23 Aprile 2024
Cultura & Società Musica

“Bella figlia della morte” – Livio Cadè

Bella figlia dell’amore…”

E’ strano, è strano…” canta Violetta. Si illude che nella sua vita irrompa una forza misteriosa e inattesa. In realtà dovrà subire l’applicazione di una norma rigorosa. La signorina Valery non sa che su di lei grava una condanna a morte inappellabile. Tutto è deciso fin dal preludio del primo atto, mentre i violini annunciano il suo desiderio impossibile, “amami Alfredo, amami come io t’amo“.  Anche il vecchio Germont, che dapprima vede in lei solo la traviata, l’etera del demi-monde che insidia il decoro di una famiglia borghese, ne comprende in seguito la natura metafisica e chiama Violetta, ormai agonizzante, “cara, sublime vittima“. Commovente necrologio, che ben si addice a queste donne colpite da un destino canonico, vittime di un Eros che non tratta con equità uomini e donne. Mentre il tenore può agire per ragion di Stato, per la patria o per Dio, il soprano non ha scelta, può solo amare, perdutamente, tragicamente. Se la si priva del suo essere-per-l’amore, come accade a lady Macbeth, la attende la pazzia. È stretta nella morsa di amore e morte che una cultura maschile le impone.

Non basta a spiegarlo la semplice formula per cui l’opera lirica è quella cosa in cui il tenore vuol portarsi a letto il soprano ma il baritono non vuole. Questa sorta di triangolo edipico, intuito e codificato in forme melodrammatiche, implica di fatto un’immolazione perpetua del femminino. È un teorema esistenziale, un altare su cui la donna va ritualmente sacrificata. La regola di questa geometria non euclidea non ammette che rare eccezioni. La donna deve essere invasata dall’amore, purificata nel dolore e infine sciolta anzi tempo dalle catene della vita. Questo canovaccio rivela le fantasie narcisistiche del maschio, proiezione di una donna ideale che si consuma nell’amore per lui. Non è difficile scorgere il fondo misogino e un po’ sadico di questa utopia, quelle regioni della coscienza morale legate alla paura della donna e della sua libertà sessuale. Benché l’istituzione del patriarcato, coi suoi paradigmi virili, sia nella nostra società una realtà solida e incontestabile, l’uomo deve comunque proteggersi dalle divinità ctonie e lunari, dai residui di strutture matriarcali che minacciano la sua gerarchia di valori e significati. Il femminile è l’abisso su cui l’uomo cammina in precario equilibrio, la tenebrosa Grande Madre che può inghiottire il suo mondo di solare e apollinea razionalità. Se la donna esce dallo stato larvale, immaturo, di essere-che-muore-per-amore, che l’uomo le impone, diviene una di quelle streghe, fattucchiere o perfide regine che popolano l’opera romantica. Allora contende all’uomo il dominio e ne assume quasi i tratti esteriori, come le streghe del Macbeth, che portano sordide barbe. Occorre sacrificarla mentre ancora è in boccio, prima che prenda coscienza di sé e dei suoi poteri, prima che scopra le imperfezioni dell’uomo che ama. Il soprano verdiano è l’icona di una fedeltà e di una devozione racchiuse per sempre in una crisalide che non le concede di diventar farfalla e di volare via, sublimata in una dimensione incorrotta, dove le promesse di amore profumano come eterni fiori primaverili. Ma ideali e utopie hanno sempre esiti violenti. Perciò tutte quelle donne, vergini, spose, traviate, devono pagare con la vita il prezzo di un amore assoluto, troppo puro perché l’uomo possa sostenerne lo sguardo.

Nel repertorio verdiano, tra queste “care, sublimi vittime”, Gilda è forse quella che più intenerisce. Sedotta, rapita, usata e gettata, conserva tuttavia il suo verginale candore, ed è così ingenuamente innamorata del mascalzone che l’ha disonorata che per salvarlo si fa ammazzare al posto suo. A Donna Leonora, che vuole espiare colpe non sue, non basta fuggire il mondo e infliggersi mortificazioni disumane. Il destino implacabile la raggiungerà anche nell’eremo in cui cerca la pace. E poiché l’onore della famiglia val più dell’amore, sarà il fratello a pugnalarla. Un’altra Leonora, giovanissima sposa del trovatore, prima finge di cedere alle brame del Conte per salvare l’uomo che ama, poi si avvelena per mantenersi casta. Moribonda, come ultimo affronto dovrà sopportare lo sdegno del marito, che la crede infedele (anche il trovatore morirà, ma per aver cercato di salvare la madre, cioè la donna che, come ogni uomo, ama di più). E Aida, soggetta alla duplice schiavitù della società e del cuore, pur di non separarsi Radames si seppellisce viva con lui. Il melodramma ci mostra un martirologio di donne punite perché la loro passione eccede i limiti della rispettabile e ben educata sensualità borghese.

Col tempo anche la vita amorosa di Verdi prese la forma di un triangolo. I due cateti erano Giuseppina Strepponi e Teresa Stolz, entrambe abituate a interpretare ruoli sopranili e pronte quindi a piegarsi per amore alla volontà dell’ipotenusa. Forse, per abitudine professionale, immaginarono i possibili esiti operistici di quel triangolo. Ma lui, il cigno di Busseto, aveva spirito pratico, contadino. Non era troppo umano, come certe sue creature, e nemmeno Übermensch come alcuni eroi wagneriani. Si limitò a calcolare l’area dei quadrati, alla ricerca di un compromesso soddisfacente. Sposò la Strepponi, dopo una lunga convivenza che i farisei giudicarono immorale, e conservò con la Stolz una relazione affettuosa. Quella conciliazione sentimentale sembrò preferibile alla consueta prassi melodrammatica. La Strepponi forse ne soffrì, ma un soprano sa bene qual è il ruolo di una donna.

Tuttavia, questo accomodamento non ammorbidì la vena creativa, cupa e pessimista, di Verdi. Nella sua penultima opera sembra anzi inclinare a una visione ancora più amara. Otello, Desdemona, Jago, si intrecciano in un triangolo che crolla sotto il suo stesso peso. La morte li trascina in un unico gorgo. Forse Verdi ha capito che “ogni uomo uccide ciò che ama” e che con quel gesto uccide sé stesso. Comprende che qualcosa in noi si oppone strenuamente alla felicità. Tenore, soprano e baritono, sono pedine senza speranza in un gioco più grande di loro, parti di un enigma geometrico che solo la morte può risolvere.  Ma Verdi, a differenza di Wagner, non vede in questa dissoluzione un beatifico nirvana, solo un vuoto desolante.

Dovrà giungere alla soglia degli ottant’anni, libero da vecchie pastoie e pacificati i suoi demoni, per scoprire una nuova trigonometria. Falstaff non è più il padre moralista, il marito geloso o il pericoloso rivale, ma un baritono buffo, attempato miles gloriosus rigonfio di vino e di lardo, che le residue velleità amorose rendono patetico. Si illude di possedere ancora tanto fascino virile da poter cornificare messer Ford, altro maturo baritono. Ma è la signora Ford che guida le danze e che si fa beffe di quel corteggiatore vanesio, “re delle pance“. Così, esorcizzato il teorema mortale, lo si converte in burla. Felton e Nanetta, tenore e soprano, potranno coltivare i loro acerbi amoreggiamenti senza che un baritono distrugga la loro incipiente felicità. Tra fate, elfi e folletti, si baceranno senza evocare terribili nemesi. Su di loro splende l’astro lunare, mutevole come l’amore stesso. “Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnova come fa la luna”. Ci penserà il tempo, se vorrà, a destarli da quel sogno di mezz’estate.

(Opere citate: “La traviata”,  “Macbeth”, “Rigoletto”, “La forza del destino”,  “Il trovatore”,  “Aida”,  “Otello”,  “Falstaff”).

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