13 Aprile 2024
Filosofia Hegel

Ritornare ad Hegel (prima parte)

Perfino negli Usa si sta riscoprendo in questi ultimi tempi quello che, assieme a Marx, era ormai considerato un “cane morto della filosofia” , un pensatore inutile e da evitare: tale pensatore è il grande Hegel, che, a dire il vero, viene sempre riportato a galla o quando non si sa più dove parare o quando si avverte l’esigenza di comprendere quello che sta accadendo. Onore, quindi, ai Robert Pippin e ai Terry Pinkard, che hanno merito di contribuire alla rinascita del pensiero di questo indispensabile maestro della filosofia e della storia.

In questo nostro breve saggio, di profilo didattico, si vuole mettere in rilievo un aspetto peculiare del filosofo, ossia quello riguardante la struttura logica della ragione. E’ chiaro allora che si tratta solo di un lavoro settoriale, che però potrebbe servire a chi avrà la pazienza di leggere di chiarire in modo il più possibile semplice la complessità del pensiero hegeliano.

La logica dialettica tornò riapparve nella problematica del pensiero contemporaneo con il filosofo tedesco Hegel, che influenzò in modo decisivo moltissimi filosofi sia dell’Ottocento (in particolare Marx) che del Novecento. Con Hegel la dialettica rifiorirà segnando una nuova stagione del pensare e dell’agire dell’Occidente.

Dopo secoli di eclisse, intervallata dall’apparizione di pensatori originali come Dionigi l’Aeropagita, Eckhart, Cusano, Bruno, Boehme, e da poeti come Silesio, Blake ed Hoelderlin, la piena rinascita di questa forma di pensiero originario avvenne alla fine del Settecento e agli inizi dell’Ottocento con l’Idealismo tedesco, grazie in primis a Fichte e a Schelling, e poi in modo trionfale con Hegel.

Con questi la dialettica viene intesa come il modo d’essere dell’Essere (inteso come totalità assoluta), nella sua esplicazione e nella sua implicazione tra realtà e razionalità. Il Tutto ciò che è e che non è viene compreso, spiegato e sussunto dal principio dialettico, che è appunto il “motore” dinamico razionale del Tutto stesso.

Il cominciamento è logico…” affermò Hegel nella sua “Scienza della logica“…in quanto dev’essere fatto nell’elemento del pensiero che è liberamente per sé, cioè nel sapere puro” (1).

Pertanto il tema centrale della filosofia hegeliana consiste nella proposizione che il finito” , cioè la realtà di questo mondo, è ideale, ovvero che esso “tende” a coincidere con la razionalità.

L’idealismo consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere” (2), perché per gli idealisti il finito non è materia a se stante, intesa come sostanza, ma esso appartiene allo spirito, cioè come una modalità del pensiero che si rivela. E’ importante sottolineare che tale affermazione, come di primo acchito potrebbe sembrare, non significa affatto che Hegel consideri il finito come nullità vuota, del tutto priva di valore, bensì che il finito stesso viene onorato proprio in quanto ideale.

Quindi per Hegel vi è identità fra idealismo e filosofia. L’Essere (si tenga sempre presente che per Hegel l’Essere è da intendersi spesse volte come Essere supremo, in altre come il concetto più puro, privo cioè di ogni contenuto empirico) è pensiero perché l’Infinito stesso, che Hegel chiamerà Spirito Assoluto o Ragione, è pensiero.

La logica è la scienza del pensare che spiega il pensare stesso e le sue regole “… al di dentro dell’Essere stesso e dell’Infinito” (3) e perciò essa assume per Hegel un significato ben più ampio di quello di una semplice forma di conoscenza.

Ed è proprio attraverso un ripensamento generale sulla logica che Hegel approda ad una nuova ed originale “scienza logica” .

L’obbiettivo di Hegel è quello di distruggere il vecchio materialismo e di superare l’eterno dualismo fra spirito e materia: ma ciò secondo lui era impossibile da attuare se ci si serviva della vecchia logica aristotelica, fondata sul principio di non-contraddizione (4) che Hegel definì come logica dell’intelletto, idonea agli studi matematici e alla ricerca propria delle scienze naturali, ma incapace di spiegare la realtà (soprattutto storica), perché essa implicava l’esclusione della logica dei contrari.

Per Hegel la logica dialettica non è solo puro metodo formale, ma è il principio immanente che spiega la verità assoluta dell’Infinito e il suo stesso movimento interno. “Pensare ed essere sono la stessa cosa” diceva anticamente Parmenide: un pensiero che negava però il movimento, la molteplicità e il tempo e che di fatto fondava un idealismo imperniato sul principio di non-contraddizione (“L’Essere è, il non-essere non è” ) era la sua famosissima verità) (5).

Hegel farà propria l’asserzione che l’Essere supremo (Dio, lo Spirito) coincide con il pensiero, ma di fatto rivoluzionerà la logica impostata prima da Parmenide e poi perfezionata da Aristotele.

Per lui la logica è lo studio dell’impalcatura del Tutto: è l’autostrutturarsi dello Spirito.

La vecchia logica aristotelica separava gli opposti tenendoli a se stanti in due “dimensioni” rigidamente divise ed assolute, senza cioè legami di sorta: da un lato l’Infinito, l’Uno, il Perfetto, l’Eterno, l’Essere (supremo), dall’altro il finito, l’imperfetto, il molteplice, il temporale, il caduco, il non-essere.

“L’intelletto persiste in questa mestizia della finità, facendo del non-essere la destinazione delle cose e prendendolo insieme come perituro e assoluto. La caducità delle cose non potrebbe perire che nel loro altro, nell’affermativo. Così si staccherebbe dalle cose la loro finità. Ma questa finità è la loro qualità immutabile, non trapassante cioè nel loro altro, non trapassante nel suo affermativo. E così è eterna” (6).

Questo brano vuole significare che l’intelletto, il cui principio è quello di non-contraddizione, affermando che il mondo finito e materiale non è, in realtà lo fissa permanentemente contrapponendolo in una negazione assoluta, poiché nega che esso sia un contrario, ma semplicemente il non-essere assoluto.

Solo se invece, come dice Hegel, si considera il non-essere come contrario dell’Essere si può risolvere il problema del finito, in quanto il non-essere come contrario dell’Essere si risolve con quest’ultimo in una coincidenza di opposti, perché la contrarietà fra opposti implica la loro necessaria unità.

Mentre se l’Infinito viene nettamente separato dal finito, si ha come conseguenza che l’Infinito è solo uno dei due. “E appunto in ciò” egli continua “che l’Infinito è così segregato dal finito, ed è quindi reso unilaterale, sta la sua finitezza” (7).

L’infinito diventa così finito: l’indipendenza assoluta fra i due (che l’intelletto non considera contrari, bensì distinti, e dove il finito è nulla assoluto) rende di fatto, secondo Hegel, finito anche l’Infinito. Questa assoluta separazione ottiene il risultato paradossale che il finito viene posto in questo mondo qua, in un mondo considerato una parvenza illusoria, e diventa così per la nostra coscienza empirica “vero essere” , mentre l’Infinito, che viene posto in un al di là, diventa, proprio perché al di là, prima lontano e poi estraneo, e quindi un non-essere per il nostro pensiero.

Si comprende allora perché Hegel considerasse la logica basata sul principio di non-contraddizione inevitabilmente da superare e da sostituire, proprio perché essa esclude, come si diceva, l’interdipendenza e la connessione fra opposti.

Ed è da queste considerazioni generali (che costituiscono il perno portante di tutto il sistema) che Hegel approdò alla concezione di una nuova logica capace di risolvere una volta per tutte l’impasse del rapporto Infinito-finito.

Innanzitutto egli mosse critiche prima a Kant, che sviluppando il suo pensiero all’interno di una logica tutta incentrata sul principio di non-contraddizione condannava la ragione ad una incapacità costitutiva di un sapere assoluto, impedendo ad essa la stessa possibilità di una fondazione di una verità rivelativa nell’ambito ontologico e teologico. Poi a Fichte, che era responsabile di aver concepito un infinito che non finiva mai e perciò destinato ad essere un cattivo infinito. Ed infine allo Schelling idealista che aveva proposto un infinito inteso come Assoluto indifferenziato, in cui la molteplicità della materia e lo spirito convivono come “in una notte in cui le vacche sono tutte nere” (intendendo con ciò che in una notte scura non si riesce a vedere nulla).

La soluzione del problema fondamentale fra Infinito e finito “costrinse” Hegel a meditare su di un procedimento dialettico del tutto nuovo, che si rifaceva sicuramente al concetto della coincidentia oppositorumdi Eraclito, Cusano, Bruno, o, ancor più, alla concezione fichtiana dei tre momenti dialettici, ossia di una tesi (affermazione), di una antitesi (negazione) e di una limitazione (sintesi), ma che avrà, come si dirà, delle caratteristiche concettuali del tutto originali.

Una dialettica non più dicotomica, cioè fra due contrari, che si riproponevano perennemente senza mai risolversi fra loro; bensì una dialettica tricotomica come quella appunto di Fichte, sebbene con una concezione propria e molto diversa da questa, che egli ritenne come l’unica logica capace di superare i grandi limiti che la logica aristotelica comportava.

E questa idea “rivoluzionaria” sarà da lui scoperta e meditata sin da giovane, da quando studiava teologia all’università di Tubinga: sarà infatti dallo studio dei dogmi cristiani che egli ricaverà la “soluzione” dell’apparente dualismo fra Infinito-finito, che da Platone in poi aveva rappresentato il problema dei problemi, una specie di colonna d’Ercole di tutta la filosofia occidentale.

Questi dogmi erano quelli della Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e quello dell’Incarnazione, che espressi in un linguaggio religioso si rivelavano solo al sentimento e alla fede, ma che se tradotti in un linguaggio logico-razionale potevano essere per Hegel la conclusiva risoluzione del problema.

Bisogna qui far presente che la concezione trinitaria di Dio e la sua Incarnazione non appartengono solo al Cristianesimo. Anzi, forse sono le idee religiose più antiche in assoluto, perché l’uomo che per primo pensò a Dio, si riconobbe come suo figlio, bramando poi il ritorno in Lui. Del resto Iside-Osiride-Horus nella religione egizia e di Brama-Visnù-Shiva in quella brahamanica-induista furono espressioni potenti di questo pensare dialettico. In particolare nella dottrina della Trinità, che, come si sa, fu un dogma imposto dall’imperatore Costantino nel concilio di Nicea nel 325, si stabilisce la sostanzialità eterna delle tre persone, ognuna delle quali sussiste in sé, ma che sono profondamente legate nell’Unità. Dio è Uno e trino, il che significa che ci sono tre Persone che sono sempre in una sola, come dicono i teologi. Nessuno dei quali fra l’altro, a partire da S. Agostino, fino a S. Tommaso ed altri, riuscì a rendere razionale in senso logico tale dogma (che è una verità rivelata, non dimostrabile razionalmente).

Il primo pensatore che ci ha dato una “traduzione” filosofica convincente, trasferendola sul piano logico ed ontologico è stato, per l’appunto, Hegel, il quale così scrisse parlando del Cristianesimo:

“Cristo è una rappresentazione, per la coscienza empirica, della riconciliazione tra finito ed infinito” (8).

Anzi, è proprio con la morte di Cristo-Figlio che Hegel coglie l’unica vera possibilità di un superamento fra finito ed Infinito.

Con la morte di Cristo si rende razionalmente manifesto che la riconciliazione è attuata perché l’uomo, il finito, ciò che è fragile,la debolezza, il negativo sono pure un momento divino, che tutto ciò che è è in Dio, che la finitezza, la negatività, l’alterità non sono fuori di Dio, e che l’alterità non è un ostacolo per l’unità di Dio. L’alterità, il negativo è conosciuto come momento della stessa natura divina” (9).

Se il Padre, allora, è l’infinito Dio, l’intero Dio che tutto rende possibile ed attuabile, il Figlio è l’alienazione, l’alterità rispetto al Padre, è colui che si realizza nella natura materiale come esistenza esteriore, pur restando sempre all’interno dell’Infinito. Il Figlio è, come sta scritto nel Vangelo di Giovanni, il Dio-lògos ed è proprio in lui che avviene la possente lacerazione col Padre, ma anche l’altrettanto possente aspirazione di ritornare al Padre.

Ed è stata la meditazione sulla figura del Figlio e della sua morte ad offrire ad Hegel lo spunto filosofico per la soluzione del dualismo Infinito-finito. Il Figlio, come venne sancito dal concilio di Calcedonia, guidato da papa Leone Magno nel 451, ha due nature in se stesso, cioè è Dio in quanto è sostanza al pari del Padre, ma è anche uomo in quanto è Figlio posto come l’altro del Padre, poiché la sua natura di uomo lo rende finito, corporale e perituro. Questa doppia natura rivela la contrarietà interna al Figlio stesso.

Egli è Dio nella sua natura divina e pari al Padre in quanto eterno ed originario a Lui (sono la stessa divinità) ma anche uomo e come tale soggetto al tempo e alla distruzione.

Ed è proprio questa “umanità” che lo spinge a tornare a ciò che Egli è veramente nella sua sostanza: tornare ad essere Dio. Il Figlio come uomo avverte la necessità di superare la propria “caduta” nel finito materiale, che è non-essere rispetto al suo essere divino. Ma solo se nega la propria negatività di figlio-uomo può ritornare ad essere Dio: la morte del Figlio non è la morte della sua divinità (poiché Egli è Dio ed è eterno), bensì è la morte dell’uomo come carne (che fra l’altro essa stessa risorgerà comunque in eterno) ciò che veramente avviene quando Cristo sarà crocifisso.

Il Cristo crocifisso rappresenta perciò il simbolo dell’unità fra contrari: negando se stesso come uomo finito, il Figlio ritorna al Padre, che però, proprio perché si era alienato nel Figlio, acquista consapevolezza della sua alienazione. Il Padre cioè sa di essere Padre solo se vi è un Figlio che lo abbandona e poi ritorna a Lui.

“La morte ha dapprima questo significato: Cristo è stato l’uomo-dio, il Dio che aveva contemporaneamente la natura umana, proprio fino alla morte. Morire è la sorte della finitezza umana” . (10).

Solo attraverso questa morte del figlio-uomo Dio è pienamente Dio, perché così si ha la piena riconciliazione fra Padre e Figlio. Lo Spirito Santo, che rappresenta l’unità dei contrari all’interno della Totalità, è quindi per i cristiani anche amore, perché la morte che Dio accetta di subire mentre è nel figlio-uomo, dà a tutti gli uomini la possibilità di cogliere Dio.

La croce del resto è un simbolo della Tradizione primordiale, di molto anteriore al Cristianesimo, che indica la realizzazione dell’ “uomo universale” , perché, oltre a raffigurare un uomo stilizzato, in essa vi è la sintesi fra la linea orizzontale che rappresenta l’ampiezza delle possibilità umane in senso “terreno” , mentre la linea verticale rappresenta la gerarchia, ovvero la tensione dell’uomo verso stadi più elevati del suo essere (11).

Ed allora, tornando ad Hegel, vediamo come questa riflessione sulla Trinità, che è già evidente nei suoi scritti giovanili e in particolare ne “Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino”, gli fornisse l’idea di una sua elaborazione in termini logici-metafisici.

In questa opera giovanile egli rileva che dopo il diluvio universale, i cui “ricordi”  sono presenti in tutti i libri antichi di mitologia, i Greci avevano recuperato una felice ed intensa armonia con la natura, vivendo in una pienezza totale con essa e con gli Dei. Gli Ebrei, invece, popolo nomade di regioni aride o semi-aride, non erano riusciti a conciliarsi col loro unico Dio, che era ad un tempo geloso e punitore, e quindi vivevano all’interno della loro società questa scissione fra l’umano e il divino in modo lacerante. Il Cristianesimo, sorto e sviluppatosi nell’ambito dell’Ebraismo, ricompose il dolore di quella frattura. Cristo con il suo amore conciliava e mediava la scissione vissuta dagli Ebrei e ricostruiva la piena integrità fra l’uomo (l’individuale finito) e Dio (l’Universale infinito).

Una ricostruzione che però non andava a restituire all’uomo l’innocenza tipica della grecità, ma che ricomponeva l’unità perduta attraverso la conflittualità della separazione con la conciliazione della stessa ad un livello mediato, e quindi più consapevole.

Hegel giunge già in quest’opera ad intravedere quello che sarà il fulcro del suo sistema basato sulla dialettica triadica. La dogmatica cristiana, si può dire, lo illuminò. E questo è ormai un fatto che tutti gli studiosi sono concordi nel riconoscere.

Anzi, un filosofo del Cristianesimo come Altizer afferma con convinzione che Hegel è stato “… l’unico pensatore che abbia creato un’immagine concettuale del movimento incarnato e kenotico di dio…”  (12).

Questo teologo, studiando la generazione del Figlio da parte del Dio-Padre, ritenne che tale parto sia il prodotto di uno svuotamento (una “Kenosis) attraverso il quale il Padre si incarna nel Figlio, che poi ritorna a ricongiungersi con il Padre stesso, dando “luogo”  con questo ricongiungimento allo Spirito Santo. Padre, Figlio, Spirito Santo rappresentano così il movimento triadico (l’uno, l’altro, il congiungente), e cioè la tesi, l’antitesi, e la sintesi del procedere dialettico.

E ancora Altizer ribadì che:

…in verità Hegel tenta di dimostrare che la Crocifissione può apparire, ed essere, pienamente reale nella coscienza solo quando Dio è conosciuto ed alienato da se stesso, esistente in una forma dicotomica, come Padre e Figlio, o Creatore sovrano o Verbo eterno. Per mantenere la sua esistenza come creatore trascendente, Dio deve continuamente cancellare e negare il mondo; ma per procedere verso la sua universale epifania come Verbo incarnato, egli deve negare la sua trascendenza sovrana. Conseguentemente, Dio è qui concepito come esistente in opposizione a se stesso. La dissoluzione di questa apparizione avviene solo quando ogni forma della divinità, in virtù della sua intrinseca indipendenza si dissolve in se stessa…attraverso gli eventi che la fede conosce come Incarnazione e crocifissione, Dio svuota se stesso della sua sovranità e trascendenza, e questo sacrificio kenotico non solo effettua la dissoluzione fra Padre e Figlio nella sua nuova epifania di Dio come Spirito universale, ma fa parimenti svanire l’opposizione fra Dio e il mondo” (13).

In questo lungo brano Altizer chiarisce come il dogma della Trinità (in relazione al dogma dell’Incarnazione) sia il fondamento del pensare filosofico di Hegel, in quanto in esso vi è l’idea del superamento definitivo della scissione dualistica fra Infinito e finito, e l’affermazione dell’unità dei contrari in Dio stesso.

Già nel suo primo scritto filosofico “Differenza dei sistemi di filosofia di Fichte e Schelling” Hegel afferma che il finito nega l’Infinito (in quanto lo limita), ma, poiché l’Infinito è presente nel finito, che non può esaurirlo, il finito stesso si presenta come contraddittorio in sé. Hegel comprese appieno quella che sarà la novità del suo pensare dialettico, e cioè che questo mondo finito è caratterizzato da una irrequietezza che lo spinge per necessità a riconciliarsi con l’Infinito.

Ma solo nella Totalità, che per Hegel era la Ragione o Spirito, era possibile tale conciliazione fra contrari. E questa idea di un Uno Tutto gli fu data da Spinoza, che per primo aveva concepito in Occidente, in modo compiuto, un Dio che è tutto e in tutto, che è sostanza e causa insieme, sempre identico ed uno, ma che ha in sé il molteplice e il divenire.

Tuttavia se per Spinoza Dio è anche Ordine Geometrico che governa immanentemente i suoi modi o manifestazioni, attraverso il principio della causalità meccanica, proponendo una veduta che era in sintonia con il pensare degli scienziati dell’epoca (Galilei e Newton in particolare), per Hegel Dio è Spirito o Ragione che tutto ordina secondo il lògos della triadicità dialettica.

Un lògos che solo in un’opera più tarda, ossia l’ “Enciclopedia” (14), egli stabilirà chiaramente nei suoi tre aspetti, della tesi, antitesi e sintesi che saranno chiamati momenti.

Si noti che il termine momento viene usato da Hegel sia in senso dinamico (das moment) che in senso temporale (der moment), ricavando tale significato dal verbo latino “movere” e quindi dal suo sostantivo “movimentum” . In particolare, il terzo momento, lo speculativo, è da intendersi anch’esso in senso dinamico, poiché in quanto sintesi potrebbe far pensare ad un Immutabile sostanziale. La Totalità, che è l’Infinito, si struttura in tre momenti dinamici eterni, che sono l’Idea, la Natura, e lo Spirito. La tesi (Idea) è il momento affermativo astratto, intellettuale (la positività astratta, l’essere in sé, “an sich” ). L’antitesi (Natura) il momento negativo, razionale, dialettico (il finito, l’essere fuori di sé, “aus sich”). La sintesi (Spirito) il momento positivo, razionale, concreto, speculativo (l’unita fra i contrari, l’essere in sé e per sé, “bei sich”).

Si tenga sempre presente che questi tre momenti per Hegel non fanno parte solo della logica, ma sono momenti che trapassano in ogni atto reale, cioè essi sono appunto la struttura intima e vera del Tutto.

Il primo momento viene chiamato Idea, poiché l’Infinito, l’Essere supremo, è pensiero. Tuttavia è ancora un pensiero astratto ed intellettuale, è l’immediato, il ciò che è (per questo è positivo), che però non ha la coscienza di sé perché non sa di essere la Ragione Infinita, in quanto si pone come Entità isolata ed indipendente. Per questo l’Idea è intelletto e non Ragione o Spirito.

Infatti il porsi in sé come Idea equivale a stabilire l’uguaglianza A=A da cui si ricava che A non può essere non-A. Il non-A tuttavia (15), è il diverso e non il contrario e perciò A (l’Idea, l’Infinito) non riesce a cogliere la sua relazione e dipendenza dall’altro (il non-A, il finito) inteso come un “suo altro” , cioè come contrario.

Così il dì è dì solo in funzione della notte, così l’Infinito è Infinito sono in relazione al finito, perché senza questa relazione Esso non potrebbe sapere di essere infinito. Il principio di non-contraddizione illude l’Idea di essere in sé autosufficiente, cioè separata da altro in modo assoluto.

Per cui l’immediato, che per la coscienza comune è il concreto, per Hegel è, invece, proprio l’astratto, perché isolato ed indipendente e perciò inconsapevole della propria frammentarietà.

Di conseguenza (e qui ci può essere utile per un chiarimento riprendere il modello trinitario) il Padre (che Hegel non intende per Dio personale, ma la Divinità astratta e immanente) rappresenta il Tutto che non sa di per sé di esserlo, poiché un padre è tale solo se ha un figlio, che lo rende padre. Per cui il Figlio è la necessaria produzione eterna del Padre, senza la quale Egli non potrebbe riconoscersi.

Ma perché l’Infinito astratto, l’Idea, deve produrre il finito, la Natura?

La risposta viene da sé: l’Infinito senza finito sarebbe vuoto assoluto; anzi, sarebbe Ni-ente. Esso deve produrre il finito per poter essere realmente Infinito.

Hegel chiama questo processo di produzione del finito alienazione (positiva)o autoestraniazione, il che implica la presenza di un opposto con cui scontrarsi, che è il finito o Natura. Il termine alienazione significa proprio produrre l’altro, un altro non generico, bensì un altro opposto, ed ha un valore infinitamente positivo, perché, come si è detto, l’Infinito ha bisognodel finito per essere Infinito.

La Natura è l’antitesi, il momento razionale e negativo. E’ razionale perché è il contrario interdipendente, in quanto la ragione si sviluppa (ragiona) attraverso le opposizioni; è, per Hegel, il negativo perché non ha l’essere in sè ma nell’Infinito di cui è produzione (si ricordi che Hegel è un idealista che considera il Tutto come pensiero).

Egli definisce inoltre dialettico questo secondo momentoe non il terzo e quindi fa sorgere una domanda (che si è posta anche Heidegger) (16) alla quale occorre rispondere. Infatti sarebbe apparentemente più logico definire dialettico il terzo momento, poiché esso rappresenta l’unità dei contrari e la conciliazione degli opposti. In realtà il secondo momento richiede una riflessione particolare, in quanto esso è la chiave per comprendere a fondo il pensiero hegeliano.

Hegel vuole togliere qualsiasi autonomia ed indipendenza alla materia ed alla natura finita, perciò è suo convincimento che essa sia il non-essere, perché solo l’Infinito, il pensiero è.

Ora la Natura, essendo il prodotto dell’alienazione dell’Idea, non ha la sua essenza (il suo essere, il suo ciò che è) in sé, ma nell’Idea stessa che è il vero Essere (supremo). Si ha quindi che quando il finito è, in realtà non è, perché la sua essenza o ragion d’essere è nell’Infinito. La Natura è davvero per Hegel il non-essere perché transeunte, materiale, finita e peritura, come lo sono tutti i fenomeni di questo mondo qua. Ma se essa fosse non-essere assoluto non potrebbe essere contrapposto dialetticamente come contrario all’Infinito. Si tornerebbe al divieto di Parmenide che sentenziava che solo l’Essere è, mentre il non-essere non-è. Per cui il non-essere non è neanche pensabile. Con ciò, come abbiamo già riferito, si arrivava alla conclusione che esiste solo un mondo che è quello del pensiero, immutabile ed eterno; mentre l’ “altro mondo” quello della realtà mutabile è illusorio.

Per Hegel il divieto parmenideo va superato in toto, quando si vuole spiegare il rapporto Infinito-finito. Anche per lui la natura quando è natura è non-essere. Ma essa, essendo il prodotto dell’alienazione dell’Idea, è nell’Idea stessa. Si ha perciò la famosa definizione della Natura che quando è non-è, e quando non-è è. In altre parole la Natura ha la sua essenza nell’Idea (che è il suo fondamento), mentre quando “crede” di essere indipendente, cioè Natura in se stessa non è perché essa, essendo soggetta alla caducità dell’esistere non può avere il proprio fondamento in sé.

Tutto questo dovrebbe chiarire allora il perché Hegel considerasse il secondo momento come momento dialettico. Esso, infatti, ha una doppia istanza o doppio aspetto: esso è e non è insieme, perché come mondo finito a se stante non può essere, e nel contempo esso esiste, nel pensiero stesso, cioè nel proprio fondamento che lo ha “partorito” con l’autoestraniazione da sé.

Ciò vuol dire che il finito appartiene all’Infinito e che quindi non è più autonomo e diviso da Esso. Perciò Hegel affermò che proprio per questo motivo il finito è ideale. Una idealità che sarà da lui espressa con una famosa frase: “… ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale” .

L’autonomia del finito in sé viene del tutto negata, tanto che L. Colletti, noto filosofo italiano, studioso di Hegel e Marx ebbe a ribadire che:

…in quanto dialettico, il finito si nega, scompare: … se si vuole considerare il finito non bisogna considerare il finito, ma l’Infinito, per prendere l’Essere occorre prendere il pensiero, l’Idea; non c’è la cosa, c’è la ragione; non c’è la determinazione esclusiva (dell’opposto), ma l’inclusione razionale… cioè l’unità di “medesimezza” e “alterità” , di “essere” e “non-essere” , di “finito” e “infinito” nell’Infinito” (17).

Ora, se il finito “scompare” nell’infinito, perché esso deve negare se stesso? (continua seconda parte)

TOVO Flores

f.tovo@libero.it

 

NOTE

  1. G.W.F.HEGEL, Scienza della logica, ed. Laterza, Bari 1981, p.53.
  2. SL, p.159. (Per SL si intende la sigla di “Scienza della logica” ).
  3. SL. p.24.
  4. Tale principio così viene formulato da Aristotele: 1) in senso ontologico-esistenziale: è impossibile che una cosa sia e non sia contemporaneamente; 2) in senso logico: è impossibile che lo stesso attributo inerisca o non inerisca alla medesima cosa sotto il medesimo rispetto).
  5. Far coincidere l’Essere con il pensare ci può sembrare una astrazione insensata, in quanto noi vediamo, tocchiamo, sentiamo con il corpo, ma se si pensa che la nostra conoscenza si sviluppa solo con il pensiero, tale affermazione trova una sua ampia giustificazione.
  6. SL. p.147.
  7. SL. p.147.
  8. G.W.F.HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, Vol. III, ed. La Nuova Italia, Firenze 1975. p.123.
  9. IDEM, p.154.
  10. IDEM, p.149.
  11. Si veda l’opera di R.GUENON, Il simbolismo della croce, ed. Luni Editrice, Milano 2003, pp.29-30.
  12. T.ALTIZER, Il vangelo dell’ateismo cristiano, ed. Ubaldini, Roma 1969, p.72.
  13. IDEM, p.115.
  14. G.W.F.HEGEL, Enciclopedia della scienze filosofiche in compendio, (par.79-80-81.82), ed. Laterza, Bari 1969.
  15. IDEM, & 116-117-118.
  16. M.HEIDEGGER-E.FINK, Dialogo intorno ad Eraclito, ed. Garzanti, Milano 1992, p.217.
  17. L. COLLETTI, Il marxismo ed Hegel, ed. Laterza, Bari 1976, p.182.

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