13 Aprile 2024
Società

Donne donne eterni dei

“È scabroso le donne sfidar, se vogliamo sappiamo come far noi sapremo trionfar. Donne donne eterni dei li sapremo umiliar, li vedremo arrivar, sulle ginocchia strisciar, il perdono pregar e la colpa scontar e ciascuno di loro ammetter dovrà che ciascuna di noi è una divinità.”

Mi piace raccontare storie di donne poiché da sempre sono sensibile ai problemi che riguardano il nostro mondo e la condizione femminile in generale. Al termine parità dei sessi, preferisco la parola rispetto della donna, la parità intesa come diritti è stata raggiunta in tutti i paesi moderni, almeno sulla carta, anche se permangono evidenti discriminazioni in campo lavorativo e nell’ambito familiare. La donna non è ancora libera e men che meno è rispettata per la sua femminilità, oggi come ieri rimane schiava dell’uomo e dei miti che lo condizionano e, spesso ne è vittima proprio per la sua specificità di genere. Solo in apparenza dunque il secolo appena concluso ha portato un maggiore riguardo alla figura femminile: alla donna sono state riconosciute l’anima e il diritto di voto, almeno nel mondo occidentale, ma a ben guardare, nel corso dei secoli la storia dell’appartenenza al mondo femminile, ha avuto la tendenza inversa allo sviluppo di tutti gli altri argomenti.

Anticamente, si evince dai ritrovamenti archeologici del periodo paleolitico, e dagli affreschi delle civiltà cretese e egiziana, vi era maggiore considerazione per le forme e le funzioni della donna di quanta ve ne sia stata successivamente. In seguito si passò a un rifiuto o disconoscimento del corpo femminile che l’Islam, ancora oggi, vuole occultato dal burqa essendo, solo un oggetto da vendere, comprare o ereditare, e che la civiltà occidentale, al contrario, tende a sfruttare e mercificare a fini commerciali o pornografici. Nelle società più antiche la donna godeva di una grande considerazione proprio per la sua facoltà di procreare, si pensi al mito della Grande Madre, divinità femminile primordiale, rappresentativa della fecondità. E non vi era una significativa differenza tra maschio e femmina. Nelle prime grandi civiltà urbane dei sumeri e dei babilonesi la donna poteva disporre dei propri beni, stipulare contratti, fare testamento e anche la prostituzione era considerata sacra. Nella civiltà romana, in età imperiale le donne di condizione elevata usufruivano di una certa indipendenza, ma fu con l’avvento del Cristianesimo, nel tardo impero, che le matrone romane persero definitivamente i diritti di cui ancora godevano. Il cristianesimo, con il Vecchio Testamento inserito nella Bibbia, conservò e applicò le sue radici ebraiche che prevedevano per le donne un ruolo esclusivamente subalterno e sottomesso all’uomo, conseguentemente anche alle cristiane non venne mai riconosciuta una dignità tale da conferire loro autorità e autonomia.

L’ossessione su valori morali come la castità, il candore, la pudicizia e la condanna di comportamenti giudicati corrotti e degeneri, relegarono la donna nel chiuso della casa, all’esclusivo ruolo di figlia, moglie e madre, sotto l’oppressivo controllo del padre prima e del marito poi. In generale, dunque nella storia, le donne hanno subito in crescendo la condizione di inferiorità rispetto agli uomini e per questo sono state oggetto di violenza, umiliazioni e soprusi. Il corpo della donna visto come una tentazione continua del demonio portò a una vera persecuzione, “la caccia alle streghe”, nel medio Evo e i padri della Chiesa da Sant’Agostino a Tommaso d’Aquino bollarono definitivamente l’atto di concedersi fuori dal sacro vincolo del matrimonio, come il più immondo dei peccati. Nel corso di tutta la storia della Chiesa, le donne sono state considerate esseri inferiori per natura e per legge.

La femminilità, cioè quell’insieme di caratteristiche fisiche e psichiche che distinguono la donna dall’uomo, è stata condizionata dalla storia e, di conseguenza, i comportamenti sono stati giudicati secondo il metro prestabilito da una specifica civiltà. Ogni cultura ha determinato ruoli, stereotipi e pregiudizi. Le donne dunque collocate sempre ai margini hanno spesso dovuto o voluto usare la loro femminilità per emergere, per ottenere favori. Per sopravvivere, per avere ciò che volevano, o semplicemente per esprimere la propria femminilità, le donne hanno imparato a “pro statuere”, a “mettere in mostra” ciò che l’uomo da sempre desidera, cioè a prostituirsi nel senso pieno del significato che oggi noi diamo al termine.

La storia è piena di citazioni di donne che usarono il sesso come merce di scambio, desidero però soffermarmi a ricordare alcuni episodi, poco conosciuti, avvenuti durante l’ultima guerra, in circostanze drammatiche, dove alcune donne hanno sfruttato a loro favore l’avvenenza fisica in un momento triste della loro vita come la permanenza in un ghetto o in un campo di concentramento nazista. Le donne ebree arrivate nei lager erano costrette a spogliarsi e venivano sottoposte alla tosatura di tutte le parti del corpo , inclusi pube e ascelle, una misura evidentemente volta a prevenire la diffusione dei pidocchi, ma queste subivano tale trattamento come una grande umiliazione poiché si sentivano private della loro femminilità e dignità. Nei campi di concentramento capitò che qualcuna di loro, si evince dai racconti delle sopravvissute, venisse violentata dai soldati di guardia, ma non era la pratica poichè essi commettevano, in quel caso, una grave infrazione alla legge, la “Rassenschande” “per la salvaguardia dell’onore e del sangue tedeschi”. Un reato, considerato un tradimento della razza, che poteva significare per i disubbidienti anche la pena capitale. Temendo le gravi conseguenze delle relazioni sessuali con persone di razza ebrea, gli uomini addetti ai campi preferivano dunque rinunciare al piacere piuttosto che rischiare pesanti punizioni o addirittura la vita. Successe però, in molti casi, che le prigioniere capirono in fretta che la sessualità poteva diventare uno strumento per ottenere insignificanti ricompense, tali da prolungare loro la vita. Una donna che nonostante le privazioni, riusciva a conservare una certa avvenenza, attirando l’attenzione di un SS, di un prigioniero privilegiato o di un kapò, poteva ottenere un pezzo di salsiccia, un paio di scarpe, cose minime, ma in grado di fare la differenza in quel particolare contesto. C’erano donne che si concedettero, pur subendo il grande disprezzo delle compagne, “per un pezzo di pane e burro” come racconta l’ex deportata Renata Laqueur. In quella realtà, tutto cambiava significato, le regole e le convenzioni, per ciò che attiene al sesso, perdevano ogni importanza, eppure perfino nei campi, andare a letto con un uomo significava attirarsi la condanna morale più severa. La conferma viene dalle testimonianze delle donne sulla Shoah e solo le più recenti interpretazioni da un punto di vista femminile hanno affrontato il problema con maggiore “sensibilità”, definendo col nome di “Bet Politik” (politica del letto) un uso del sesso come strategia di sopravvivenza.

Il ricatto sessuale era praticato anche fuori dai campi di lavoro, nei ghetti, dagli ebrei maschi che esigevano favori particolari in cambio di cibo e di altri generi di prima necessità. Diari personali rinvenuti in alcuni ghetti riportano che, uomini di alto rango, anche appartenenti allo Judenrat (Consiglio ebraico) acconsentivano a proteggere le ragazze carine o a evitare le deportazione di parenti, se le stesse erano compiacenti. Secondo una sopravvissuta di Theresienstadt, (il ghetto modello) la situazione “era analoga a quella del mondo esterno, se si eccettua il fatto che il bene di valore non era né l’oro né i gioielli, ma il cibo” (ricordi di Ruth Bondy in D.Ofer e L.J. Weitzman). Le donne sapevano che accoppiarsi con un kuzyn (cugino) pieno di risorse poteva fare la differenza fra la vita e la morte. Molte resistevano preferendo il digiuno alla vergogna, ma altre donne cedevano, si sceglievano un Kuzyn e passavano la notte con lui. Le filastrocche popolari, canticchiate fra i denti, irridevano queste scelte considerate sbagliate “Per la minestra, per la minestra, per un tozzo di pane, le ragazze dan via la loro… Ma detto fra noi lo faranno anche se bisogno non v’è” (ricordi di Felicja Karay in D.Ofer e L.J.Weitzman).

Non vi era nessuna pietà o giustificazione per le donne che avevano ceduto allo scambio e la condanna morale superava ogni comprensione. Ad Auschwitz dove erano rare le occasioni di procurarsi una razione di cibo in più, Gisella Perl, una dottoressa ebrea di origine ungherese, aveva il disperato bisogno di un paio di lacci con cui assicurarsi ai piedi le scarpe di una misura troppo grande. Indossare le scarpe era indispensabile per prevenire piaghe e infezioni, allora si rivolse a un polacco addetto alle latrine e gli si concedette in cambio di un pezzetto di corda. “la sua mano, imbrattata degli escrementi che maneggiava dalla mattina alla sera, si accostò al mio sesso rudemente e con insistenza” la dottoressa dopo fuggì inorridita da quello che le era successo”. “I miei valori erano mutati radicalmente… Il prezzo di un laccio da scarpe era salito alle stelle”(G.Perl, “I was a doctor in Auschwitz”). Nell’inverno del 1942 una ragazza molto bella, bruna, con grandi occhi neri, poco più che adolescente, aveva circa sedici anni, giunse a Sobibor. Vi era al campo un sergente maggiore che pare fosse famoso per la sua crudeltà coi prigionieri il quale, vistosi di fronte quella fresca e innocente fanciulla se ne innamorò perdutamente, la portò a casa, ne fece la sua domestica personale e la sua amante. Raccontano i testimoni che la loro divenne una relazione “seria” e che lui si addolcì e mutò atteggiamento verso i detenuti ebrei. Del suo cambiamento però non si accorsero soltanto gli ebrei, ma anche i suoi superiori e, considerato che evidentemente non era un capriccio, il suo comandante tenente delle ss Franz Reichleitner, per evitargli punizioni peggiori fece trasferire la ragazza al Campo III dove in seguito trovò la morte. Il sergente maggiore continuò a fare il suo dovere svolgendo i compiti assegnatigli, ma mai più ebbe a trattare male un ebreo, il suo atteggiamento per amore della ragazza era cambiato definitivamente. Più tardi venne trasferito e se ne perdono le tracce. Forse anche lui aveva subito le conseguenze di quell’amore sbagliato. È evidente che un vero legame, un vero sentimento, si era venuto a creare tra Ruth e Groth di questo avviso erano sia il comandante del campo sia gli ebrei che l’hanno conosciuta negli ultimi giorni della sua vita. “la loro reazione diventò una cosa seria e Ruth influenzava il comportamento di Groth” (Ada Lichtman in di Yitzahak Arad “Belzec Sobiror,Treblinka”). Citerò un altro incredibile caso avvenuto ad Auschwitz.

Vi era una donna ebrea, Maya, ricordata per la sua crudeltà verso i suoi simili. Nominata kapò e, incaricata dalle SS di mantenere l’ordine all’interno delle baracche, era assai poco indulgente con le sue compagne di sventura e picchiava a sangue chiunque le creasse problemi. Tutti i prigionieri sapevano, anche se non potevano averne le prove, che intratteneva una relazione con un militare tedesco che la raggiungeva ogni notte nella stanzetta privata di cui disponeva dato il suo incarico. La guerra finì e lei, come molte altre deportate fra cui una certa Lucille, fecero ritorno ai loro destini. Un giorno intorno al 1947, a New York presso i grandi magazzini Altmman, Lucille incontrò con sua grande sorpresa proprio la terribile Maya, elegantissima, mentre era intenta a scegliersi un paio di guanti. Grande fu l’imbarazzo di quest’ultima, quando capì di essere stata riconosciuta. Alle domande dirette di Lucille rispose che era stata costretta a comportarsi in quel modo e che in fondo non aveva mai ucciso nessuno. Confessò anche che il “suo” tedesco, quello che la frequentava ogni notte al campo, lei se lo era sposato.(Intervista a Lucille E.”Return to survivors/remember.org/witness”). “I was at Altman’s, let’s see it must have been 1947, in New York. And it was cold, it was fall. I needed a pair of gloves that did, from California you don’t take gloves. And I went into Altman’s on Fifth Avenue, I was alone I didn’t go with friends. I went to the glove counter to get tied on gloves. And I couldn’t decide whether to get red ones or black ones. There was a lady next to me, much taller than I, very black hair, even, naturally died and sort of cut almost like a man’s cut. Very short. Very striking. Well dressed. She was trying on gloves and she smiled. And I don’t know why or what but I turned and I looked at her. And she looked at me. And I said, Maya. That wasn’t a question, it was a statement. And she said, yes, how do you know? I said, Auschwitz. And she turned white. She said, oh I can explain, I had to, it was really bad, and I didn’t kill anybody. She just beat us, she didn’t kill us. And it just sort of burst out of her, that she really wasn’t bad. “ (Traduz. “Ero da Altman, a New York, vediamo, deve essere stato il 1947. E faceva freddo, era autunno. Mi servivano un paio di guanti, perché chiaramente dalla California non ti porti i guanti. Ed entrai da Altman, sulla quinta strada, non andai con amici, ero sola. Mi recai al reparto guanti e non riuscivo a decidere se prenderli rossi o neri. C’era una signora accanto a me, molto più alta di me, capelli nerissimi, radi, con una strana acconciatura, quasi come un taglio maschile, molto corto. Era molto appariscente. Ben vestita. Si stava provando dei guanti e sorrideva. Non so perché o cosa, ma mi girai e la guardai. E lei mi guardò. Io dissi, Maya. La mia non era una domanda, era una affermazione. E lei disse sì, come lo sai? Io risposi, Auschwitz. E lei impallidì. Poi disse, oh posso spiegare, io dovevo, era davvero terribile e io non uccisi mai nessuno. Lei ci picchiava solo, non ci uccideva. E questo bastava a farle ritenere, che davvero non era cattiva”). Maya aveva posto la propria incolumità e il proprio benessere al di sopra di ogni altra cosa, dunque è possibile che il suo matrimonio con il tedesco sia stato di interesse visto che la reputazione fra gli ebrei se l’era giocata e che lui perdutamente innamorato l’aveva seguita di campo in campo fino alla fine della guerra.

Una storia analoga successe sempre ad Auschwitz tra il dottor Rosenthal, medico SS, e Gerta Kurnheim, una deportata che gli faceva da infermiera. Il lavoro di Gerta era di praticare l’eutanasia ai pazienti gravemente malati. La donna si era calata pienamente nel suo ruolo tanto che quando per errore venne informata della morte del congiunto la famiglia di un paziente ancora in vita, per non ammettere l’errore la solerte infermiera, d’accordo col dottore, praticò l’eutanasia anche al paziente non grave e il conto fu pareggiato. In seguito i due amanti furono denunciati ai superiori , proprio per la sfacciata relazione che il dottore intratteneva con la sua infermiera di razza ebrea contravvenendo alla legge. Lui si suicidò e di lei si persero le tracce, forse morì o fu uccisa. Quali fossero i veri sentimenti di Gerta per il dottore non ci è dato saperlo, ma è quasi certo che per entrambi la relazione “proibita” significò morte prematura. Sembrano storie assurde ma riporto quanto raccontato da Germaine Tillion nel suo Ravensbrück, un libro in cui convivono documentazione storica e testimonianza personale di una ebrea che, denunciata da un prete cattolico fu arrestata nel 1942 e deportata. Sopravvissuta al campo, dopo la guerra, la Tillion è sempre stata in prima linea nel dibattito sulla condizione femminile.

Un’altra storia raccontata dall’ebrea Kitty Hart nel suo libro “Return to Auschwitz” parla di una internata ungherese di cui tace il nome che si concedeva a Wunsch, un SS responsabile dei magazzini per avere in cambio cibo e trattamenti di favore. Questa volta però la Hart e compagne invece di condannarla per la sua condotta, la favorivano mettendosi di guardia mentre i due facevano l’amore al riparo da mucchi di provviste. Anch’esse ottenevano, sfruttando l’amica, senza concedersi direttamente, parte di quello che il soldato donava alla sua amante e fra di loro ridacchiavano soprannominandolo “wiener schnitzel” (cotoletta viennese). Alla fine della guerra la donna che era stata amante di Wunsch si presentò in qualità di testimone al processo contro di lui a Francoforte. L’accorata difesa che pronunciò per il cosiddetto aguzzino, fu talmente efficace che venne prosciolto dall’accusa di crimini di guerra. L’inaspettata quanto commovente arringa della donna, sorprese accusatori e accusati, la guerra era finita, nulla l’aveva costretta a mentire e dunque non resta pensare che fosse amore o gratitudine il sentimento che la spinse a testimoniare in suo favore,o peggio, che preferì farsi credere innamorata che fedifraga.

Come detto all’inizio all’interno dei campi i rapporti fra guardie e internate furono disciplinati da una severissima legge, ma fuori presso i bivacchi partigiani le donne subirono anche trattamenti peggiori riguardo la sfera sessuale. Le donne ebree che si unirono ai combattenti antinazisti non ebrei , in cambio di protezione, furono costrette a relazioni carnali. In questi accampamenti, nascosti e precari, si erano rifugiati migliaia di soldati russi sfuggiti all’offensiva tedesca del 1941. Questi sedicenti “partigiani”, combattenti per la libertà dai nazisti, costituivano, in realtà, piccole bande di disperati senza disciplina, privi di armi e di comandante e che badavano più a sopravvivere che a combattere i tedeschi. I “ distaccamenti partigiani”, (otriads in russo) salvo rare eccezioni, allontanavano o addirittura uccidevano gli ebrei che cercavano di unirsi a loro per mettersi in salvo dalla deportazione. Era frequente che giovani donne, magari con prole cercassero aiuto e che venissero spogliate di tutto quello che portavano, violentate e abbandonate o uccise. Solo le ragazze più avvenenti se la potevano cavare accettando di diventare le amanti dei soldati russi più alti in grado, oppure le donne medico, infermiere e cuoche che erano sicuramente le benvenute proprio per i loro specifici ruoli. Le donne degli otriads erano considerate, amanti, compagne, mogli provvisorie e erano disprezzate perchè accordavano favori sessuali in cambio di cibo. Nella inaccessibile foresta russa, c’era un otriad creato e gestito da tre fratelli ebrei,i Bielski che erano diventati nomadi nella foresta e accoglievano, ovviamente, tutti gli ebrei in fuga senza distinzioni di sorta. Ciononostante, anche in quella comunità, le donne erano sottomesse agli uomini e potevano sperare di ottenere una posizione migliore nella gerarchia del gruppo solo scegliendosi un protettore potente e diventandone l’amante. La regola dell’otriad voleva che una donna di classe superiore scontasse i privilegi di cui godeva la sua casta prima della guerra accoppiandosi con un uomo di classe inferiore in una sorta di convivenza del tutto improponibile nel passato. Sulia Rubin, donna di classe che non sopportava i sacrifici dei lavori manuali e la condizione di “malbushin” (termine dispregiativo per indicare i lavori più umili) si unì con un uomo ignorante e piuttosto rozzo, un ex combattente di cui mai e poi mai avrebbe accettato la corte in passato. Per usufruire dei privilegi che con lui riusciva ad ottenere, gli si concedette e gli restò accanto anche dopo la guerra, trasformando una relazione indecorosa nel vincolo consacrato del matrimonio. (woman in the forest in contemporary Jewry vol.17 01/1996) e anche in “Donne dell’Olocausto” (edizioni Le lettere). “Libro curato da Dalia Ofer e Leonor J.Weitzman, nel tentativo di seguire il destino degli ebrei europei, cercando di capire chi, tra maschi e femmine, tra uomini e donne, abbia trovato “nel” e “grazie” al proprio sesso, una qualche forma di salvezza.” E’ inspiegabile come si voglia nascondere che spesso le donne, cadute nella trappola sessuale, per non aver saputo o voluto resistere ai sacrifici e agli stenti, in seguito, si siano sentite in dovere di giustificarsi, anche a guerra finita, preferendo dirsi innamorate dei loro aguzzini, che non giudicate per essersi concesse anche se in cambio della vita stessa. Finisce tutto nel ritenere dunque prostituzione quello che le donne scelsero liberamente di fare o furono costrette a fare per salvarsi la vita?

In una considerazione finale si può affermare che, nonostante le battaglie e le vittorie del cosiddetto femminismo, la sessualità, l’erotismo, continuino a essere quelli degli uomini. Il desiderio maschile è scoperto, naturale, spontaneo, quasi ingenuo, mentre il desiderio femminile, quello è valutato in ogni sua espressione, continua a essere sottoposto a controllo e a giudizio e non si esibisce. Siamo ancora molto lontani dal rispetto vero nei confronti del corpo femminile, che dovrebbe essere vissuto e considerato con tutta la naturalezza che esso richiede e per cui è predisposto.

6 Comments

  • giacinto reale 15 Ottobre 2014

    oggi anniversario nicciano, mi viene in mente il suo: “vai dalle donne ?” porta la frusta”…per difendersi, però…
    alla fine anche in questa galoppata, mi pare che è l’uomo a non farci una gran figura…… 🙂

    • Franca Poli 15 Ottobre 2014

      Giacinto, grazie per l’attenzione.il messaggio che volevo trasmettere è che a causa delle influenze sociali religiose etc etc la donna è sempre condizionata nei suoi atteggiamenti e giudicata, non ce l’ho con gli uomini in particolare, era un concetto difficile e forse non l’ho espresso benissimo .

  • giacinto reale 15 Ottobre 2014

    oggi anniversario nicciano, mi viene in mente il suo: “vai dalle donne ?” porta la frusta”…per difendersi, però…
    alla fine anche in questa galoppata, mi pare che è l’uomo a non farci una gran figura…… 🙂

    • Franca Poli 15 Ottobre 2014

      Giacinto, grazie per l’attenzione.il messaggio che volevo trasmettere è che a causa delle influenze sociali religiose etc etc la donna è sempre condizionata nei suoi atteggiamenti e giudicata, non ce l’ho con gli uomini in particolare, era un concetto difficile e forse non l’ho espresso benissimo .

  • Lupo nella Notte 19 Ottobre 2014

    >Nelle società più antiche la donna godeva di una grande considerazione proprio per la sua facoltà di procreare, si pensi al mito della Grande Madre, divinità femminile primordiale, rappresentativa della fecondità.

    Sulla primordialità assoluta della civiltà della “Grande Madre” – anziché relativa in rapporto a quella attuale – le cose non sono cosí semplici e lineari come la nuova “vulgata” spiritual-femminista – e, bisogna dire, piuttosto “new age” – dei tempi recenti vorrebbe far credere. Gli stessi studî del Ruzzai su questo sito ne portano esempî preziosi ed eloquenti. Basti qui rammentare che secondo un’ottica tradizionale le varie civiltà nate e scomparse sotto il segno della “Grande Madre” non erano che frutto della decadenza di un’originale civiltà primigenia caratterizzata dal simbolismo iperboreo-solare, in cui le valenze femminili erano subordinate a quelle virili. Echi di questa differenza si ritrovano in molte civiltà storiche, come nell’Ellade arcaica, dove la donna era sempre dipendente da un uomo, il padre prima, il marito poi. Ugualmente fu cosí nella Roma primigenia, in cui si poteva dire che la donna era “in manum viri”, ad indicarne la totale subordinazione al “pater familias”. Dunque, semmai, con il primo Cristianesimo, vi è stato un accenno di “restaurazione” in senso tradizionale di qualcosa che già l’Occidente aveva conosciuto – e che con il decadere delle civiltà tradizionali era venuto meno – che non era stato per nulla caratterizzato da una visione “moralistica” della donna e dei comportamenti sessuali in genere, ma semplice frutto del rigoroso rispetto dei ruoli naturali, si potrebbe dire, prendendo a prestito la terminologia Hindu, del “dharma” di ognuno. Nello stesso Islam – che oggi è cosí facile vituperare se ci si limita a giudizî stereotipati e superficiali, complici le innumeri strumentalizzazioni agite proprio da potentati occidentali e relativi interessi geo-politici – il ruolo delle donne nell’istituzione dello harem era ben lungi dall’essere quello di “schiave sessuali” cui è abituato a pensare l’occidentale medio (e anche piú che medio…) ed esse trovavano la loro dignità e la loro piena realizzazione proprio nel farne parte, a dispetto di ogni moderna “correttezza politica”, che finisce proprio essa con l’apparire alquanto “bigotta”. Quanto alla “spiritualità” propria delle civiltà matrifocali o ginecocentriche propriamente dette, ciò che dovrebbe esserne messo in rilievo è la sostanziale assenza di un reale anelito trascendente, vale a dire autenticamente spirituale, limitandosi essa a un’esaltazione “vitalistica” dell’esistenza semplicemente naturale, scandita dai ritmi sacralizzati di nascita, generazione e dissoluzione con conseguente ritorno di elementi oscuri, appartenenti a uno psichismo subpersonale, nel perpetuo circolo della vita terrena, e la totale insignificanza dei singoli individui in rapporto a entità “collettivistiche” divinizzate quali la “Vita”, la “Natura”, o la “Grande Madre”, appunto, che ne costituiscono il surrogato di quel Principio Supremo e impersonale che caratterizzava invece civiltà che vedevano nell’Iperuranio e non certo nel “tellurico” la loro meta spirituale, e mancando quindi di un’autentica prospettiva ultraterrena che sapesse andar oltre la mera esistenza materiale, cosicché non sarebbe esagerato parlare di una sorta di “materialismo mistico”, e niente di piú, che impregnava l’orizzonte “religioso” di tali civiltà.

  • Lupo nella Notte 19 Ottobre 2014

    >Nelle società più antiche la donna godeva di una grande considerazione proprio per la sua facoltà di procreare, si pensi al mito della Grande Madre, divinità femminile primordiale, rappresentativa della fecondità.

    Sulla primordialità assoluta della civiltà della “Grande Madre” – anziché relativa in rapporto a quella attuale – le cose non sono cosí semplici e lineari come la nuova “vulgata” spiritual-femminista – e, bisogna dire, piuttosto “new age” – dei tempi recenti vorrebbe far credere. Gli stessi studî del Ruzzai su questo sito ne portano esempî preziosi ed eloquenti. Basti qui rammentare che secondo un’ottica tradizionale le varie civiltà nate e scomparse sotto il segno della “Grande Madre” non erano che frutto della decadenza di un’originale civiltà primigenia caratterizzata dal simbolismo iperboreo-solare, in cui le valenze femminili erano subordinate a quelle virili. Echi di questa differenza si ritrovano in molte civiltà storiche, come nell’Ellade arcaica, dove la donna era sempre dipendente da un uomo, il padre prima, il marito poi. Ugualmente fu cosí nella Roma primigenia, in cui si poteva dire che la donna era “in manum viri”, ad indicarne la totale subordinazione al “pater familias”. Dunque, semmai, con il primo Cristianesimo, vi è stato un accenno di “restaurazione” in senso tradizionale di qualcosa che già l’Occidente aveva conosciuto – e che con il decadere delle civiltà tradizionali era venuto meno – che non era stato per nulla caratterizzato da una visione “moralistica” della donna e dei comportamenti sessuali in genere, ma semplice frutto del rigoroso rispetto dei ruoli naturali, si potrebbe dire, prendendo a prestito la terminologia Hindu, del “dharma” di ognuno. Nello stesso Islam – che oggi è cosí facile vituperare se ci si limita a giudizî stereotipati e superficiali, complici le innumeri strumentalizzazioni agite proprio da potentati occidentali e relativi interessi geo-politici – il ruolo delle donne nell’istituzione dello harem era ben lungi dall’essere quello di “schiave sessuali” cui è abituato a pensare l’occidentale medio (e anche piú che medio…) ed esse trovavano la loro dignità e la loro piena realizzazione proprio nel farne parte, a dispetto di ogni moderna “correttezza politica”, che finisce proprio essa con l’apparire alquanto “bigotta”. Quanto alla “spiritualità” propria delle civiltà matrifocali o ginecocentriche propriamente dette, ciò che dovrebbe esserne messo in rilievo è la sostanziale assenza di un reale anelito trascendente, vale a dire autenticamente spirituale, limitandosi essa a un’esaltazione “vitalistica” dell’esistenza semplicemente naturale, scandita dai ritmi sacralizzati di nascita, generazione e dissoluzione con conseguente ritorno di elementi oscuri, appartenenti a uno psichismo subpersonale, nel perpetuo circolo della vita terrena, e la totale insignificanza dei singoli individui in rapporto a entità “collettivistiche” divinizzate quali la “Vita”, la “Natura”, o la “Grande Madre”, appunto, che ne costituiscono il surrogato di quel Principio Supremo e impersonale che caratterizzava invece civiltà che vedevano nell’Iperuranio e non certo nel “tellurico” la loro meta spirituale, e mancando quindi di un’autentica prospettiva ultraterrena che sapesse andar oltre la mera esistenza materiale, cosicché non sarebbe esagerato parlare di una sorta di “materialismo mistico”, e niente di piú, che impregnava l’orizzonte “religioso” di tali civiltà.

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