12 Ottobre 2024
Livio Cadè Spiritualità

Nessun maggior piacere… – Livio Cadè

Il massimo piacere

Secondo un amico, attento indagatore di anime, “nulla dà più piacere a un essere umano che il poter tiranneggiare un proprio simile”. Dato che il piacere nasce dalla soddisfazione di un desiderio, ne deduco che il nostro massimo desiderio sia quello di angariare gli altri. Per converso, non vi sarebbe peggior frustrazione che il non poterlo fare. Ora, poiché i nostri desideri rivelano la nostra natura, dovrei concludere che la tirannia è la realizzazione – ideale o sensuale – dell’essere umano.

In realtà, potrei elencare molte cose che mi danno più piacere del tiranneggiare: stare con chi amo, conversare con gli amici, suonare o ascoltare della bella musica, leggere un libro, meditare un argomento interessante, camminare in campagna, giocare con un cane o tenermi un gatto sulle ginocchia, guardare un tramonto, mangiare un dolce fatto in casa, star vicino alla stufa accesa in inverno, sonnecchiare in poltrona etc.

Piaceri legati al tardo autunno dell’età, lo ammetto. Ma anche nella mia primavera non ricordo d’essermi dilettato a tiranneggiare i miei simili, o dissimili. Non nego saltuari atti di prepotenza. Ma la prospettiva di sottomettere un altro essere vivente, di incutergli paura o sofferenza, non mi procura alcun piacere. Anzi, mi suscita ribrezzo.

Tuttavia, è facile ingannarsi sul proprio conto. Quindi anch’io, senza saperlo, potrei ospitare in me brame tiranniche. E non potrei escludere che l’uomo trovi il suo fondamentale appagamento non nell’eros, nella pace dell’animo o nel sapere, ma nell’esercitare una cruda volontà di dominio sugli altri.

Avrebbe ragione allora chi dice che “cumannari è megghiu ca futtiri”. Tutta la storia umana si potrebbe leggere, nella sostanza, come tensione dialettica tra il fottere e l’essere fottuti. Qualcuno direbbe “tra carnefici e vittime”. Ma così cadremmo nel solito trito, stucchevole moralismo. In realtà, a molti non dispiace affatto l’essere fottuti.

Libido e potere

È noto che c’è una certa voluttà nel soffrire e nell’esser passivi. Per molti è piacevole aver qualcuno che li domini, li punisca e li sculacci. Mentre la coscienza se ne lamenta, qualcosa in loro ci trova gusto. Si sentono eroticamente attratti dal potere. E se non lo possiedono, vogliono almeno esserne posseduti. Vi si metton sotto e, a modo loro, ne godono.

Sadica o masochistica, non si può negare che la società in cui viviamo trasudi violenza. La sessualità, lo sport, il linguaggio, la produzione economica, la politica, tutto diventa esibizione di un potere fallico, aggressivo e arrogante. Al punto che atti di gentilezza, di delicata cortesia, ci sorprendono, come strani fossili di un’era preistorica.

Di fatto, v’è sempre stato chi ha preso piacere dal tiranneggiare gli altri. Molti lo ritengono un loro diritto: i padroni con gli schiavi, i genitori con i figli, la moglie col marito (o viceversa), il professore con gli studenti etc. Basta conferire a qualcuno un briciolo d’autorità perché si trasformi in despota e si abbandoni a soprusi e vessazioni.

Ma oggi la libido dominandi è un fenomeno di massa. Ovunque incontriamo persone che, per effetto di strampalate norme sanitarie, si sentono investite della missione di controllare, ammonire, minacciare, punire i loro simili. Politici, medici, poliziotti, giornalisti, dirigenti scolastici, datori di lavoro, negozianti, sconosciuti passanti etc. imbrattano ogni spazio con le loro fetide deiezioni di potere, e diguazzano in questa melma sadica, felici di poter tiranneggiare gli altri. Il loro ressentiment, impunito e nobilitato, può finalmente sfogarsi su qualcuno. Feroce rivincita di chi forse fin dalla culla ha subito angherie.

Ambivalenza del potere

Difficile dire se il potere sia buono o malvagio in sé, o fattore neutro, il cui valore dipende dall’uso che se ne fa. Il potere come apparato – il potere dello Stato, della Chiesa, della finanza, dei media etc. – è sempre maligno, perché determina una perdita di libertà in chi lo esercita e in chi lo subisce. Nella sua forma verbale – “poter fare o non fare qualcosa” – sottintende invece una gamma di facoltà e possibilità indefinite.

Un tempo il potere era visto come qualcosa di intrinsecamente buono, in quanto proveniva da Dio. È la volontà di Satana, dice Gregorio Magno, a esser malvagia, non il potere di cui il diavolo si serve. Il potere – politico o religioso – era dunque emanazione di un ordine, di un sistema di leggi che aveva fondamento divino, una sorta di sacra investitura.

Ma in una modernità desacralizzata ogni potere è ormai profano, legato solo all’egoismo di chi lo detiene. Incarnato in strutture di dominio amorali, basate sulla forza del denaro, che avocano a sé gli attributi divini del creare e del distruggere, del decidere il destino dell’universo.

In questo Olimpo al di là del bene e del male siedono onnipotenti compagnie finanziarie, banche, corporations, deep state, massonerie etc., entità avvolte in una caligine metafisica e impenetrabile, simili a incontrastabili leggi di natura. Opporsi a questi Dei tiranni sarebbe dunque inutile quanto il lamentarsi della forza di gravità.

È un Potere osceno, che nasconde le sue corrotte nudità dietro paraventi mediatici. Non chiede, se non occasionalmente, d’essere amato, solo temuto e ubbidito. Ci può consolare sapere che, a differenza di Dio, non è immortale. È nella natura delle cose che un tiranno muoia, che anzi debba venir ucciso. Ma certo, ribellarsi richiede maggior coraggio e comporta più rischi che il farsi fottere.

L’esempio monastico

In fondo, l’esser dominati rassicura. Un vecchio istinto ci porta ad ammirare e a servire il più forte. Questa attitudine animalesca si fa preconcetto inconscio, valore metafisico su cui poggia la civiltà. La pratica del potere assume carattere simbolico, diviene imitatio Dei. La serie dei poteri finiti viene collocata su uno sfondo infinito, elevata a delirio di onnipotenza.

La società avalla gli ideali della sottomissione, dell’ubbidienza, dell’ingerenza dello Stato nelle decisioni del singolo. La persona gode di una libertà paradossale, perché sempre condizionata, vincolata alle concessioni di teocrazie, monocrazie, aristocrazie, burocrazie più o meno legittime. La stessa democrazia, nemica teorica dei modelli tirannici, si fonda sul potere della maggioranza di dettar legge, sul diritto del più forte (per numero) di comandare al più debole.

Dal medioevo a oggi, l’unica alternativa alla società non violenta è rappresentata forse dai monasteri benedettini, modelli di comunità pacifiche, di organizzazione efficiente e auto-disciplinata. Ma nel suo complesso la nostra civiltà si è adattata a una barbarie che variamente dissimula tra le pieghe del lavoro, della scuola, della religione. L’uomo comune accetta inconsciamente la tirannia come premessa logica del funzionamento sociale.

Il paradigma del dominio sembra necessario a esorcizzare i fantasmi dell’anarchia e del caos. In realtà, proprio il culto del potere, la mistica della forza, ci impediscono di realizzare una società in cui prevalgano l’ordine, la libertà e l’armonia. L’uomo viene rinchiuso nella dialettica dell’essere schiavo o ribelle, dominare o esser dominato, tra la tentazione di blandire il tiranno (il Dio, il Padre) e quella di ucciderlo e prenderne il posto.

La questione metafisica

Non è solo problema storico o psicologico, ma dramma metafisico. In esso troneggia l’immagine mitica di un Dio onnipotente, che dispone tutto secondo la Sua volontà. “La qualità del Tao è la debolezza” dice invece Laozi. Il Principio assume carattere sorgivo e fluido. Non ha una forza ridotta, limitata, ma è infinitamente debole. Emana l’universo non con un atto volontario di potenza ma in una sorta di respiro naturale. Assegna a ogni essere la sua natura, senza mai interferire con la sua libertà. Non obbliga, non proscrive, non giudica, non punisce.

Ogni potere sarebbe contraddizione con la natura del Tao. Il potere implica infatti un volere e il volere un’assenza. Io voglio essere, voglio avere etc., e quindi mi preoccupo di poter essere, di poter avere etc. Ora, è assurdo voler essere quello che sono o voler avere quello che ho. Io voglio ciò di cui sento la mancanza.

Attribuire al Tao una volontà è quindi supporre in lui una necessità. Non si tratta di speculare su un concetto astratto ma di cogliere questa Totalità perfetta, cui nulla manca e che quindi nulla vuole. Pienezza originaria che si riflette nel mondo e nella nostra stessa vita, nella profondità del nostro essere.

“Io posso” esprime un farsi in potenza, qualcosa che può esser fatto. Ma in Dio non v’è nulla che possa esser fatto. Tutto è già in atto. Dio riposa in una calma e assoluta debolezza perché il suo potere non soffre le limitazioni della volontà o del bisogno, è un creare spontaneo.

Ma l’uomo è afflitto dalla mancanza, dai suoi “io voglio”. E ha terrore della debolezza, d’esser privato del suo “io posso”. Cerca compensazioni, sostiene il suo Io ideale con fantasie narcisistiche per nascondere la sua fondamentale angoscia di impotenza. Per questo trova piacere nel dominare. Lo fa sentire potente come un Dio.

Mollare la presa

Al contrario, solo la debolezza mi rende ricettivo al divino e mi libera dall’angoscia. Se non riesco a imporre la mia volontà alle cose mi sento sconfitto, umiliato, vittima di un fallimento esistenziale. Ma proprio respingendo le mie pretese la vita mi offre un insegnamento iniziatico. Mi esorta a mollare la presa, mi salva dalla pseudo-felicità. Scava un’apertura da cui far entrare in me una semplice gioia.

Gli automatismi emotivi che alimentano la mia inquietudine perdono la loro forza, si riduce l’attrito col mondo. Resta un piacere semplice e pacificato. Capisco che amore e potere non possono coesistere; che la mia vita è retta da un potere impersonale e dai suoi incessanti miracoli. Posso averne una comprensione effimera o duratura, in ogni caso inversamente proporzionale ai miei sogni di potere – di qualsiasi potere, anche spirituale.

Una società debole è per ora un’utopia. Siamo tutti assuefatti alla violenza e al potere. Ne abbiamo bisogno come di una droga. “Nulla dà più piacere a un essere umano che il poter tiranneggiare un proprio simile” è dunque in parte vero. Molti si dilettano a tormentare gli altri, godimento tormentoso anch’esso. Ma la natura, la bellezza, l’amore, questo è ciò che dà realmente piacere. Godere nel sottomettere qualcuno è solo una diffusa perversione.

4 Comments

  • Michele 23 Maggio 2022

    In quest’articolo stiamo parlando di persone che non hanno la minima idea di che cosa significhi il termine empatia e usano le altre persone solo per il proprio personale interesse.
    Oggi, con gli strumenti mediatici a disposizione e con gli strumenti finanziari che abbiamo a disposizione è possibile per chiunque assurgere a posizioni sociali che non si è meritate o arricchirsi con la speculazione finanziaria senza minimamente sapere cosa significa gestire un’attività e avere dei dipendenti.
    Abbiamo sotto gli occhi, una nazione il cui gerarca sta compiendo disastri senza comprendere il male che sta compiendo .
    La sfida per tutti noi è di unire al potere anche forte senso di responsabilità che non è per nulla scontato.

    • Livio Cadè 23 Maggio 2022

      L’empatia è una qualità oscillante. In alcune circostanze certe persone si dimostrano empatiche. Poste in altre (per esempio posizioni di potere) diventano sadiche.
      D’accordo sul gerarca.

      • Michele Franceschini 23 Maggio 2022

        L’empatia non va confuso con le finalità perché è un metodo di analisi utilizzato da psichiatri, magistrati, avvocati, insegnanti: è il metodo principe per entrare in contatto con l’anima di chi ti sta di fronte e comprendere chi sta dietro alle parole. Usare le persone per i propri interessi vuol dire svalutarlo e usarle come degli strumenti senza anima.
        Usare empatia è solo l’inizio per costruire relazioni umane con i propri simili.

        • Livio Cadè 24 Maggio 2022

          Non credo all’empatia come metodo, come qualcosa di appreso. È un istinto, ce l’hanno anche gli animali. Ma nell’uomo può essere facilmente pervertito o soffocato.

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