10 Aprile 2024
Età oscura

Dalle stelle alle stalle – Rita Remagnino

Ritrovatosi nella “selva oscura” un giovedì, la mattina del sabato (26 marzo) Dante è ancora alle prese con i trabocchetti dell’Inferno. Il crescendo dei riferimenti astronomici segnala tuttavia l’approssimarsi della via d’uscita, alla quale seguirà la scalata verso il Sacro Monte del Purgatorio, cioè l’avvio del suo percorso di purificazione e liberazione.
Questo è l’incipit del canto XXIV: “In quella parte del giovanetto anno / che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra / e già le notti al mezzo dì sen vanno, / quando la brina in su la terra assempra / l’imagine di sua sorella bianca, / ma poco dura a la sua penna tempra …” (If XXIV 1-6). Nella stagione dell’anno iniziato da poco, baciata dai timidi raggi del sole sotto la costellazione dell’Acquario, la durata delle notti assomiglia a quella dei giorni mentre la brina depositata sul terreno ricorda la sua bianca sorella (la neve), sebbene abbia ancora poco inchiostro nella penna (non duri).
Nonostante Dante e Virgilio siano in procinto di sbucare nell’emisfero australe, dove l’equinozio di primavera cade tra il 22 ed il 23 settembre, l’autore continua a parlare dell’equinozio di marzo (è entrato nella “selva oscura” a Pasqua, con il sole in Ariete) che annuncia la fine dell’inverno e l’inizio della primavera nell’opposto emisfero boreale. Ad ogni modo, come si dice per farla breve: l’importante è capirsi e in questo frangente conta principalmente l’osservazione del cielo, cioè la volta stellata che rappresenta la fatidica lucina in fondo al tunnel.

 

Ovviamente nell’imbuto infernale il cielo è celato e questa privazione è forse la pena più dolorosa per i dannati confinati quaggiù. Tuttavia gli occhi del cuore non temono barriere e il Fiorentino ne fa largo uso, ben sapendo che la capacità di orientarsi nel sottosuolo non può discostarsi da quella in vigore sulla Terra, la quale dipende in larga misura dalla lettura del firmamento, da intendersi per estensione come ricerca di un contatto con dio.
Pur disprezzando le ciarlatanerie dei sui tempi egli è consapevole degli influssi dei corpi celesti (il paese sincero) sui corpi terrestri. Sa anche che qualsiasi evento degno di nota deve appartenere ad almeno due mondi (il cielo e la terra, il visibile e l’invisibile), in quanto la realtà terrestre non è altro che un riflesso della sfera celeste, e si dà il caso che lui abbia per le mani un poema divino.
Niente affatto estraneo all’eresia catara, Dante ritiene inoltre che le creature terrestri non subiscano passivamente le influenze astrali ma partecipino con il loro Spirito alla formazione di un immenso campo di forze che comprende ogni cosa: minerali, piante, animali, uomini, colori, suoni, corpi celesti. Lo stesso dio è inserito in un’ottica universale e concepito come una specie di coscienza divina che permea con il suo «stampo» ogni cosa. Una particella atomica. Un corredo genetico. Un processo mnemonico dalle infinite possibilità che aleggia sopra la Creazione rivelandone l’infinita armonia nel solenne silenzio del cielo stellato. Ovviamente questa forza buona, perfetta e onnipotente, non è l’artefice del mondo di dolore e di morte in cui spadroneggia il Male; ma è presto per affrontare la visione dualistica del poeta, più esplicita nel Purgatorio e nel Paradiso.

 

Per il momento basta e avanza tenere d’occhio il cielo, l’unico punto fermo in mezzo alla baraonda degli imprevisti e degli sbandamenti del Maestro che hanno già messo Dante in imbarazzo più di una volta. Chissà come farà ad uscire vivo da là sotto … se lo chiede anche lui mentre le Malebolge declinano verso il margine del pozzo, così che la posizione di ciascuna bolgia rende ogni parete divisoria più alta dell’altra.
Come al solito il cammino procede verso sinistra (per accelerare i tempi la coscienza va spinta con la forza), invece la marcia in Purgatorio terrà la destra (il percorso di purificazione richiede metodo e pazienza). Detta così sembra un’operazione letteraria, mentre si tratta di due diverse tipologie di viaggio: nella prima (l’Inferno) si va a rotta di collo per non soccombere, nella seconda (il Purgatorio) regna il libero arbitrio.
In entrambi i casi, comunque, lo sforzo è immane. Difatti in cima alla salita più impervia finora affrontata Dante arriva con il fiatone: “La lena m’era del polmon sì munta / quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre, / anzi m’assisi ne la prima giunta” (If XXIV 43-45). Arrampicandosi come un gatto di spuntone in spuntone, Virgilio lo sprona a non mollare. Pensava forse di guadagnare la fama eterna rimanendo sotto le coperte? E poi, questo è niente in confronto alla scala ben più ardua (quella del Purgatorio) che tra poco dovrà salire; se il concetto gli è chiaro, gambe in spalla e via. “Più lunga scala convien che si saglia; / non basta da costoro esser partito. / Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia” (If XXIV 55-57).

 

Non sfugge la parentela tra le parole del Maestro e la narrazione tradizionale relativa al concetto di «scala delle anime» che ha visto il Cristianesimo quale ultimo fruitore. Giacobbe sogna una scala su cui gli Angeli vanno e vengono in un sali/scendi spirituale che unisce il Cielo alla Terra. Materialmente i due pellegrini non dispongono di alcuna scala, però sotto l’aspetto simbolico non c’è differenza tra l’idea di «scala» e quella di «strada» in quanto entrambe le traiettorie consentono lo spostamento da un capo all’altro del percorso prestabilito.
Corroborato intanto dalla prospettiva d’incontrare Beatrice, che gli spiegherà ogni cosa, Dante affronta con decisione l’attraversamento di un ponte roccioso e impervio, ancora più stretto del precedente, facendosi coraggio da solo: “Va, ch’i’ son forte e ardito.” Oltre il passaggio lo attende l’orrendo spettacolo della punizione inflitta ai ladri della VII Bolgia: avvolti da grovigli di serpenti quali neppure il deserto di Libia, Etiopia o Arabia potrebbero eguagliare, i corpi nudi vengono morsicati e seviziati fino ad infiammarsi, si riducono in cenere e poi risorgono come la Fenice affinché il supplizio possa ricominciare daccapo.
Lo spettacolo offre al poeta il pretesto per parlare del mitico uccello di fuoco che al compimento dei cinquecento anni di età muore e rinasce. “Così per li gran savi si confessa / che la fenice more e poi rinasce, / quando al cinquecentesimo anno appressa; / erba né biado in sua vita non pasce, / ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, / e nardo e mirra son l’ultime fasce” (Inferno, canto XXIV, 106-111). I dantisti riconducono la citazione a Ovidio (Met. XV, 391-407); ma perché piazzare la Fenice proprio nella VII Bolgia dell’VIII Cerchio?
Se non ci fosse un doppio senso, sarebbe la prima volta, perciò noi fingeremo che ve ne siano molti di più senza respingere alcun retropensiero. Se tutto si fa e si disfa, come pare, l’Inferno è eterno oppure si tratta di una punizione «provvisoria»? E la vita allora, è una sola? Dante crede nella reincarnazione?

 

Dubbi del genere nel Medioevo portavano dritti filati al rogo. Ma siccome oggi sono altri i reati puniti con centosettantacinque anni di carcere di massima sicurezza, riteniamoci liberi di esplorare il campo a piacimento. Confortati per di più dalla notizia che queste domande già circolavano tra i cristiani dei primi secoli, i quali vedevano un Paradiso riservato a pochi eletti e la prospettiva di un Inferno perpetuo per tutti gli altri. Proprio per tenere a bada il proprio gregge la Chiesa nel 1274 istituì una terra di mezzo accessibile a chiunque: il Purgatorio.
Il nuovo regno non contraddiceva la dottrina, né disattendeva l’esigenza di equità e giustizia dei fedeli poiché la perseveranza nell’errore continuava ad essere punita con l’omaggio di un biglietto di sola andata per l’Inferno. Il ladro sacrilego Vanni Fucci è la dimostrazione plastica di questo concetto: non pago di essere finito nella VII Bolgia insiste nel comportarsi da feroce partigiano dei Neri, profetizza a Dante la disfatta politica dei Bianchi a Firenze e poi chiama in causa una tempesta impetuosa scatenata da Marte con l’intento di fargli ancora più male.
Sui temi morali la Commedia batte e ribatte, sicché anche questo punto verrà ripreso quando un d’i neri cherubini dirà che non si può assolvere chi non si pente, né ci si può pentire e insieme continuare a peccare, perché questo non è consentito dal principio di contraddizione: “assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che non consente” (If XXVII 118 -120).

 

L’improvvisa comparsa di un centauro eccezionale costringe il Fucci a una fuga precipitosa non priva di un’ultima fiammata di cattiveria poiché il ladro esce di scena con un gestaccio rivolto a dio, cosa che gli fa guadagnare l’oscar di «spirito più superbo dell’Inferno».
Il centauro è gigantesco, porta addosso tante bisce come non ce ne sono in tutta la Maremma tenendo sulle spalle un drago ad ali spiegate che erutta fuoco e fiamme. Si chiama Caco, un nome che riporta alla mitologia romana. Ma quasi volesse allontanare dal suo poema il sospetto di una manipolazione del mito (Eneide di Virgilio, Metamorfosi di Ovidio), Dante affida al Maestro il compito di presentarlo: “Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, / che sotto ’l sasso di monte Aventino / di sangue fece spesse volte laco. / Non va co’ suoi fratei per un cammino, / per lo furto che frodolente fece / del grande armento ch’elli ebbe a vicino …” (If XXV 25-30).
Ammesso e non concesso che il racconto virgiliano sia davvero alla base della descrizione dantesca, i conti non tornano: nell’Eneide viene detto che Caco è figlio di Vulcano, quindi non può essere un fratello dei Centauri (figli di Issione e di una nube), né Virgilio lo descrive come un centauro. Quindi, chi è costui? Cosa rappresenta l’ibrido mezzo dannato (anche lui era un ladro) e mezzo demone, che compare e scompare in un baleno?
In realtà nessuno ha mai chiarito la sua presenza nella settima bolgia dell’ottavo cerchio, né si capisce bene quale posto occupi Caco nell’architettura del poema sacro. A meno che non si accetti il principio del rasoio di Occam, considerandolo una semplice bandierina segnaletica da fissare sulla mappa dell’Inferno.

 

Non sarebbe la prima volta che Dante fornisce al lettore le coordinate necessarie a mantenere la rotta. Nel giorno iniziale del viaggio aveva precisato che c’era la Luna piena (If XX 127-129), aggiornando via via la tabella di marcia circa le posizioni degli astri nelle varie fasce orarie (If VII 98-99, XI 112-114, XX 124-129), mentre ora s’inventa Caco per avvisare i viaggiatori che è iniziata la manovra di avvicinamento alla Corona Australe, o Corona Centauri, o Corona Sagittarii, che un tempo formava un tutt’uno con la Costellazione del Sagittario.
Alfredo Cattabiani, citando il Sesti, avanza l’ipotesi che tale nomenclatura fosse un retaggio delle corone di raggi solari che adornavano i grandharva indù, esseri di probabile derivazione indoeuropea, i quali, guarda caso, sarebbero i progenitori dei Centauri (Planetario, 1998). Queste figure celestiali, la cui dimora si trovava vicino al sole, cioè nelle acque celesti, erano incaricate di vigilare sul Soma per conto degli dèi e dei sacrificatori.
A modo suo anche il centauro Caco è un guardiano deputato a mantenere l’ordine e la disciplina nella bolgia, tant’è vero che insegue inferocito il bestemmiatore Vanni Fucci, detto «la bestia», gridando “dov’è, dov’è quell’empio?” per dargli ciò che si merita. A differenza però dei grandharva, autorizzati dal Superiore a scortare gli esseri umani dall’Aldilà all’Aldiquà e viceversa (RV 10.10.4), il sorvegliante Caco non può lasciare la sua postazione, dove svolge l’importante ruolo di «cartello stradale» per gli eventuali viaggiatori speciali diretti al Polo Sud.

 

Il cammino dei due poeti prosegue tra le orribili metamorfosi serpentine dei ladri. Le descrizioni dei corpi avvolti dalle spire dei rettili potrebbero derivare da analoghi brani di Lucano e Ovidio, andando ad aggiungersi alla narrazione tradizionale della Fenice. Senza ipocrisia Dante ci tiene però a precisare la propria superiorità stilistica rispetto ai poeti classici, un concetto che avrà modo di ribadire anche in seguito (Pg XI 100 ss.) e di cui si dichiara fermamente convinto.
D’altronde lui è impegnato in un’impresa mai tentata in precedenza: scrivere sotto dettatura divina di argomenti inediti quali, ad esempio, lo stato delle anime dopo la morte. Anticipando dunque il concetto di inesprimibilità della materia trattata, che sarà dominante nel Paradiso, si scusa con il lettore se la sua penna non si dimostrerà all’altezza della straordinarietà delle cose vedute. “Così vid’io la settima zavorra / mutare e trasmutare; e qui mi scusi / la novità se fior la penna abborra” (If XXV 142-144).
A testa alta si accoda infine al Maestro in direzione VIII Bolgia dell’VIII Cerchio, dove, ancora non lo sa, troverà ad attenderlo un personaggio leggendario. Non si può dire che lui e Virgilio siano fuori pericolo perché il bello deve ancora arrivare, tuttavia si trovano a buon punto e possono contare sul conforto delle luci del «cielo celato» dell’Inferno, che faranno da battistrada.

 

Come gli Antichi prima di lui Dante parla con disinvoltura la «lingua delle stelle», un idioma pregno di significati che ci fa vergognare del misero linguaggio odierno. In teoria anche noi avremmo sopra la testa la stessa fonte d’ispirazione, ma quasi nessuno la degna di uno sguardo. I soli collegamenti spaziali capaci di riscuotere l’attenzione del pubblico sono attualmente le cosiddette «costellazioni di satelliti» formate dal sistema internet a banda larga, ufficialmente per scopi commerciali ma di fatto con fini militari.
Pochi ormai sanno leggere una mappa stellare e chi osa parlare della relazione «emotiva», ossia elettrica, tra i vari elementi dell’universo che concorrono al benessere della Coscienza Cosmica si espone al ridicolo. Manca all’umanità dell’Età Oscura la sensibilità, la cultura, l’empatia, l’intelligenza, la consapevolezza di essere parte integrante di un delicatissimo equilibrio.
In ordine cronologico l’ultimo segnale luminoso prima delle tenebre l’ha lanciato il cosmismo, una corrente filosofica russa otto/novecentesca imperniata sull’idea di un’umanità evoluta (“come se fosse un dio, l’uomo può pervenire alla razza divina …”) dalle infinite possibilità. Rifiutata dalla scienza sovietica ufficiale, la concezione di una Materia viva radicò piuttosto bene negli ambienti degli esploratori sovietici dello spazio, venendo interamente condivisa dai tradizionalisti dell’epoca e da numerosi studiosi che indagavano il cielo.
Il cosmonauta Jurij Gagarin durante il suo epico viaggio tra le stelle inviò un cordiale saluto al cosmista, teosofista e occultista russo Nikolaj Roerich, noto per le sue ricerche spirituali tra le montagne e i villaggi himalayani. Anche Tsiokovsky, il «padre della missilistica sovietica», che divenne nel periodo staliniano uno dei grandi eroi bolscevichi della scienza, considerava il Cosmo un’entità dotata di spirito, dimostrandosi più in sintonia con il cosmismo che con i suoi contemporanei. Poi ci fu l’hollywoodiana «conquista della Luna» e millenni di conoscenze finirono nel dimenticatoio. Gradualmente lo spazio si trasformò in un tavolo verde dove i ricchi più ricchi del mondo iniziarono a giocare le loro partite a poker, sperando di vincere. Staremo a vedere cosa succederà quando le serate mondane saranno finite.

 

(il viaggio continua)

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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