13 Novembre 2024
Tradizione Tradizione Romana

Roma prima di Roma. Metastoria della tradizione italica

 

Anni addietro (non molti, per la verità) si sviluppò in un noto forum Internet una discussione inerente agli aspetti più reconditi della tradizione romano-italica. Per la prima volta si discuteva pubblicamente di ‘Rome prima di Roma’ e ‘Saturnia Tellus’ (cercando di penetrare il senso riposto dell’insegnamento virgiliano), nonché di Autori pressoché ignoti agli stessi studiosi di argomenti di carattere tradizionale, categoria gia di per sé alquanto di nicchia, quali Mazzoldi, Nispi-Landi, Ravioli. Si affrontava con curiosità mista al timore reverenziale proprio del neofita il problema di una rilettura della storia della più antica Italia: alla luce degli studi di scrittori dimenticati, archeologi, storici, romanzieri e talvolta iniziati celati alla vista dal velo polveroso dell’oblio, si sondavano ulteriori possibili significati dei miti, nel rispetto della nota regola della polisemia del mito e cercando (con non poche difficoltà, dato il carattere fluido quanto mai della materia) di non uscire dal solco del buon senso e della tradizione. Non crediamo al caso, se non come eccezione propria a un cosmo perfettamente accordato sulle corde della Fortuna: in quegli anni si propiziò, per qualche motivo, un cauto rimanifestarsi dei grandi temi propri alla tradizione autoctona sotto forma di dibattiti, pubblicazioni, eclatanti scoperte archeologiche, nascita sviluppo o morte di realtà comunitarie ad essa variamente intonate. Un processo per certi versi ancora in fieri, con emersioni e reinterramenti che sembrano seguire dinamiche magmatiche speculari a quelle che da sempre, a più livelli, dettano il ritmo ai mutamenti di stato della terra di Saturno.

COPERTINA ROMA

Crediamo che Roma prima di Roma. Metastoria della tradizione italica sia il primo tentativo compiuto di prendere il polso a questo flusso di idee e segnarne il tracciato storico. Un tentativo che corre su un binario parallelo a quello di Fabrizio Giorgio e del suo Roma Renovata Resurgat. Il Tradizionalismo Romano tra Ottocento e Novecento (Settimo Sigillo, 2011) ma in modo diverso, prediligendo Paolo Galiano l’approfondimento di tematiche e Autori precedentemente trattati solo in parte e spesso ad ampie pennellate. L’approccio al tema è di tipo ‘matematico’. Stupisce come Galiano riesca a lumeggiare questioni e personalità secondo una scansione precisa, optando per una narrazione di taglio sostanzialmente monografico. Il testo prende le mosse da una distinzione cronologica tra Autori “antichi” e “moderni” che si sono occupati, a vario titolo, del tema della prima tellus. Galiano si pone limiti temporali ben precisi, focalizzando la propria attenzione esclusivamente sui “moderni”, di cui opera una tripartizione in Etruscologi, Tirreno-Pelasgici e Latino-Romani. Se il primo gruppo è composto dai Giambattista Vico (col suo De antiquissima Italorum sapientia del 1710, dedicato a quel Paolo Mattia Doria amico tanto dello scrittore quanto del Principe di San Severo), dai Gori, dai Lanzi, nonché da nomi sacri come quelli di Guarnacci e Vincenzo Cuoco, tutti tributari della etruscomania dei loro tempi; è con la seconda compagine, quella ‘Tirreno-Pelasgica’, che ha inizio un nuovo filone di studi, senza dubbio il più proficuo, teso a vedere nei diluvi e nei cataclismi del mito le catastrofi idro-geologiche che caratterizzarono a più riprese l’Italia e il bacino tutto del Mediterraneo, forzando le popolazioni autoctone (qualificate da un livello di civiltà avanzatissimo) a celarsi sulle terre emerse o a prendere il largo verso lidi più ospitali. I primi furono gli Aborigeni di cui parla la tradizione, da Tito Livio a Dionigi d’Alicarnasso, destinati all’abbrutimento in territori inospitali ma anche alla conservazione di una parte del nucleo sapienziale atlantideo (perché è pur sempre del platonico mito di Atlantide che si parla, fuori da qualsivoglia deviazione newagistica o occultistica nel senso degenere del termine); i secondi, i Pelasgi, le cicogne o gru che solcarono a più riprese il pèlago alla volta di terre nuove da colonizzare e fecondare con il deposito di una sapienza squisitamente italica.

In questo secondo gruppo di Autori (precursore il Micali) giganteggia il lombardo Angelo Mazzoldi, primo a dare una forma compiuta , un’impronta sistematica agli studi sull’Italo-Atlantide (anche detta Tirrenide). I suoi scritti, per quanto non privi di profili problematici e nonostante una fastidiosa propensione all’evemerismo (peraltro non di esclusiva pertinenza del Nostro, essendo propria anche al Ravioli e a molti intellettuali dei tempi), furono accolti con gravità e serietà dalla repubblica delle lettere. Si era in piena bufera risorgimentale, otto anni dopo la pubblicazione del monumentale Delle origine italiche e della diffusione dell’incivilmento italiano all’Egitto, alla Fenicia, alla Grecia e a tutti le nazioni asiatiche poste sul Mediterraneo[1] Milano avrebbe conosciuto le Cinque Giornate e i fucili di Radetzky. Il Nostro partecipò attivamente alla lotta anti-austriaca e non fu immune dal clima e dalla retorica dei tempi, tanto da trasfondere il senso di orgoglio nazionale nei suoi stessi studi, da cui affiora l’epopea degli Italantici o Atalantici nei termini di un vero e proprio primo Risorgimento, avvenuto in un’epoca remota di difficile datazione entro i margini ideali di una serie di ritorni (il più noto dei quali, quello conseguente alla caduta di Troia, fu contrassegnato dall’antiquam exquirite matrem virgiliano in Aen., III, 96).

Nella temperie culturale dell’epoca si inscrivono i contributi di Ignazio Ciampi, patriota nell’avventura della Repubblica romana, e Camillo Ravioli, nonché di Giovanni Mengozzi e Salvatore De Renzi, Giorgio Grognet e soprattutto Ciro Nispi-Landi, che funge in un certo senso da raccordo con la terza generazione di scrittori, i Latino-Romani. Se l’idea di una Metropolis come centro della civiltà italo-atlantica geograficamente identificabile con l’area in cui millenni dopo sarebbe sorta Roma si affacciava già col Ravioli, fu solo con Nispi-Landi e il suo Roma monumentale dinanzi all’umanità[2] che il nome dell’Urbe si impose definitivamente sul proscenio degli studi, a significare una continuità diretta con l’arcaica civiltà tirrenica dei costruttori di torri, tesqua e piazzeforti a grandi pietre squadrate e poste a incastro senza calce secondo un’arte da taluni anche detta ‘ciclopica’, di cui saggi rilevanti sono a tutt’oggi visibili dal Circeo a Gozo, nell’Arcipelago di Malta. Peculiare di Ciro Nispi-Landi è l’accento posto sulla spiritualità propria agli antichi abitanti della Penisola, per la quale coniò la definizione di religione itala de’ Padri o morti, ponendo le basi per una proficua disamina delle radici proprie alla futura religiosità romana, che nel culto degli Avi trovò il tronco su cui innestare il sistema gentilizio, con le sue basi indiscutibilmente sacrali.

L’idea propria al Ravioli e al Nispi-Landi di una civiltà romana come diretta filiazione di una più arcaica civiltà italo-atlantica, che i Classici stessi sia pur tra le righe richiamano con una certa frequenza, trova svolgimento tra i Latino-Romani. Compagine di studiosi eterogenei quanto mai nel metodo e nelle risultanze d’indagine, questa terza categoria annovera tra le proprie schiere nomi come Evelino Leonardi, Guido Di Nardo, Costantino Cattoi, Giuseppe Brex. Con questi Autori si verifica da ultimo un fenomeno di conversio ad occultum: è in loro che si avverte preponderante l’influsso, vero o presunto, di pieghe iniziatiche dietro le quinte della storia. Con la sola eccezione di Brex, la cui disamina è improntata a criteri strettamente scientifici tesi a individuare nei Siculi la popolazione primigenia del Lazio, si assiste ora ad un sensibile spostamento dell’asse del discorso verso letture ‘misteriosofiche’ (per usare il lessico del Di Nardo) della storia della Saturnia Tellus: dalle paraetimologie leonardiane, essenzialmente radicate nell’insegnamento del Brozzi[3], ai petrefatti del Circeo, dalle mercuriali associazioni di idee che caratterizzano l’analisi di Guido Di Nardo alla metapsichica di Cattoi (come desumibile dall’epistolario e dall’opera di M. E. Rangoni a lui dedicata), nei più significativi Autori Latino-Romani è ravvisabile una ‘volontà di avanti’ in senso esoterico degna di risalto, con particolare attenzione, ad avviso di chi scrive, per alcune speculazioni di Evelino Leonardi, desumibili principalmente dalla Unità della Natura e da Le Origini dell’Uomo. Risultanze, quelle in oggetto, non sempre condivisibili e troppo spesso problematiche, se non addirittura ‘fantasiose’ (con tutti i pro e i contro propri a tale aggettivazione), e tuttavia suscettibili di ampliare gli orizzonti del lettore aduso a una ponderata applicazione dei canoni dell’analogia a tutti i livelli di insistenza dell’agire, umano e non-umano.

Il fulcro dell’indagine di tali Autori subisce una traslazione non solo ideale, ma anche geografica. Da Roma, Urbe primigenia, l’attenzione si fissa in maniera precipua sull’area compresa tra la Campagna romana e il Circeo. Larga parte ebbe a giocare in tal senso anche la scoperta da parte di Blanc, nel 1939, del famoso Cranio di Grotta Guattari, che in un certo senso avallò le tesi relative alla presenza di popolazioni arcaiche nell’area del Circeo, dotate (con buona pace delle testi ‘materialiste’ di alcuni ricercatori statunitensi e, sic transit gloria mundi, italiani filo-statunitensi) di un forte senso del Sacro e della ‘rappresentazione’ rituale[4].

Che cosa, a un livello più sottile, lega tutti questi Autori (da Vico a Di Nardo) a prescindere dalle naturali inclinazioni, dall’indirizzo dato ai loro studi? È rintracciabile un fil rouge idoneo a fare di ognuno di essi un nodo di un’unica, aurea catena? Sono due tra le domande più significative che Galiano si pone, delineando la tesi di un influsso da parte di Centri esoterici snodantesi attraverso i secoli negli ambienti e negli indirizzi di studio più disparati; e del resto, quelli in cui si trovano ad operare gli studiosi finora presi in considerazione sono i cento anni che vedono l’agire, dietro le quinte della storia, di realtà iniziatiche di rango a sostegno di un rimanifestarsi delle forze della tradizione italica a più livelli. Non si vuole con ciò affermare che dietro ogni singolo Autore, da Lanzi a Leonardi, da Guarnacci a Ravioli, abbia operato un nucleo depositario di una sapienza esoterica concernente gli aspetti più arcani dei fata d’Italia, né che ciascuno di loro fosse coscientemente ‘agito’. Piuttosto sembra sia rintracciabile, in questo spartito, una nota unica che fa da sottofondo, a mo’ di la, alla sinfonia: un bordone gregoriano, un dato di fissità e onnipresenza posto a delimitare l’evolvere del canto, pur lasciando allo stesso la massima ampiezza di scala, finanche sino alle eventuali stonature.

Da ultimo, Galiano analizza i miti e le divinità principali facenti da sfondo alla metastoria della tradizione italica, onde individuare una traccia di studio idonea a condurre molto lontano chi intenda approfondirla. Pertanto si sofferma primariamente sul mito di Ulisse, visto ora come viaggio in Italia (Mazzoldi), ora come periplo del golfo del Circeo (Leonardi), ora come iniziatica spedizione nell’Ade (Di Nardo). Si stagliano sullo sfondo divinità terrifiche generalmente legate alla sfera ctonia, come il Demogorgone di Lattanzio e Boccaccio[5], Juno Caprotina, la Gorgone, Vulcano, gli ineffabili Cabiri di Samotracia (e ancor prima di Cabum[6], da cui Monte Cavo, alter nomen del Monte Albano particolarmente sacro ai destini di Roma): tutti aspetti, tutti numina agenti a monte dell’immane cataclisma italo (presumibilmente il secondo, dopo il o i grandi diluvi dei miti) manifestatosi con l’esplosione a più riprese delle bocche vulcaniche che costellavano, e costellano a tutt’oggi, in sonno o meno che siano, il manto d’Italia. L’aspetto relativo ai sommovimenti e al mutamento della facies geologica del Paese è esaminato con precisione e capacità di sintesi nell’Appendice II nonché nella terza parte del saggio, che chiude l’opera con la disamina del tema di Roma erede della terra di Saturno. L’Autore si sofferma in particolare sull’annosa questione dei tesqua (nello specifico quello del Campidoglio, di cui in Livio, Ab Urbe condita libri, I, 55), della coppia di ‘Pile sabine’, del sigillo rappresentato dall’Athena che appare sui vasi a ceramica rossa detti ‘Panatenaici’[7] come emblema proprio alle città italiche che, in tempi remotissimi consegnati a un oblio letèo, avevano ricacciato fuori dai confini patrii l’invasore dando principio al primo grande Risorgimento della nazione italica.

Ignis Rumon

Paolo Galiano, Roma prima di Roma. Metastoria della tradizione italica, Simmetria 2011, pp. 205 – € 25,00.

[1] Di cui la Victrix di Forlì ha meritoriamente curato, in tempi recenti, la ristampa.

[2] Roma monumentale dinanzi all’umanità: il settimonzio sacro e la istituzione della gente romana e di Roma, giusta le emanazioni dei monumenti dei classici e delle tradizioni sacre della patria. Storia e tipografia, Roma, 2° ediz., 1892.

[3] Domenico Brozzi, Dellorigine e natura del linguaggio: ossia etimologia della lingua latina coi rapporti tra l’idee e le radici delle parole, Città di Castello, 1909.

[4] Sul tema si segnala, a titolo di kuriosum, il pamphlet di Antonio Pennacchi Le iene del Circeo. Vita, morte e miracoli di un uomo di Neandertal, Bari, 2010.

[5]  Di cui molto si occupò Di Nardo, specialmente ne Il preistorico culto infero del Vulcano laziale sul Campidoglio di Roma, Velletri, 1942. Ma, prima, v. anche Ciampi ne La città etrusca, Roma, 1866.

[6] Cfr. A. Giuli, Il ritorno del Fuoco sacro in Occidente. Alba Longa, Il Foglio, 25.06.2008.

[7] Di cui un esemplare è visibile presso il Museo Archeologico Nazionale di Ferrara.

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