13 Aprile 2024
Storie italiane

Una storia del sud: l’omicidio di Vagno – seconda parte –

 

 

LA SERA DI QUEL 25 SETTEMBRE…

Abbiamo fin qui visto come, nei confronti del neo-eletto Onorevole Di Vagno, verso la metà del ‘21 sia montato, nella natia Conversano (dove, ricordiamolo, alle elezioni di maggio prende solo 22 preferenze, e non credo possa bastare a spiegarlo la sola “pressione” fascista), un forte risentimento che, in qualche caso arriva a sfiorare l’odio. Molteplici le ragioni:

–      la responsabilità che – non completamente a torto – molti gli attribuiscono per gli episodi di violenza del 21 febbraio e del 30 maggio, se non altro per essere stato l’ispiratore del nucleo di facinorosi che fa da padrone in paese da dopo il suo ritorno “in esilio” alla fine del ’19;

–      la rivalità degli altri borghesi e proprietari terrieri -come lui- che vedono in pericolo non tanto vecchi rapporti di sudditanza dei loro sottoposti (questa è una cosa che succede in tutta Italia, Di Vagno c’entra poco) quanto un sistema di protegè che tradizionalmente a loro è assegnato nella realtà paesana, nei rapporti col capoluogo e con le Autorità civili, nella gestione di un insieme di rapporti fatto di piccole raccomandazioni e favori;

–      la diffidenza che la sua figura di “cervello borghese in anima socialista” provoca in molti proletari (e vedremo la loro presenza nel nucleo che opererà a Mola il 25 settembre);

–      l’antipatia che ispira agli ex combattenti per certe sue prese si posizioni neutraliste prima, ambigue guerra durante (c’è chi lo definirà “più austriaco che italiano”), ingrate dopo verso chi è tornato a casa.

E’ anche per questo che la sua solo annunciata presenza a Noci, Casamassima, Putignano, provoca la contromobilitazione fascista, spesso più improvvisata che militarmente organizzata, come nella migliore tradizione di quell’anarchico coacervo di volontà ed impeti che è lo squadrismo fascista.

Proprio così vanno le cose il 25 settembre: al mattino, un giovane di Conversano, letta sui muri di Mola la notizia del comizio di Di Vagno fissato per la serata, si precipita a Cozze (una località balneare lì vicino), dove ci sono ancora parecchie famiglie di suoi compaesani che approfittano dell’ultimo sole, e “dà l’allarme”.

Partono, in tutta fretta, un paio di giovani fascisti alla volta di Conversano, riuniscono una quindicina di camerati, noleggiano due vetture, e si dirigono su Mola, al solito modo, che vuole essere una sia pur pallida imitazione delle liturgie arditesche: canti, colpi di pistola in aria, qualche petardo che ballonzola di mano in mano.

Comportamento rumoroso e strafottente, privo di ogni “precauzione”, che non sfugge a passanti che quasi sempre già conoscono i giovani e che non può non contrastare con ogni chiaro intento omicidiale.

A Mola, terminato il comizio, mentre Di Vagno accompagnato dai suoi si allontana, i giovani si fanno sotto: esplodono colpi di pistola, viene tirata anche una bomba. Al termine, sul selciato resta il corpo del parlamentare colpito da due proiettili.

I fascisti tornano a Conversano con le stesse due vetture prese a nolo, ma nel giro di poco tempo sono indentificati ed arrestati. Vediamo – distinguendoli a seconda dell’esito processuale delle loro storie in tre gruppi – l’elenco, perché esso suggerisce riflessioni di carattere generale e conferma quello che dicevo prima sulla trasversalità dell’odio paesano verso Di Vagno:

–      rinviati a giudizio: 10 fascisti, di cui 8 di età compresa tra i 15 e i 21 anni, 1 di 24 e un altro 32 anni; 4 sono studenti, 2 contadini e 4 operai;

–      prosciolti per insufficienza di prove: 9 fascisti, di cui 7 di età compresa tra i 18 e i 20 anni, 1 di 23 e di di 37 anni; 4 sono studenti, due agricoltori, e poi c’è un sarto, un caffettiere ed un insegnante elementare;

–      prosciolti per non aver commesso il fatto: 7 fascisti, di cui 4 di età compresa tra i 17 e i 23 anni, e 3 di età tra 29 e 35 anni; 4 sono studenti, 1 agricoltore e poi c’è un dentista e un ex Tenente degli Arditi

Va detto che, a voler essere pignoli, nei due testi di riferimento per questo lavoro ci sono alcune discrepanze su cognomi e numeri. Ciò, se è dovuto al fatto che, per esempio, su 26 coinvolti a vario titolo nelle indagini, ci sono ben 7 “Lorusso” (dei quali almeno alcuni certamente parenti fra loro) e 2 fratelli “De Bellis” (e viene citato anche il loro padre), sembra però anche confermare la natura di faida paesana e “familiare” (non scordiamo che Sindaco è il cognato di Di Vagno) del contrasto conversanese.

E’ possibile, comunque, a questo punto, fare qualche osservazione, in ordine a :

–      giovane età dei partecipanti all’azione: la quasi totalità dei partecipanti è intorno ai vent’anni (uno, addirittura quindici), e lo stesso “sparatore” sarà identificato in un diciasettenne.

Questo fa più che credibilmente escludere ogni coinvolgimento diretto della dirigenza della sezione fascista di Conversano intorno alla quale pure i ventisei identificati ruotano;

–      appartenenza dei predetti ventisei a svariate categorie sociali: si va dal caffettiere al maestro elementare, con una netta prevalenza di studenti.

Questo conferma il dato dell’impopolarità (ed è un eufemismo) che circonda la figura di Di Vagno nel suo stesso paese, aldilà di ogni presunta ostilità dei soli “padroni” verso il “difensore dei lavoratori”;

–      improvvisazione e faciloneria (“quasi goliardica” ha detto qualcuno) nello svolgimento dell’azione: i giovani prendono a regolare nolo due vetture, se ne vano a Mola sparacchiando ai cani randagi, si rendono riconoscibili a tutti.

Questo porterà i Tribunali (anche quello postfascista del ’47) ad escludere ogni premeditazione

È proprio la mancanza di premeditazione può aiutare a ricostruire lo svolgimento di quei tragici momenti, stante la attuale indisponibilità – nei pluricitati testi – delle versioni fornite a suo tempo da testimoni e dagli stessi imputati.

Viene normalmente richiamato il fatto che Di Vagno venga colpito alle spalle (ai glutei, per l’esattezza) come un ulteriore prova della “viltà e vigliaccheria” dei fascisti. Forse non è così: è più verosimile ipotizzare che quando il Parlamentare e i suoi pochi accompagnatori si vedono inseguiti da una decina di giovani urlanti e brandenti revolver, si diano alla fuga, mentre quelli, ringalluzziti, cominciano a sparare alla rinfusa.

Infatti, sul luogo verranno trovati molti bossoli di proiettile (oltre alle tracce di una bomba esplosa), ma Di Vagno sarà attinto da soli due colpi e nessun altro ferito ci sarà tra i suoi accompagnatori, mentre due passanti verranno raggiunti di striscio.

La lettura dei referti autoptici e delle sentenze aiuta a chiarire questo punto:

– il tipo di ferita non avrebbe “normalmente” provocato la morte: il parlamentare socialista, infatti, è raggiunto da due proiettili nella regione lombosacrale, e solo la sopravvenuta emorragia interna ne causa il decesso;

– il revolver impiegato è una “arma vetusta”, di piccolo calibro (sei e mezzo – sette) e di vecchio tipo, caricato con proiettili umidi e di incerto funzionamento;

– i colpi non sono esplosi a bruciapelo (come qualcuno dirà, per accreditare la tesi di un’esecuzione), ma da un paio di metri di distanza, con direzione dall’alto verso il basso (quindi, non per uccidere) con “modalità di sparo rusticana…e improvvisazione tecnica”

 

L’ITER PROCESSUALE E DUE PAROLE DI CONCLUSIONE

Resta da dire dell’iter processuale che pone termine all’intera vicenda: complesso, in due frasi successive, con qualche colpo di scena.

Incarcerati quasi tutti i fascisti presenti quella sera a Mola, e anche qualcuno di più sospettato di aver fornito sostegno logistico, la richiesta di rinvio a giudizio viene formulata, in data 6 marzo 1922, a carico di 19 fascisti, dei quali uno, luigi Lorusso, studente di anni 17, individuato come lo sparatore.

A seguito dei vari passaggi processuali, che vedono prosciolti per insufficienza di prove 9 degli iniziali imputati, il rinvio a giudizio è deciso, ad un anno esatto dai fatti (la data del 25 settembre, come vedremo, assume una valenza simbolica ora e anche nel processo del dopoguerra), per 10 fascisti.

Sopravviene, però, in data 29 dicembre 1922 la prima delle tre amnistie decise dal Governo Mussolini per la riappacificazione nazionale, e, di conseguenza, l’azione penale viene dichiarata estinta.

Tutto ricomincerà il 25 settembre (ancora!) del 1944, quando il Tribunale di Bari, pressato dai Partiti di sinistra, ordina, in virtù del DLL del 27 luglio che ha dichiarato inapplicabile le amnistie concesse dopo il 28 ottobre 1922 per i delitti commessi con finalità fasciste, l’arresto dei 10 fascisti già rinviati a giudizio nel 1922.

Il nuovo processo assume subito una forte valenza politica da “regolamento di conti”: infatti, alcune testimonianze inedite (c’è anche qualche fascista “pentito”) cercano di coinvolgere – almeno come responsabili morali – Caradonna e un paio di dirigenti del Partito dell’Ordine conversanese dell’epoca.

Il 12 gennaio del ’47 il processo viene trasferito “per legittima suspicione” da Bari a Potenza dove Luigi Lorusso e altri 6 coimputati vengono, infine condannati a pene dai 10 a 18 anni di reclusione.

Fatto ricorso in Cassazione, la Suprema Corte con sentenza 22 marzo 1948 dichiarerà non doversi procedere per estinzione del reato a seguito dell’amnistia Togliatti

La verità giudiziale (che non è detto sia sempre “la verità”, ricordiamolo) stabilisce –in un’ottica che potremmo definire “salomonica” – due cose importanti, a proposito dell’omicidio che è:

– “politico”, cioè attribuibile al fascismo in quanto tale e non conseguenza di esasperate rivalità locali (e questo è un po’ strano, nel momento che viene escluso il coinvolgimento di Caradonna e di qualunque altro leader nazionale del fascismo);

– preterintenzionale, nel senso che la morte non era voluta e sopravviene aldilà delle intenzioni dei fascisti aggressori (e questo è più logico, alla luce dei referti di cui abbiamo parlato).

CONCLUSIONE

Credo si possa dire, per finire, che l’assassinio dell’on Di Vagno presenta tutti i caratteri tipici di una storia di rivalità tipica di molti piccoli paesi agricoli dell’Italia di allora.

L’elemento di differenza è che qui la contrapposizione non è tra umile gente, come avviene, per esempio in Toscana, dove la reazione fascista assume i caratteri della vendetta per i torti subiti nel biennio rosso, e ne assume talora, le stesse forme o altre molto simili.

La differenza – non secondaria – è che a Conversano, si fronteggiano ricchi proprietari terrieri che provano a difendere o a conquistare posizioni di prestigio indiscusso nel borgo natio, senza poter escludere che entusiaste “guardie rosse” o primi squadristi forniscano involontariamente la manovalanza.

Nel resto d’Italia sono, invece, in gran parte i “rurali” a passare all’offensiva contro i prepotenti del biennio ’19-’20. I contadini ringalluzziti dall’azione squadrista ironicamente cantano, all’indirizzo dei vecchi capi delle Leghe: “E quando comandavi / a letto ci mandavi / ed or che si comanda / a te letto ti si manda”, e la forzata bevuta di bicchieri di olio di ricino non può non ricordare l’ ingurgitamento –altrettanto forzato – di qualche bicchiere di rosso al quale i non iscritti alla Lega o “riottosi” erano costretti la sera, nella stessa sede sindacale, tra le risate generali e la lettura ad alta voce dell’Avanti.

Di Vagno è, all’epoca, pressocchè sconosciuto nel panorama nazionale (si è affacciato sulla scena da 4 mesi, con la prima elezione alla Camera dei Deputati) e non costituisce certo un pericolo per il fascismo, come peraltro riconosciuto nel processo del 45, allorchè la Corte giudicò “depistaggio” il tentativo di alcuni responsabili di tirare in ballo Caradonna per alleggerire la propria posizione.

Ciò non toglie, però, che, a mio avviso, si faccia un torto alla stessa vittima con l’insistere su quella storia del “gigante buono”. Di Vagno è (dopo un inizio riformista) esponente della corrente massimalista, ostile alla guerra ed ai combattenti, guarda con passione all’esperienza sovietica, non risulta abbia mai condannato le violenze dei suoi seguaci a Conversano, è contrario al patto di pacificazione, si tutela dalle minacce fasciste non con l’evangelica parola, ma con un revolver.

È lo stesso destino che un’ansia mistificante e “buonista” ha riservato a Gramsci e a Matteotti.

Del primo ricorderò il brano apparso su L’Ordine Nuovo del 31 gennaio 1921:

“Guai alla classe operaia se essa permetterà, anche per un istante solo che a Torino i fascisti possano mettere in esecuzione il loro piano, come hanno fatto nelle altre città. La minima debolezza, la minima indecisione potrebbe essere fatale. Al primo tentativo fascista deve seguire, rapida, secca, spietata, la risposta degli operai, e deve, questa risposta essere tale che il ricordo ne sia tramandato fino ai pronipoti dei signori capitalisti. Alla guerra come alla guerra, e in guerra i colpi non si danno a patti…

Pericolo di morte per chi tocca la Camera del Lavoro, pericolo di morte per chi favorisce o promuove l’opera di distruzione! Cento per uno!… Pericolo di morte per chi tocca la proprietà dell’operaio… La guerra è la guerra. Guai a chi la scatena. Un militante della classe operaia che debba passare all’altro mondo, deve avere, nel suo viaggio, un accompagnamento di prima classe”.

Del secondo basterà citare l’articolo apparso qualche mese prima su “La lotta” del 27 novembre ‘20:

“Il fascista è il figlio di papà, il professore di storia patria, l’impiegato a cento franchi al mese, il viveur stimolato da qualche cocotte, l’ex arnese di questura, l’artista teatrale che si vanta di aver avuto il padre, il nonno garibaldino, il nobile che grida “viva la guerra” per sposare la figlia del pescecane.

Il fenomeno fascista è il fenomeno della delinquenza politica, della vigliaccheria civile, delle nullità intellettuali, dell’arditismo militare… Ebbene, dinnanzi a questi pazzi, se pazzi sono, il Partito Socialista alzi ancora la testa. O siano messi nell’impossibilità di nuocere, o noi faremo giustizia sommaria. A Rovigo come altrove, occhio ai mali passi!”

“Chi volle seminare vento, raccolse tempesta” dirà la difesa degli imputati al processo Di Vagno, e forse non aveva torto.

Ora, a quasi un secolo di distanza, si potrebbe pure cominciare a dire la verità…

4 Comments

  • domenico capotorto 21 Aprile 2015

    c’e’ un’altro molese nella storia dei martiri dimenticati: Campanella Vito nato a Mola (Bari) il 5.5.1895 costretto ad abbandonare Muggia, perche’ colpito da mandato di cattura per reati politici, vi rientro’ il 13 novembre 1922, ma fu colpito a morte da alcuni sovversivi che gli tesero un’imboscata, a Muggia (Trieste).

  • domenico capotorto 21 Aprile 2015

    c’e’ un’altro molese nella storia dei martiri dimenticati: Campanella Vito nato a Mola (Bari) il 5.5.1895 costretto ad abbandonare Muggia, perche’ colpito da mandato di cattura per reati politici, vi rientro’ il 13 novembre 1922, ma fu colpito a morte da alcuni sovversivi che gli tesero un’imboscata, a Muggia (Trieste).

  • domenico capotorto 21 Aprile 2015

    Fonte: Per non dimenticare.

  • domenico capotorto 21 Aprile 2015

    Fonte: Per non dimenticare.

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