11 Aprile 2024
Teatro

Carmelo Bene anti-politico – Umberto Petrongari

Ho tentato di estrapolare la prospettiva di Carmelo Bene soprattutto visionando i Quattro momenti su tutto il nulla, una trasmissione in cui parla brevemente della morte, il seminario tenutosi al Teatro Argentina il 20 gennaio del 1984, avendo visto Hommelette for Hamlet (1987). Ho inoltre letto la conversazione tra Bene e Giancarlo Dotto, autobiografia anche intellettuale di Bene (il libro in questione è Vita di Carmelo Bene, edito da Bompiani). Andando subito al sodo per quel che riguarda la sua filosofia negativa potremmo definire pressappoco Bene come uno schopenhaueriano che non crede nella possibilità salvifica della Noluntas, che esclude categoricamente o quasi, come vedremo, tale possibilità. Del pensatore di Danzica avrebbe inoltre fornito una particolare, una sua personale e interessantissima interpretazione. Prima di farvi luce esporrò umilmente e sinteticamente (anche per agevolare la comprensione di detta interpretazione) il mio modo di vedere le cose, in certo qual modo radicalmente contrapposto a quello del grandissimo attore-poeta-filosofo salentino. Sono il sostenitore, perlomeno teoricamente, di un nichilismo non tragico. Tutto ciò che vediamo è rappresentazione nel senso che le cose non esistono. La vita è dunque sogno: già siamo in un aldilà di quieta morte poiché nulla esiste, per cui ognuno di noi è felice, che lo riconosca o meno, o meglio, che lo ammetta a se stesso o meno.  Abbiamo deciso gratuitamente, liberamente, di essere venuti al mondo. Ovvero il cosmo esiste contingentemente. L’apparente dolore che caratterizza inesausto ogni vita l’abbiamo voluto liberamente affermare. Se la vita non ci piace nessuno ci obbliga a vivere. Se dunque si continua a vivere, se dunque si decide di non morire, è perché evidentemente ci piace vivere. Vivere non è doloroso poiché un dolore liberamente affermato da un Io dotato, in quanto tale, di intenzionalità, non può essere tale: sarà il suo contrario, ovvero il piacere.

Se non esiste nulla, nessun valore, non esistono certamente neanche le categorie, tutte riconducibili al principio di causa-effetto (sono richieste da esso per potersi avere). Il mondo è sogno al pari dei nostri sogni notturni. Se non è bizzarro come questi ultimi è perché – ritengo – la probabilità che la causalità possa venire smentita sia così remota da non poter effettualmente mai verificarsi. Per cui, ad esempio, dovendo scegliere tra due opzioni, di cui l’una è più sconveniente dell’altra, si opterà sempre per la più favorevole. E così, se abbiamo fame mangiamo piuttosto che astenerci liberamente dal nutrirci. Per Carmelo Bene è invece la necessità a farla da padrona, perlomeno per quel che riguarda ogni essere senziente, vivo. Essa si lega all’auto-ingannarsi: ingannarsi è ad esempio affermare che una cosa è gialla quando è invece evidentemente di un altro colore.
E così la vita non ha assolutamente valore, eppure si è deciso di fuoriuscire sconvenientemente dal prenatale per venire al mondo. E si persiste a vivere poiché, per tutta la vita, continuiamo a illuderci, a dire a noi stessi che è meglio vivere che essere morti. Insomma, il nostro esser venuti al mondo è assolutamente irrazionale, stupido, incoerente o senza senso. È un controsenso.  Ci illudiamo poi che alcune scelte siano più convenienti di altre. E così, tornando all’esempio fatto in precedenza, crediamo che mangiare se si ha fame sia più conveniente che non farlo.

Ora, così come io, credendo, in fondo, nel libero arbitrio, ritengo che tutto al mondo sia allo stesso modo felice, Bene crede al contrario che tutto ciò che è al mondo sia allo stesso modo infelice. Ovvero, sto sostenendo l’ipotesi – mi rendo conto che può sembrare azzardata – che non esistano scelte esistenziali più o meno dolorose e dunque più o meno sconvenienti, ma che il dolore che sperimentiamo in vita sia, per Bene, assoluto e, dunque, sempre identico: la tenue vibrazione che procura una lieve carezza non è in realtà meno dolorosa della ferita inferta a qualcuno da una pugnalata. Veniamo dunque al tema dell’inesistenza della dialettica in Bene, ovvero al falso problema dello scontro tra oppressi e oppressori caratterizzante da sempre la storia, veniamo a ciò che concerne il rapporto servo-padrone. Se un lupo per rabbia azzanna ripetutamente un agnello fino a farlo decedere, nessuno nello scontro ha avuto la meglio, perlomeno finché si è restati in vita. L’antipatia che il mite agnello suscita nel violento e aggressivo lupo è la negazione assoluta del lupo stesso. Il dolore che il lupo procura all’agnello è l’assoluta negazione di quest’ultimo. Non c’è dialettica ma una ferma condizione infernale di morte, di assoluta negatività, che concerne l’uno e l’altro animale: l’essere masochiano e l’essere sadiano sono due facce della stessa medaglia, due identici modi di soffrire. Se, inoltre, l’agnello raggiunge l’altro mondo, quello dell’essere, del senso e della felicità, il bramare incessante del lupo non ha termine: una nuova esigenza subentra subito dopo aver soddisfatto la sua voglia di crudeltà. Per esprimere tale idea con Carmelo Bene possiamo ricorrere al suo Pinocchio, che è un morticino già appena nasce (ciò afferma pressappoco Bene a proposito di Pinocchio): nascere, venire alla luce, è aver ricevuto una sferzata mortale che niente di noi ha lasciato in vita.

Viviamo dunque, al di là di ogni rappresentazione, al di là di ogni differenza, in un fermo e immutabile presente-assente infernale dove nulla potrà mai cambiare, anche – addirittura – se esteriormente qualcosa potesse effettivamente cambiare: se, ad esempio, in futuro si realizzerà il socialismo mondiale che risolverà il problema della fame nel mondo, nulla di fatto sarà mutato. Questo credo sia l’antistoricismo di Bene. Potrebbe non consistere dunque – necessariamente – nella classica visione pessimistica e immutabilistica della storia per cui – ad esempio e in primo luogo – al mondo ci saranno sempre oppressi e oppressori. Vedremo dunque come storia, politica, stato, rappresentazione, esprimano per l’attore italiano – se intesi in senso lato – nozioni identiche. Ma per comprendere ciò vediamo di chiarire più a fondo come sia costituita la realtà. Prendiamo l’apparente molteplice delle cose che riempiono l’esperienza. Priviamole di ogni categoria (ammesso che esistano), liberandoci in primo luogo della categoria dell’unità, per cui non avremo più oggetti. Faremo esperienza di un molteplice di sensazioni esterne e di immagini non-sensibili, ovvero di quelle immagini, non del tutto propriamente, ritenute interiori. Ora, tutto ciò che esiste emette quantomeno una più o meno dolorosa, fastidiosa, vibrazione (si pensi in particolare alla vista). Una sensazione, quanto più si intensifica, tanto più acquisirà concretezza. E, superata una certa soglia di intensità, quel certo tipo di sensazione tramuterà in un altro tipo di sensazione. Ad esempio da visiva diverrà tattile. Possiamo inoltre immaginare che una nostra immagine interiore, intensificata al punto giusto, possa tramutare in qualcosa di sensibile, di esteriore.

Al mondo esistono solo delle quantità intensive. La quantità estensiva è infatti riconducibile a queste ultime. Ovvero la visione di una montagna si imprime più intensamente sulla nostra coscienza rispetto alla visione di un sassolino. La vita senziente di ognuno soggiace ad un’identica necessità, se non propriamente ad una causalità. Si tende cioè a superare ciò che ci procura dolore – e il dolore è oggettivo per tutti – in vista di un suo lenimento. Inoltre, per quel che riguarda l’uomo, disponendo di un sistema nervoso somigliante a quello di ogni altro uomo, sarà, in linea di principio, intelligente come ogni altro. O perlomeno potrebbe divenirlo, se dunque – magari – lo desiderasse davvero. Tutto ciò che di teoretico sto affermando fino ad ora vuole mostrare l’identità di tutto con tutto. Non esistono differenze. E, se esistono (c’è ad esempio chi è più alto e c’è chi è più basso), di esse in fondo non ci curiamo. Tra me e un tavolino non c’è differenza alcuna. Le cose variano certamente per intensità. Si disse, tuttavia, come il dolore sia unico e assoluto, solo apparentemente differente.  Credo che tali mie riflessioni teoretico-filosofiche, Bene le avrebbe più o meno condivise. Infatti una cosa è certa: per Bene la rappresentazione, la finzione, che è ad un tempo insensata, stupida, irrazionale e illusoria volontà, brama, è un puro significante, un puro segno, non rinviante a nulla. Il mondo come volontà e rappresentazione non significa cioè nulla. Non è, è il vuoto, la mancanza assoluta, proprio in quanto desiderio inappagato e inappagabile (perlomeno finché si è vivi). Se il mondo è costituito da significanti, la morte, per noi inconcepibile, è al contrario il luogo del senso (morire infatti sarebbe sensato), è significato, è l’essere in quanto pieno, felicemente e pienamente soddisfatto, assolutamente felice. Potremmo paragonare le cose che esperiamo al vuoto contenuto all’interno di un bicchiere (ammettiamo che non esista l’aria).

Ma la necessità, finché si è vivi, è per Bene qualcosa di incrollabile: bramare e illudersi (condizione, quest’ultima, del bramare e del vivere) non possono mai venir meno. Tutt’al’più, come vedremo, si può parzialmente persistere in un cieco bramare.  La morte allora, oltreché inconcepibile nel modo più assoluto, non può mai costituire un problema di chi vive. Qualcosa allora come il suicidio stoico, compiuto per raggiungere la felicità, sarebbe impossibile: tra la vita e la morte non si può che scegliere, preferire, la vita. Si preferisce la morte solo quando il dolore del vivere raggiunge una soglia tale da farcela preferire al restare in vita. Ma veniamo al teatro di Bene. Le sue performance non sono altro, a mio parere, che mere lezioni, fini a sé stesse, di metafisica, o, ad essere più precisi, di filosofia negativa.  Possiamo allora definire Bene un anarchico-tragico. Non tanto un anarchico-pessimista. Anarchico-pessimista è Céline, anarchico-pessimista è Artaud: perlomeno nel suo Eliogabalo non vuole neanche minimamente essere edificante (in un modo o nell’altro). Esprimendo in esso una visione filosofica altamente coincidente con quella di Michel Foucault, si limita a mostrare come ogni metafisica sia errata (ogni legge – dunque universale – è illusoria) e come, dunque, la volontà di potenza domini il tutto. La sua visione della storia è allora antistoricistica e pessimistica. La differenza con Foucault sta nel fatto che per il filosofo francese esisterebbe una via di fuga perlomeno parzialmente salvifica di tipo politico. Per Artaud, viceversa, non ci sono sbocchi di alcun tipo al suo pessimismo. Ricorro alle Hommelette for Hamlet per estrapolare i temi essenziali del pensiero e del teatro di Bene. Ovviamente il grande salentino non comunica nulla. Come lui stesso afferma, dis-dice, ovvero non esprime nulla. Lo fa ironizzando comicamente, ma amarissimamente, su tutto, su ogni valore. La sua comicità, la sua ironia distruttiva di tutto, è al contempo tragica.

I temi dunque – più che i contenuti – più essenziali che Bene affronta nel suddetto spettacolo sono i seguenti. Innanzitutto quello dell’assenza caratteriale di Amleto. Quando deve essere risolutivamente cattivo fa il buono: non si vendica di suo padre, non uccidendo l’usurpatore regicida Claudio. Quando deve fare il buono fa il cattivo: uccide per sbaglio il povero Polonio, ossia un’innocente, quasi non provando nessun senso di colpa per ciò che ha commesso.  Amleto manca poi di carattere per via del fatto che non realizza mai nessun progetto futuro di cambiamento, vagheggiandoli meramente nella sua testa. Anche in ciò si mostra irresoluto. L’Amleto di Laforgue-Bene ricorda, per assenza di tempra, ad esempio, il protagonista delle Memorie dal sottosuolo, che in parte, fra l’altro, Dostoevskij giustifica. Ma nel letterato russo detto protagonista potrebbe salvarsi tramite l’amore di una prostituta (cosa che, fra l’altro, deciderà di non fare). In Bene invece non ci sono vie di fuga alla tragicità dell’esistenza. Un certo dialogo dell’Amleto di Bene richiama, quanto a contenuto, il dialogo (recitato da Bene) tra Manfred e Astarte, la defunta sorella e amante di Manfred. In tale monologo emerge la tematica della noia, dello spleen: Manfred invoca in fondo di venire amato, vorrebbe in fondo essere insostituibile per poter venire costantemente ricambiato da amore. Ma la noia che proviamo di noi stessi è il nostro non valere nulla per noi stessi e dunque neanche per gli altri. Ma anche noi stessi, del resto, non amiamo nessuno: tutto ci dà noia.

Amleto progetta ad esempio di andare a Parigi per far colpo buffonescamente su chi là incontrerà. Ma il nostro renderci individuali, dei tipi singolari, diversi, non è che un vano e insincero tentativo di crederci davvero diversi dalla massa. Ci illudiamo, in tal modo, di avere più valore rispetto alla massa omologata. Infine, vi è da segnalare il dialogo tra Amleto e Ofelia-Kate. Quest’ultima esprime, con il suo parlare, l’assenza al mondo di valori quali il dovere, il disinteresse, l’amore. L’esercizio della carità, oltreché insincero, è vano. Non può riempire neanche minimamente la nostra vita. Cosa insegna allo spettatore la lezione negativa di Bene a teatro? A smetterla, per quanto ciò ci sia possibile, di rappresentare, di recitare di fronte a noi stessi e agli altri. Non che ciò risolva qualcosa della nostra esistenza: è la semplice conseguenza logica e intelligente di chi ha forse davvero compreso il teatro di Bene. Un tale spettatore potrà sentirsi alleggerito, sollevato. Non per questo, in fondo, avrà risolto alcunché del suo dramma esistenziale. Un’altra possibile reazione alla visione del suo teatro sta nell’avvertire un commosso e dunque quasi piacevole disagio, per cui magari lo spettatore piangerà, essendo rimasto profondamente toccato dalla tragicità poetica, lirica, di quanto ha visto: essa coincide con la tragicità, con la vanità, con l’inconsistenza della sua stessa vita. Bene, nel modo più assoluto, non vuole confortare e consolare nessuno, ma spiattellargli in faccia l’angosciosa verità sulla vita, che si mostrerà senza più alcun velo. E come reagirà, infine, l’uomo potente, chi è socialmente ‘qualcuno’, di fronte al ‘diverso’ Bene? Ne rimarrà turbato, frustrato e svilito, per quella che è la sua condotta esistenziale, per quello che è il suo sistema di credenze, di valori. Non che Bene, in quanto anti-politico, in quanto estraneo ad ogni interesse, abbia voluto provocargli tale turbamento! Lo turba suo malgrado. Non ‘ce l’ha’ con i potenti. Non ‘ce l’ha’ con nessuno. Quindi, riassumendo, il teatro di Bene non è, nel modo più assoluto, edificante. Non trasmette valori poiché non crede in nulla. La vita non ha cioè per Bene – lo ribadiamo – nessun significato. Intendendo la politica (o lo ‘stato’ che dir si voglia) in senso lato, essa viene a coincidere con la rappresentazione stessa: il consumismo, il tempo libero ludicamente trascorso, il progresso, l’identità sociale ecc. ne faranno allora parte. Ma tutto della politica – di ogni politica, di destra o di sinistra – è falso problema.

Ma chi è, dunque, il ‘diverso’ per Bene? Non è chi spicca in qualcosa, ad esempio chi è in possesso di una certa maestria dando prove pagliaccesche di virtuosismo. È pur vero che chi è molto bravo nel fare qualcosa può compiere dei gesti non alienati di una perfezione e di una singolarità tali da eccedere l’ambito artistico all’interno del quale opera, all’interno del quale è confinato. E così, un calciatore può compiere un gesto atletico come non se ne sono visti in un’intera partita (monotona rispetto a detto gesto), dunque molto particolare, nonché estremamente difficoltoso quanto alla sua esecuzione. Un gesto quasi istantaneo di grandissima e abilissima destrezza (per ciò, dunque, anche singolare), che riesce dunque nel suo intento, può essere talmente bello da farci fuoriuscire per un attimo dalla vita. In quell’attimo non vi è più volontà e rappresentazione, ma freddo significato, felicissima pienezza. Il ‘diverso’ è colui che, per quanto può, fuoriesce dal mondo come volontà e rappresentazione, divenendo – dunque in parte – se non altro cieca volontà, ovvero pura musicalità. Si può divenire tali accettando finalmente, con forza e serena noncuranza, la propria assenza di carattere. Essa, cioè, non dovrà più costituire un problema per noi.  Il carattere, dice Bene, è la prerogativa del falso, dello stupido. Ovvero è la prerogativa di chi crede in qualcosa, sia di buono che di cattivo. Il santo, l’eroe, il criminale incallito, mostrano tutti e tre di avere carattere, positivo o negativo che sia. Ma se il mondo della vita è soggetto alla necessità, possono tali tre figure essere realmente, qualitativamente, diverse fra loro? In presenza di oggettive condizioni il codardo diviene eroico (e viceversa). Insomma, siamo tutti uguali: le differenze tra gli uomini sono, per così dire, meramente ‘quantitative’.  Il diverso, più in generale, rifiuta di buon’animo di recitare un qualsiasi tipo di ruolo sociale. Non fa progetti per il futuro. In Al di là del principio di piacere, opera assai apprezzata da Bene, Freud afferma che la felicità, conseguente ad una certa futura realizzazione esistenziale, si tende a differirla.

Ma si fa ciò per credere in un aldilà futuro di felicità che ci alleggerisce nel presente, che ci dà sollievo attualmente? In altre parole, si pensa tra sé e sé qualcosa del tipo: ‘Oggi và male, ma domani, quando farò questo e quest’altro, sarò finalmente felice’?. Non credo. Piuttosto, la lezione dell’anzidetta opera consisterebbe in ciò: è inutile realizzare progetti poiché, in fondo, si sa che essi non ci arrecheranno felicità. Lo ripeto ancora una volta: la vita è irrisolvibile.  Chi ha la forza d’animo e la lucidità di esser nulla esprimerà, infine, più grandezza rispetto a quella relativa ad ogni ruolo sociale (ciò è vero perlomeno in linea di principio, ossia in linea teorica). Ci si scava, a mio parere, la propria angusta nicchietta felice, per poter essere più in alto di qualcuno. Colui che se la passa socialmente meglio del suo vicino può concedersi magari arroganza nei confronti di quest’ultimo. Si mira, a mio parere, a far sempre più denaro, non per ben soddisfare la pancia e ogni tipo di impulso conformistico. Non sono cioè d’accordo con Marx.  Credo invece che più si ha denaro, più si può essere arroganti, arbitrari, cattivi, corruttori, inviolabili, al di sopra della legge. Nella vita si aspira insomma ad incrementare il proprio sadico potere. Ma c’è sempre qualcuno sopra di noi, che se la passa meglio di noi, che limita tale nostro potere, frustrandoci.  Ebbene, chi non recita più, chi non rappresenta più, può trasmettere (mi rendo conto che il discorso è molto teorico) il senso musicale di essere qualcosa di più grande di ogni, più o meno angusto, ruolo sociale. Contrariamente a ciò che ritengono i più, il nulla ha maggior valore dell’essere, che è infatti sempre e solo determinato, delimitato, confinato: si è sempre ‘qualcosa’ o, se si preferisce, ‘qualcuno’.

Umberto Petrongari

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