13 Aprile 2024
Cavaliere Rivoluzione

SVELARE LA GUERRA (prima parte)

di Giacinto Reale

  

La recente ristampa (in forma modesta, senza l’apparato iconografico che arricchiva l’edizione originale) che il Mulino ha fatto   del libro di Franco Cardini Quell’antica festa crudele, guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese,  mi ha fatto venir voglia di riprendere in mano la “traccia” di una conferenza di parecchi anni fa. L’ho aggiornata un po’, completata in quelle parti che erano affidate all’esposizione orale, e la pubblico qui, convinto che a qualcuno dei miei venticinque manzoniani lettori possa interessare.


La cronaca, di questi giorni, del mancato accordo per arrivare ad una  regolamentazione della “questione nucleare” iraniana ripropone un dato storico di comune conoscenza e di grande attualità: la grande protagonista degli anni di apertura del secondo millennio, ereditata dalla fine del precedente,  fu la paura.
Paura dell’ignoto (fine del mondo in occasione del cambio del millennio) e del noto (strascichi delle incursioni barbariche del IX e X secolo).
Una singolare coincidenza vuole che questo primo e –appena iniziato secondo decennio del secondo millennio debba ancora fare i conti con la paura, prolungando nel tempo la previsione di Albert Camus: “Il ventesimo secolo sarà il secolo della paura”.
Superato quasi completamente dalla fiducia nella scienza e nella conoscenza il timore dell’ignoto, relegato all’angolino il catastrofismo di oscuri simboli e predizioni, è rimasta la paura del noto, che nel nostro caso significa guerra, anzi, “guerra atomica”.
Parlare di guerra è sempre un po’ imbarazzante: ci si attende che chi ne parla innanzitutto cominci col dire che la condanna, e poi, prima di affrontare l’argomento prenda, per così dire, le distanze, e tracci intorno ad esso il rituale cerchio magico.
Tanto più oggi che, apparentemente invincibili e senza timori, circondati come siamo da missili a testate singole e plurime, da ordigni più o meno infernali, assomigliamo,. invece, sempre più ai cavalieri teutonici terribili e bellissimi protagonisti dell’Aleksander Nievsky di Eisenstein.
Anch’essi, coperti in ogni parte del corpo dalle loro impenetrabili corazze, lasciavano aperto un piccolo spiraglio per gli occhi, dal quale, però, si  intravedeva il vero sentimento che li animava: il timore dell’altro.
È, anche questo, uno degli elementi di quella “cultura della guerra” che precede nel tempo ed è più connaturata all’animo umano della “cultura della pace”, checché oggi si dica, con reticenze ed ambiguità che sfociano talora nelle falsificazioni vere e proprie entrate a far parte del comune patrimonio di “conoscenze”, con una tale velocità di propagazione da far venire in mente quel proverbio giapponese: “Accade spesso che un cane che abbaia senza motivo venga seguito da mille altri cani che credono di abbaiare con ragione”.
La prima inesattezza da denunciare, perché veramente propedeutica ad ogni successivo discorso, è che chi propugna tesi egalitarie, democratiche e progressiste sia il portavoce  e l’interprete più naturale ed autorizzato dell’aspirazione comune alla pace mentre, viceversa, chi fa proprie tesi anti-egalitarie, aristocratiche e  tradizionali sia un pericoloso guerrafondaio, indegno del genere umano.
Niente di più infondato
Tra il 1000 e il 1700, periodo segnato dall’esistenza di società anti-egalitarie, in Europa, la guerra, con i suoi maggiori o minori contenuti di violenza, fu sempre rigidamente combattuta entro limiti ben individuati nel tempo, nei luoghi e nelle persone, ben lontano dagli eccessi della democratica “guerra totale”, per vari motivi.
Basti pensare che la funzione guerriera era vista come un privilegio e limitata, pertanto, ad una piccola parte della popolazione, e che l’eventualità della guerra stessa era considerata parte del reale e, quindi, relativizzata, proprio perché come la realtà, nella sua mutevolezza, non conosce l’assoluto.
Tra i combattenti si combatte, cioè, una ‘guerra senza odio’; lottare contro significa lottare con; il combattimento, il “grande gioco” crea un legame forte tra chi vi partecipa; la condotta della guerra assurge ad opera d’arte.
È con la Rivoluzione francese, da cui deriva tutto il mondo moderno, che la guerra diventa un’impresa cui sono obbligati a partecipare, da una parte e dall’altra, tutti i cittadini in grado di portare le armi; sono i prodromi di quella  “guerra totale”, che giustifica,   in tempi più recenti, i bombardamenti delle città e della popolazione civile.
Il suo substrato teorico è da ricercarsi nelle teorie anti-organicistiche ed egalitarie, a partire dal Cristianesimo fino ad arrivare al marxismo.
Proprio nel periodo sopraddetto si hanno le prime avvisaglie, con le guerre di religione e le Crociate, quando, per la prima volta, più che al nemico “reale” si guarda al nemico “assoluto”, sulla base della teologia cristiana della guerra, da S. Ambrogio e S. Agostino fino a S. Tommaso.
In estrema sintesi, il discorso è questo: l’uomo è buono, l’altro uomo è nostro fratello ed eguale a noi, la pace è la normalità tra no… ma, se “sbaglia” (in pratica devia rispetto a noi), il fratello di ieri va fuori dalla comunità umana, diventa “anormale”, la personificazione del male e come tale non merita pietà.
Tutto nasce, come si vede, dall’attribuzione all’uomo di una falsa natura, arbitrariamente definita buona ed  eguale, tale da rendere inspiegabile il conflitto, che è colpa sempre di quanti ignorando il loro vero essere sono diventati non-uomini.
Il nemico, allora, non è più un avversario momentaneo con il quale ci si misura, pur continuando a stimarlo ma, al contrario, è il male che va annientato: alle tregue, alle paci “onorate” così frequenti nell’Europa preindustriale, si sostituisce il principio della “resa incondizionata” (inconditional surrender degli Alleati nel secondo conflitto mondiale), che annulla la distinzione tra combattenti e non, trasferisce nel reale il bellum omnium contra omnes.
Sulla stessa linea si muovono le teorie liberali e marxiste.
Per il liberalismo la guerra è antinaturale perché anti-mercantile: in guerra l’optimum economico costituito dall’equilibrio della domanda e dell’offerta è squilibrato dall’esplodere dell’istinto; di conseguenza, i valori guerrieri ed aristocratici di sacrificio e gratuità nell’offerta della propria vita sono incompatibili con il mercantilismo e l’utilitarismo.
Sull’altro fronte, per il marxismo non vi possono essere conflitti nella società senza classi, perché la lotta di classe, fonte di tutti i conflitti, sarà scomparsa; occorre prima, quindi “condurre a fondo l’ultima di tutte le guerre – quella contro il capitalismo, nemico assoluto” e poi “fare guerra alla guerra”.

(Segue)

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