminente dignità del provvisorio’ siamo fieri e ostinati essere e carne ed ossa e sangue, cioè tentare di ‘incarnare’ il mito.

A volte mi ritornano, i vecchi sono aggrappati ai ricordi, l’aula la cattedra gli alunni queste (eretiche) lezioni di un (eretico) in-segnante…

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