13 Aprile 2024
Pensieri

Agnelli e lupi

Il motorino, ‘sto stronzo, s’inceppa proprio ora. Tre quattro colpi con lo scarponcino. Niente. E l’urlo delle zecche rimbomba per via Torino; si fa terribilmente prossimo. Non si voltano neppure tanto lo sanno che, al solito, sono tanti incazzati feroci contenti che la preda è a portata di mano. Miracolo. E vai. Schizzano via accucciati l’uno dietro l’altro sul sedile, mentre tutt’intorno piovono bottiglie pietre bastoni di tutto. Sudati percorsi da qualche brivido la gola secca ma, sì, felici… Daniele e Guido, sicuri di non essere raggiunti, si danno ad una liberatoria risata, nervosa, e la proseguono mentre, sbracati al tavolino del bar, si dissetano con l’aranciata e il chinotto. Non sono nuovi alla bravata e sempre sono riusciti a sfangarla. Nati sotto una buona stella, si garantiscono, incoscienti strafottenti irriverenti… O forse sono soltanto l’esito delle ondate ormonali, a vent’anni si scopa o ci si prende a cazzotti, un po’ di esibizionismo e gusto per la sfida. Unici due ‘neri’ dell’Istituto Botticelli, viale della Primavera, quartiere Centocelle. Di fronte il liceo Francesco d’Assisi, regno di autonomi e primi nuclei di BR…

Di Guido so poco o nulla. Tranne qualche finestra, scarna, aperta da Daniele. ‘Che ti avevo detto? Tutti bravi a dar di fiato… Annamo spaccamo li prennemo per il culo… Poi semo i soliti quattro imbranati e tanto che non ci hanno raggiunto sennò ce facevano polpette pe’ li cani…’. ‘Noi soli pochi, noi soli e che vuoi di più?’, gli fa il verso Daniele, ‘Che guerrieri saremmo se fossimo ‘na massa, tutti fighi armati di coraggio e di valor…?’ ‘Tu, sì, che sei bravo… c’avevi le gambe che te facevano giacomo giacomo e non ti riusciva di mettere in moto con quel cazzo di pedale. Fattene uno novo che tu padre c’ha li sordi…’ E’ sempre così dopo una manifestazione una rissa ad attaccare manifesti a coglionare i compagni. Qualche volta si torna malconci, qualcuno le ha prese di brutto, però magari a denti stretti sempre il ghigno non manca e la voglia di ricominciare.

Titolo di un libro di Giovanni Arpino, letto a Regina Coeli, anno 1972, Randagio è l’eroe. Una riflessione a pagina 45: ‘E così mi metto fuori del mondo e fuori di ogni chiesa, e il credere mio è soltanto mio, e mi schiaccia’ (poco certo di un libro il cui contenuto è prossimo più ad un clochard dagli accenti del profeta inascoltato che al consapevole ‘uomo in rivolta’ modellato da Albert Camus e, soprattutto, dallo Juenger del Trattato. In carcere, però, si diventa di ‘bocca buona’ davanti a qualsiasi pezzo di carta che ti consente di… evadere). Il mio amico Max Stirner che non vollero che venisse a condividere la cella al secondo braccio perché duro il linguaggio e un carcere non può permettersi il traduttore.

Da qualche parte ho annotato un distinguo di John Dodds (?). Lo cito con dubbia memoria e molta libertà. Mentre il rivoluzionario abbisogna degli altri per alzare bandiere e barricate condividere idee sogni utopie lastricare l’asfalto di sangue e lacrime risa e urla di battaglia, il ribelle conosce la solitudine tra l’autostima della propria alterità sdegnosa e fiera (‘perché ce l’ho di dentro le mie distinzioni’ come si compiace l’altro amico Cyrano con il visconte di Valvert prima di verseggiare e duellare e, ‘al fin della licenza’, dar di tocco) e il Nietzsche del viandante, in Umano, troppo umano, che trascorre la notte fuori le mura della città tra l’avvertire la mancanza di conforto degli altri esseri e la consapevolezza di quanta, troppa ‘brutta gente’ s’aggira per le vie (forse memore dell’amato/odiato Schopenhauer che vedeva la comunità umana simile all’istrice in inverno: più si accosta alle altre per darsi reciproco calore, più si punge).

La rivoluzione – potremmo dire pedanti e pesanti di concetti sparsi ad alunni annoiati – si nutre del futuro, magari costantemente rimandando e tradendo le aspettative che l’avevano ispirata. La rivolta, hic et nunc, vive il suo esistere del presente. La prima prigioniera del domani che, se divenisse oggi, tradirebbe se stessa (mi torna a mente il bel film di Andrzej Wajda su Danton); la seconda circoscritta e incatenata ad un tempo troppo breve come breve è il tempo di colui che se ne fa carico…

‘Sai, Daniele, sono venuto a salutarti… Non credo ci si veda più. Non mi telefonare non mi cercare, evita di pronunciare il mio nome e agli altri dì loro che sono sparito e non sai come rintracciarmi…’. Guido è piantato a gambe larghe, le mani nelle tasche dei jeans, il giubbotto di pelle modello pilota USA, gli occhiali da sole, i camperos tirati a lucido ai piedi. Seduto al solito bar, stesso tavolino e sedia di metallo, con l’immancabile chinotto (bere italiano, no alla coca-cola America e dintorni), occhiali neri giubbotto da pilota Usa jeans e camperos, l’immancabile sigaretta, Daniele se lo guarda: ‘Oggi Guido è da lagna. Te sei arzato co’ la luna de traverso? Vuoi la bacinella per raccattare le lacrime? Non rompere… Siediti che sei fortunato. Sono in grana e ti offro il caffè…’. ‘No, non me va de scherzare. Tietti le tue battute e niente commenti. Semo amici, stessa scuola, s’è fatta militanza insieme ma ora è finita. E dico davvero… Ce semo bastonati con le zecche con gli sbirri, avemo il pezzo per le grandi occasioni, l’idea – che poi non ho mai ben capito che cazzo sia – e la croce celtica… va bene, gniente rimorsi ma te lo ripeto, è finita. Sono fuori dal gioco…’ Daniele si toglie gli occhiali. Gesto raro. Non se li toglie neppure quando scopa con la sua ragazza… ‘Fatte capi’… Non sei mica uno che se rifardisce… E, allora?’. ‘Allora vuol dire che me faccio da me il dritto e lo storto. E, siccome non mi va che qualcuno possa pagarla, alzo i tacchi e buona notte ai suonatori. Me prendo l’abbajaffa mi cerco chi ce sta e vai… fatto il colpo si va ognuno per la propria strada e a ciascuno il suo. E quello che mi tocca me lo magno e, se mi tocca, mi tocca solo a me…’.

Mi racconta Daniele che non mancò molto tempo, forse meno di un anno, e Guido fu trovato in una strada di quelle, poco più di un viottolo, che si aprono sulla campagna alla periferia di Roma. Un regolamento di conti un agguato uno sgarro una divisione nel malloppo finita male, chissà? Un proiettile alla nuca il corpo riverso a terra vicino la sua BMW grigio metallizzata, gli occhiali da sole il giubbotto di pelle i jeans. Brutta storia, brutta gente. C’è un modo di morire che non sia di per sé brutto (brutto è morire al di là dei santi dei martiri degli eroi dei troppi dei tanti che se ne sono andati ‘faccia al sole e in culo al mondo)? E mi ricordava il Trattato del ribelle di Ernst Juenger, il suo inizio…

Lo prendo dallo scaffale dove sono le opere sue e quelle di von Salomon e di Oswald Spengler. L’apro alla prima pagina, leggo: ‘Passare al bosco: dietro questa espressione non si nasconde un idillio. Il lettore si prepari piuttosto a un’escursione perigliosa, non solo fuori dei sentieri tracciati, ma oltre gli stessi confini della meditazione’. Non datemi dello sciocco, del pessimo lettore o fazioso o duro di comprendonio… So bene che Guido o chi per lui (tutta la storia, cominciando dal nome, è un vezzo una bozza di un racconto eventuale poca e maldestra fantasia o eco di vicende rielaborate di tempi ormai lontani e dove tutto ciò apparteneva al possibile se non al probabile) non è il Waldgaenger o Ribelle e che lo Juenger ha pensato ad altro e ad alto va la sua riflessione. Eppure non tutti i sentieri portano alla radura, molti si disperdono, ma – io credo – meritano tutti rispetto perché nel camminare è il senso più dell’esito conseguito o meno. E da qualche parte si deve cominciare anche se certi incipit marcano in sé già l’errare, la sconfitta.

Qualche pagina dopo ecco apparire l’immagine nota dei cani da guardia, del gregge e dei lupi: ‘…tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos’è la libertà. E non soltanto quei lupi sono forti in se stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in branco’ (pag.33). Le cognizioni storiche, la frequentazione di una sinistra ancora illusa del ‘sol dell’avvenire’ mi ricordano che Stalin faceva rapine sui treni che Mussolini in Svizzera era alla fame che Hitler dormiva negli ospizi i più miserabili di Vienna… Mi ricordano Lenin che si spinge e spinge i bolscevichi a fare la rivoluzione, infima minoranza nelle sterminata Russia incerta inquieta sconvolta dopo la caduta degli zar; come alle elezioni del 1919 i fascisti furono sbeffeggiati dai socialisti che attraversarono le vie di Milano inscenando un finto funerale al futuro Duce; come Hitler si iscrivesse ad un partito fondato in birreria e che, per numero, occupava un tavolo e pochi boccali su di esso…

Ancora, cercando qua e là, trascrivo:‘ …il bosco è dappertutto: in zone disabitate e nelle città, dove il Ribelle vive nascosto oppure si maschera dietro il paravento di una professione. Il bosco è nel deserto, il bosco è nella macchia. Il bosco è in patria e in ogni luogo dove il Ribelle possa praticare la resistenza. Ma il bosco è soprattutto nelle retrovie del nemico stesso’ (pag.106). Sono in metropolitana, è sabato mattina ed io sono in partenza per Grosseto, c’è la manifestazione della CGIL. I vagoni sono pieni di emigranti di colore, tutti senza il permesso di soggiorno ma hanno in dotazione cellulare ultima generazione, disperati sbarcati sulle nostre coste meridionali. Il gregge e, per pastori, giovani donne dei centri d’accoglienza. Due Italie, mi viene da pensare, si contrappongono: quella che si è arresa, senza alcuna vocazione di combattere, alla cultura del multietnico e si predispone all’altrui dominio, al proprio suicidio (e, qui come altrove, non c’è moralismo alcuno nelle mie parole); ce n’è un’altra che intende o vorrebbe opporsi in nome di una (pretesa) identità e che è destinata ad essere sconfitta, forse anche in malo modo, agitando in cerca di consenso questioni di pancia e non di mente. Io non appartengo ad alcuna delle due, ma ricordo che, proprio nel precedente mio intervento su Ereticamente, riportavo il testamento spirituale di Giuseppe Solaro, i Ribelli siamo noi… C’è, dunque, una terza Italia?

Mario Michele Merlino

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