10 Aprile 2024
Storia delle Religioni

L’amore e la verità – Marco Calzoli

La tragedia è un genere letterario nato nell’antica Grecia che rappresentava sulla scena opinioni opposte ognuna dotata di qualche validità. Da ciò è nata l’espressione “senso del tragico”: per indicare la situazione dell’umanità che si trova lacerata tra tendenze opposte: giusto/sbagliato, anima/corpo, ragione/emozione, bene/male, piacere/dolore, giustizia/ingiustizia, e così via.

Gli antichi greci hanno espresso questo mistero della condizione umana anche con il mito del Vaso di Pandora: il poeta greco arcaico Esiodo raccontava che i beni e i mali sono stati mischiati nelle sorti dell’umanità perché essa, dapprima libera da ogni male, vide aprirsi il mitico vaso che li teneva racchiusi, i quali quindi ancora imperversano nel mondo assieme ai beni.

In ogni nostro avvenimento c’è allo stesso tempo un male e un bene. Questa condizione tragica del mondo è stata cantata da innumerevoli schiere di poeti attraverso lo scontro delle tendenze opposte che albergano nell’animo dell’uomo.

Anche le nostre decisioni sono caratterizzate allo stesso tempo dall’errore e dalla giustezza. La parola “decidere” deriva da un verbo latino che significa “tagliare”, nel senso che quando decidiamo eliminiamo alcune possibilità pur legittime preferendone solo alcune. Nell’egiziano antico la parola giudizio, wd’t, deriva da un verbo egiziano che significa “tagliare”.

La Madonna apparsa recentemente a Kibeho, in Africa, ha rivelato ai veggenti che il mondo sta sull’orlo dell’abisso. Ma, se guardiamo oggettivamente la realtà che ci circonda, non facciamo fatica a vedere un uomo in scacco, come dicevano gli esistenzialisti, vittima della propria libertà di scegliere che lo condanna alla perenne lontananza dal giusto perfetto (ma anche dall’ingiusto perfetto).

Secondo gli autori spirituali, ma anche gli gnostici, l’uomo è condannato ad avere la propria anima imprigionata nella materia. L’uomo ha tendenze spirituali che gli derivano dalla propria anima spirituale ma ha altrettante tendenze materiali che gli derivano dal corpo.

La più antica scuola filosofica indiana, intesa in senso occidentale, è il Sāṃkhya, che vede l’anima immortale della persona rinchiusa in uno schermo illusorio, costituito dai sensi della mente inferiore, che è una manifestazione della materia. Lo scopo dell’esistenza umana sarebbe quello di acquisire una consapevolezza tale da liberarsi dall’illusione della materia e della sua mente e così riacquisire completamente la propria natura spirituale.

Il Sāṃkhya viene diviso dagli studiosi in pre-classico e in classico. Si tratta di una delle sei darshana dell’induismo, cioè le scuole filosofiche ortodosse. La radice della parola darshana significa “visione” e queste scuole filosofiche sono dei modi di vedere la realtà, formano tre coppie e ogni coppia è a volte simile per qualche aspetto. La parola Sāṃkhya vuol dire “enumerazione” e troviamo questa scuola, nella sua forma pre-classica, già nell’alveo di quelle correnti che formano l’epica indiana (nella Gīta, VI-IV secolo a. C.) e il Vedanta. La sua evoluzione classica compare nel IV secolo d. C.

All’inizio, nella fase pre-classica, il Sāṃkhya non era un sistema filosofico ma un metodo che studiava il processo detto parinama, cioè l’evoluzione cosmica: una unità primordiale che si evolve e diventa questo universo attraverso un certo grado di livelli. Il Sāṃkhya “enumerava” i principi cosmici che si succedevano fino a differenziarsi in questo universo. In seguito la scuola classica sarà molto precisa in questa enumerazione e in essa nascerà una tendenza verso una visione non più unitaria ma dualista. Ci si rende conto, infatti, che c’è una certa differenza tra ciò che è materiale e ciò che è mentale, quindi in seguito si sviluppa una differenza tra ciò che è la materia e ciò che è lo spirito, cioè la coscienza intesa come il vero Sé dell’individuo.

Tutto quello che è mentale non è la coscienza: quest’ultima è lo sguardo su ciò che appare, abbiamo coscienza quando siamo coscienti di ciò che accade fuori e dentro di noi, ma chi è cosciente di qualcosa non è la stessa cosa del contenuto della coscienza. Per esempio una persona vede un albero: chi ha la coscienza dell’albero non è l’albero (contenuto della coscienza). Anche nel mondo occidentale l’oggetto è etimologicamente “ciò che è gettato davanti” agli occhi. Allora colui che vede non è la stessa cosa dell’oggetto visto. Pertanto tutto ciò che è il mondo e che il soggetto percepisce avendolo nella coscienza, non è la stessa cosa dell’osservatore. Anche il mentale viene osservato come un oggetto, quindi nemmeno il mentale (pensieri, ricordi) coincide con chi osserva. Da ciò nasce la distinzione tra la materia (mondo, corpo, mentale) e la coscienza. La coscienza è l’unica cosa non materiale che esista.

Anche dal punto di vista cosmico, non esiste un solo principio, ma due realtà del tutto diverse tra loro: la materia (Prakrti) e lo spirito (Puruṣa). Lo spirito è l’anima individuale, non materiale. Allora il parinama, cioè l’evoluzione dell’universo, riguarda solo la materia. Nel Rinascimento occidentale vi era la distinzione tra Natura naturata (le cose del mondo, che sono molteplici) e Natura naturans (il principio da cui tutte le cose sorgono). Allo stesso modo per il Sāṃkhya la materia è unica ma si evolve nella Natura naturata, cioè nelle varie cose che costituiscono il mondo materiale, che la scuola indiana classica enumera dettagliatamente. Invece lo spirito non si evolve, è un principio del tutto opposto alla materia, vale a dire: immutabile, inattivo (non si muove), cosciente, molteplice (ci sono tante anime individuali, invece la materia è sostanzialmente una). Si tratta di una distinzione analoga a quella cartesiana tra res cogitans (soggetto) e res extensa (oggetto). Anche se Cartesio inseriva nella res cogitans altresì il pensiero, che invece la scuola indiana inserisce nella materia.

Per raggiungere la liberazione dalla sofferenza, obiettivo fondamentale dell’induista, bisogna capire come è fatta la realtà, pertanto il Sāṃkhya espone la sua visione del mondo. Lo spirito osserva le cose che gli si parano avanti, anche se esse non coincidono con lo spirito. La materia non può toccare lo spirito, perché esso è immateriale. Ma lo spirito si immedesima in ciò che osserva, da ciò nasce la sofferenza. Lo spirito, osservando le cose della materia, si crea una falsa identità: si tratta della falsa identità della mente materiale che cerca di capire la differenza tra il vero e il falso, questa parte della mente è detta buddhi. Come un computer che discrimina i dati in veri e falsi ma questo computer non è cosciente, è cosciente il soggetto che guarda il computer. Alla domanda: Chi sono io?, se l’identità non è purificata, essa risponde dicendo che coincide con le cose che osserva, ma come abbiamo detto c’è una distinzione tra le cose e lo spirito che osserva. È come quando siamo al cinema e vediamo un treno proiettato sullo schermo che ci viene contro: la falsa identità crede che il treno possa nuocere all’osservatore, ma è solo una illusione. Il corpo è un elemento della materia, non coincide con lo spirito. Quindi ciò che succede al corpo non può danneggiare lo spirito. La falsa identità crede però che il corpo sia l’osservatore, e quindi ritiene che ciò che accade al corpo possa fargli male, generando sul piano mentale paura e ansia, angoscia e dolore psichico. La sofferenza deriva da una falsa identificazione con la mente-corpo-materia. Pertanto lo spirito deve liberarsi da tutti i condizionamenti della materia. Chi si libera dalla materia, si libera non solo dal dolore ma anche dalla morte. Lo spirito non vive nella materia, che è solo una illusione, ma è immortale.

Il Sāṃkhya classico ha notevoli punti in comune con lo Yoga classico, tanto che formano una coppia. Nei manuali di Yoga ci sono molte imprecisioni, dottrinarie e persino storiche (a volte si confonde Patanjali con un grammatico di qualche secolo prima). Patanjali è vissuto nel II-III d. C. e è l’autore degli Yoga Sūtra, testo che pone avvio alla fase classica della darshana dello Yoga. Ma anche lo Yoga conosce una fase pre-classica, ne abbiamo esempi molto antichi (sembra essere uno degli elementi che costituiscono la più remota civiltà indiana) ed è presente anche nel buddhismo e nel jainismo, le religioni indiane non induiste. Quando il Buddha si allontanò da casa per cercare di risvegliarsi spiritualmente, andò da due grandi maestri di meditazione, i cui insegnamenti pratici di meditazione egli integrò nel buddhismo.

Riguardo la natura del testo di Patanjali, i sūtra sono una forma molto condensata, sono brevi aforismi. Tranne il Sāṃkhya, il cui testo fondamentale della scuola classica, quello di Īśvarakṛṣṇa, si basa sulla forma sanscrita della karika, tutte le altre cinque darshana, tra cui lo Yoga, si affidano ai sūtra. Essi non sono di facile interpretazione in quanto ambigui, quindi venivano accompagnati da importanti commenti, spesso da commenti dei commenti. Ma più ci si allontanava dal testo originale più era facile che i commenti tardi dell’opera di Patanjali si allontanassero dal messaggio originale. Era così importante che i testi delle darshana fossero scritti nei sūtra che anche nel Sāṃkhya ci fu un’opera tarda in sūtra.

Tornando allo Yoga, i sūtra di Patanjali vengono menzionati come un tutt’uno con il loro commento più antico che abbiamo, quello di Vyasa. Nei secoli successivi non abbiamo un solo caso in cui l’opera di Patanjali sia menzionata senza questo autorevole commento. Alcuni studiosi, per spiegare questo strano fenomeno, unico nelle darshana, ipotizzano che Patanjali stesso sia stato l’autore del commento. In sanscrito non esistono le maiuscole, quindi Vyasa può essere sia un nome proprio sia il sostantivo sanscrito che significa “espositore”. Quindi forse la tradizione successiva avrebbe inteso Patanjali Vyasa, “Patanjali Espositore”, come due nomi propri di due persone diverse. Gli studiosi poi ipotizzano che Patanjali non sia stato l’autore dei sūtra, ma li abbia presi da scuole pre-classiche dello Yoga, soprattutto buddhiste, e le abbia collegate in una antologia, facendo però il commento.

Lo Yoga pre-classico, come il Sāṃkhya pre-classico, non era ancora una scuola bensì una metodologia. Nello Yoga pre-classico si trattava di pratiche meditative e psicofisiche che si andavano a integrare in sistemi diversi, come anche il nucleo originario del Vedanta, oltre al buddhismo e al jainismo. Alcuni pensano che lo Yoga pre-classico sia un lascito delle civiltà pre-indiane, in quanto vi è un sigillo della civiltà della Valle dell’Indo (2500 a. C.) in cui c’è un proto-Shiva che siede in posizione meditativa come si fa nello Yoga. Ma per altri non sarebbe una prova, ancora oggi gli indiani siedono così senza meditare. Ma se non vogliamo risalire tanto oltre, i Rishi, i veggenti che hanno composto i Veda (il più antico, il Rig-Veda, risalirebbe al 1.500 a. C., ma contiene materiale più antico), devono fare il vuoto nella caverna della loro mente così da avere la visione-intuizione estatica che li porta a comporre gli inni vedici. Quindi già con questi grandi sapienti abbiamo un accenno alla meditazione yogica. Nell’Atharva-Veda abbiamo accenni alle nadi, le correnti di energia sottile del corpo, molto presenti nello Yoga; abbiamo una dea che va su e giù per la cappa del camino, che fa pensare a un antenato della dottrina yogica della Kundalini, l’energia vitale della persona a forma di serpente attorcigliato alla base della colonna vertebrale che risvegliandosi ascende verso la testa; ma soprattutto nel capitolo XV dell’Atharva-Veda vi è una comunità antichissima di indoeuropei ma non arii, gli Vratya, che conosceva anche i 7 prana, i 7 apana e i 7 vyana, e nello Yoga classico il prana-yama, “il controllo del respiro”, è fondamentale nella pratica, quindi è possibile che lo Yoga abbia attinto da tale dottrina. Non solo, ma certi studiosi hanno osservato come tale comunità si trovava nella zona che sarà del regno del Magadha, che era situato nell’area dove sono sorti il buddhismo e il jainismo, al centro-est dell’India. Pertanto è possibile che da tale comunità lo Yoga pre-classico si sia diffuso nel buddhismo e nel jainismo, ove avrà molta importanza, e da lì sia stato ripreso da Patanjali nei suoi sūtra.

La parola sanscrita “yoga” deriva dalla radice indoeuropea yug, “legare assieme”. Ma solo per alcune forme di Yoga si tratta del legame o ricongiungimento del Sé individuale con il Sé universale, non per tutte (per esempio per l’Advaita Vedanta di Shankara, non dualista, non esiste un Sé individuale, ma solo universale). Ma si tratta di una espressione erronea soprattutto se si riferisce allo Yoga classico, che parte da una base in comune con il Sāṃkhya, cioè la distinzione tra i due principi, la materia e lo spirito. Quindi per lo Yoga classico la liberazione non è intesa come una unione ma come un “isolamento” (kaivalya) del principio spirituale dal principio materiale.

In realtà la radice indoeuropea yug la ritroviamo nel latino iugum e nel nostro “giogo”. Il giogo è un attrezzo che tiene unita la coppia di buoi nello spingere l’aratro nella stessa direzione. Quando nei Veda, i testi più antichi in sanscrito, si usa la parola sanscrita yoga si intende spesso il mettere insieme i cavalli di un carro, i buoi per lavorare la terra con l’aratro, e così via. Quindi nella radice yug non c’è solo l’idea della semplice unione ma del legare insieme: non per nulla negli Yoga Sūtra di Patanjali una radice alla base della pratica dello Yoga che ricorre molto spesso, è yama, “controllare, imbrigliare, unire controllando”. Allora la parola yoga significa unire le energie di per sé sviate per indirizzarle, controllarle, imbrigliarle verso un’unica direzione, la liberazione.

Non per nulla, la base dello Yoga classico sta nel controllo della attenzione: prima di iniziare gli esercizi di meditazione, l’uomo sta in una condizione detta sarva-artha-ta, dove sarva significa “tutto”, artha “oggetto”, ta forma gli astratti, quindi la persona ha la mente confusa in molti oggetti diversi, senza che abbia la attenzione necessaria per meditare. Il primo sforzo di chi pratica lo Yoga classico è quello di indirizzare, controllare l’attenzione per concentrarla nella meditazione. Questo stato di confusione è prodotto dai sensi esterni (siamo distratti dalle cose che vediamo e sentiamo) e da quelli interni (pulsioni, desideri, paure, ansie, ricordi). Lo stato opposto a questa confusione iniziale è detto eka-agrata, “uno” e “punto”: concentrare l’attenzione su un unico oggetto a esclusione di tutto il resto, oppure un solo mantra, un solo pensiero. Lo Yoga non è affatto una ginnastica: gli esercizi fisici e le posizioni devono aiutare la meditazione. Solo meditando e passando alla fine allo stato estremo detto samadhi, “contemplazione”, è possibile separare lo spirito e dalla mente e dal corpo.

Il cristianesimo prospetta, in qualche modo, un percorso per certi versi analogo a quello del Sāṃkhya  e dello Yoga, mediante la dottrina della salvezza dopo la morte: l’anima liberata dai vincoli del corpo viene giudicata individualmente da Dio e, in base alle opere compiute, destinata alla salvezza eterna (paradiso), magari dopo un periodo di purificazione nel purgatorio, o condannata alla dannazione eterna (inferno). Alla fine dei tempi, con il giudizio universale, l’anima acquisirà di nuovo anche il corpo, sebbene trasfigurato spiritualmente o risorto, per una risurrezione beata o una risurrezione infernale.

C’è uno straordinario parallelo tra la dottrina cristiana della risurrezione e quella induista della dīkṣā. Si tratta di una cerimonia iniziatica nella quale l’adepto diventa una divinità, acquisendo anche un corpo speciale, come se in qualche modo fosse risorto. Le chiese orientali pongono molto l’accento sul fatto che la salvezza finale del cristiano, iniziato alla religione mediante il battesimo, sarebbe una sorta di divinizzazione. Ecco le parole del Śatapatha-Brāhmaṇa III. 1. 1. 8: “In verità, chi fa la dīkṣā si dirige verso gli dei; diventa una delle divinità”, che nell’originale sanscrito suona devān vā eṣa upāvartate yo dīkṣate sa devatānām eko bhavati. Secondo una massima sanscrita dell’induismo, “chi non è eguale a un dio non preghi gli dei”, na adeva devam arcayet.

Usando un termine esoterico, l’essere umano è un nexion, cioè un essere che trova la sua piena realizzazione nel mondo spirituale. È nella condizione terrena solo di passaggio, la sua anima deve completarsi pienamente nel mondo spirituale dopo la morte del veicolo fisico.

Tutti i popoli della terra di ogni tempo conoscono i mistici, cioè individui che percepirebbero le energie sottili del mondo, parlerebbero con gli angeli, e sarebbero partecipi di altri fenomeni soprannaturali. La mistica cristiana è un filone pieno di aneddoti, ma anche la stregoneria africana e la magia tibetana, per citarne alcuni, serbano racconti a volte simili. Heindel è stato il mistico statunitense più influente del Novecento, vedeva nientemeno che i Rosacroce, uomini come noi ma grandi iniziati dotati di poteri terribili, i quali gli apparivano come fantasmi e gli insegnavano la dottrina segreta per lo sviluppo dell’umanità. Dai racconti di ogni popolo emerge che l’uomo è qui solamente di passaggio, la sua anima immortale sta qui per purificarsi in attesa della gloria nel mondo spirituale.

Molti santi vedono le anime del purgatorio che chiedono preghiere contando sulla loro grande potenza di intercessione, e viceversa. I mistici vedono anche le anime dei defunti che, prima di andare nell’oltretomba, per qualche giorno vagano invisibili agli occhi dei più nella dimensione terrena, spesso senza accorgersi di essere morti. La Beata Speranza di Gesù è stata una mistica morta in Umbria nel 1983 che venne aiutata nella costituzione del Santuario a Collevalenza da un vescovo di Todi, la cui anima comparve nella chiesa del Santuario al primo banco il giorno del funerale prima di essere ammessa in Cielo. Secondo la sapienza egiziana i morti da gran tempo ritornerebbero sulla terra e starebbero tra i vivi, sotto mentite spoglie, per aiutarli. Il buddhismo conosce il fenomeno di quelle anime che hanno raggiunto la liberazione ma anziché estinguersi restano in questo mondo materiale per aiutare i vivi. Molti mistici vedrebbero anche le anime delle persone vive le quali potrebbero uscire momentaneamente dal corpo, senza nessuna relazione con la morte, come del resto avverrebbe ordinariamente nei sogni, nei quali le anime dei vivi si incontrano in altre dimensioni mentre il corpo dorme, e a volte fanno loro visita anche le anime dei defunti per guidare o chiedere preghiere. Molti defunti diventerebbero anche guide invisibili dei vivi: li seguirebbero per proteggerli come fossero angeli custodi, ma diversi dai puri spiriti, che esisterebbero anch’essi.

Castaneda scriveva che molti puri spiriti o angeli starebbero tra i vivi in apparente forma umana, questo autore diceva che gli sciamani imparano a vederli, queste entità spirituali avrebbero in qualche modo la testa a forma di uovo. Sono tra noi per aiutarci. Gli sciamani sarebbero in grado coscientemente di liberare per un certo periodo la loro anima dal corpo e vagare invisibili nel mondo, entrare nei corpi delle persone ignare, possedere le persone a cui vogliono nuocere, entrare nei sogni, per poi ritornare nel proprio corpo. Anche Plutarco riferiva storie simili, quando lo iatromante Timarco volle consultare l’oracolo: scese nella grotta due notti e un giorno, durante questa esperienza si sentì toccare la testa da un colpo, quindi avvertì la sua anima fuoriuscire dalla testa e vagare tra i mondi non terreni sentendo le varie melodie, fino a che al termine del viaggio fuori dal corpo l’anima non venne ricompressa dolorosamente nel corpo. Si parla in merito di “viaggio sciamanico”, tema comunissimo nelle varie tradizioni religiose e iniziatiche della terra, simile a quello che fece Dante nell’aldilà ancora vivo.  Secondo quanto osserva anche Eliade, lo sciamanesimo è una delle più antiche tradizioni umane, la sua concezione dell’uomo e della realtà si ritrova su tutti i continenti del pianeta, essendo all’origine dei principali sistemi religiosi e spirituali del mondo intero. In tutte le tradizioni il mago sarebbe in grado di andare coscientemente in mondi paralleli: per esempio nella cultura africana il culto di Obi ha come simbolo il Ragno, la cui ragnatela allude al trasferimento dell’entità umana in altre dimensioni. Heindel riferiva come il mago nero fa uscire l’anima dai piedi, invece il mago bianco dalla testa.

Per il cattolicesimo Gesù Cristo è Dio fatto uomo, il quale è anche il Messia degli antichi ebrei. La parola Messia vuol dire in ebraico “unto”, nel senso di consacrato, in quanto coloro che venivano eletti a particolari missioni, come i re e i sacerdoti, erano unti con l’olio della consacrazione. Pertanto anche il Messia, ancora atteso dagli ebrei, avrà una importante missione di salvezza, allora sarà unto. La parola Cristo deriva dal greco e significa ugualmente “unto”. Per il cattolicesimo quindi il Messia, Gesù Cristo, Seconda Persona della Trinità, ha la unzione dello Spirito Santo, Terza Persona della Trinità, il quale lo ha consacrato per la missione affidata dal Padre, Prima Persona della Trinità: la salvezza del genere umano. La Trinità è l’unico Dio ma in tre Persone. Non sono tre dei, ma un’unica divinità misteriosamente e incomprensibilmente costituita da tre Persone divine, le quali non dividono la sostanza divina.

Nella incarnazione della Seconda Persona della Trinità c’è l’opera di tutta quanta la divinità: questa Persona viene tra noi, “pose la tenda (skēnē) tra di noi” (eskēnōsen en ēmin), come afferma letteralmente Vangelo di Giovanni 1, 14; lo Spirito Santo lo fa concepire nel grembo verginale di Maria, che è restata vergine prima, durante e dopo il parto; il Padre ha deciso l’incarnazione, ha inviato il Figlio.

Nel Vangelo di Luca 1, 32 è scritto che Cristo, incarnato in Maria, sarà grande (ciò che è), sarà chiamato Figlio di Dio (rapporto con Dio), avrà il trono di Davide. Quest’ultimo è il rapporto con gli uomini, cioè il suo essere Messia, la sua missione sulla terra, in quanto gli ebrei lo attendevano come discendente del re Davide, un glorioso re di Israele: il Messia doveva liberare Israele dalla dominazione romana e instaurare un regno autonomo. Con il tempo la speranza messianica si è evoluta e il Messia è diventato con il cristianesimo nientemeno che Dio.

Nel Vangelo di Luca 1, 35 è scritto di Cristo: “quello che nascerà santo sarà chiamato Figlio di Dio”, in greco abbiamo to gennōmenon agion klēthēsetai uios theou. Questa traduzione (diversa da quella corrente della CEI) mette in evidenza come il Messia nasce “santo”, cioè consacrato, unto, in quanto concepito per opera dello Spirito Santo.

Cristo realizza la salvezza dell’umanità morendo in croce in espiazione dei peccati di ogni uomo. Dio libera l’umanità dalla colpa del peccato mediante la sua morte in croce, ottenendo in questa maniera l’entrata in paradiso di ogni uomo che aderisce al messaggio evangelico. Il Concilio Vaticano II ha messo in evidenza come la salvezza di Cristo riguarda ogni uomo, che se segue la legge naturale iscritta nel suo cuore può salvarsi, sebbene appartenga ad altra religione o a nessuna.

Ogni battezzato viene unto con l’olio consacrato mediante un segno di croce sulla fronte e immerso nell’acqua che simboleggia il lavacro dai peccati. “Battesimo” deriva da un verbo greco, baptizein, intensivo di baptein, “immergere”. La missione di ogni battezzato è quella di promuovere il regno di Dio nella triplice dignità di re, di sacerdote e di profeta. Il sacerdote cattolico che può dire la Messa è investito del sacerdozio ministeriale, ma ogni battezzato partecipa al sacerdozio. La unzione o consacrazione, quindi, è l’inizio della vita cristiana ma anche il fine ultimo, che si completa solamente in Cielo.

Per il cristianesimo ogni grazia che Dio Trinità concede agli uomini è mediata dalla intercessione della Vergine Maria, la Madre di Dio e la Madre di Cristo, pertanto la Madre della Chiesa, corpo mistico del capo che è Cristo. Per questo Paolo VI diceva che non si è cristiani se non si è mariani. Il santo de Montfort riconosceva tre gradi di mariani: chi prega a volte la Madonna; lo è di più chi recita ogni giorno il Santo Rosario; ma lo è ancor di più chi si consacra a Maria.

I vangeli affermano che è Cristo morì in croce prima che il soldato romano (che la tradizione chiamerà Longino) gli avesse attraversato il costato con il colpo di lancia, dal quale fuoriuscirono sangue e acqua (liquido linfatico). Un cadavere non sanguina, quindi gli studiosi ritengono che Cristo fosse soltanto in coma prima del colpo di lancia al fianco sinistro, dopo il quale morì. I Padri della Chiesa hanno interpretato quel sangue e quell’acqua che scaturirono dal costato trafitto come i sacramenti della salvezza cristiana. Pertanto dalla croce di Cristo e soprattutto dalla effusione del sangue e dell’acqua provengono ai cristiani che ricevono i sacramenti, il perdono dei peccati, la assunzione a figli di Dio e la vita eterna.

Nel Vangelo di Giovanni 19, 25-27, Cristo in croce, prima di morire, affidò Maria al discepolo Giovanni e Giovanni a Maria: questa scena evangelica è stata interpretata dai santi come l’affidamento della chiesa tutta a Maria. Il Cuore Immacolato della Santa Vergine forma i cristiani: tra la grazia santificante che proviene dal Cristo e gli uomini vi è la mediazione di Maria Santissima.

“Vicino la croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria Maddalena” (Vangelo di Giovanni 19, 25): sant’Ambrogio diceva di leggere che Maria stava presso la croce ma non che piangeva. Questa del santo di Milano è una espressione da meditare. Paul Claudel scriveva che Maria aveva da fare altro che piangere in quanto doveva ricevere la chiesa tra le sue braccia, e lo fece con gioia. I teologi dicono anche che Maria presso la croce del Figlio con gioia si era offerta in unione al sacrificio dell’Uomo-Dio.

Il cristianesimo, ma pressoché tutte le altre religioni, affermano che nel mondo vagano dei demoni o diavoli per rovinare l’uomo. Per il cristianesimo il capo dei demoni è Satana, il quale era il più grande degli angeli ma si ribellò per superbia a Dio e per invidia dell’uomo ha introdotto la morte e lo vuole distruggere anche mediante l’ausilio degli altri diavoli, gli altri angeli ribelli. Il cristianesimo desume questa vicenda dall’Antico Testamento e dai libri apocrifi.

Nel Libro della Sapienza (2, 24), delizioso testo dell’Antico Testamento redatto in greco, è scritto: phthonōi de diabolou thanatos eisēlthen eis ton kosmon, peirazousin de auton oi ekeinou meridos ontes. La CEI traduce così: “Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, ne fanno esperienza coloro che gli appartengono”. Quindi, in base a questa traduzione, coloro che appartengono al diavolo (ekeinou = diavolo) fanno esperienza (peirazousin) della morte (auton = morte). Però Scarpat nel suo importante commento al libro biblico ritiene che il testo non parli della morte fisica derivata dal peccato originale di cui parla la Genesi, bensì di quella spirituale, cioè di quella derivante dal peccato in genere. Allora attribuisce ekeinou a morte, mentre attribuisce auton a mondo, e intende che coloro che appartengono alla morte, cioè che sono morti per via del peccato in quanto fanno le opere del diavolo, mettono alla prova (peirazousin) il mondo, cioè lo attaccano come fanno i diavoli.

Dalla Genesi sappiamo che il serpente, simbolo del demonio, ha fatto peccare Adamo e Eva. Ireneo di Lione (Contro le eresie III, 23, 1) insegnava che Dio non ha abbandonato l’uomo dopo il peccato originale in quanto lo ha creato a sua immagine e somiglianza, ma gli ha dato un tempo nel quale viene punito (la vita terrena, valle di lacrime) per poi essere salvato dalla grazia di Cristo. “Fu fatto prigioniero a sua volta da Dio colui aveva fatto prigioniero l’uomo (il diavolo che lo indusse al peccato), mentre fu liberato dai vincoli della condanna l’uomo che era stato fatto prigioniero”.

Gli angeli e i diavoli sono puri spiriti: non avendo un corpo scelgono tra bene e male in un istante, quindi in un istante diventano angeli oppure i loro avversari (diavoli). Giovanni Crisostomo (De diabolo tentatore PG 49, 259-262) spiegava come il diavolo non è malvagio per natura ma per intenzione del suo animo. Massimo il Confessore (Quaestiones ad Thalassium 11, PG 90, 291-292) rilevava come “le catene eterne provengono dalla loro volontà e dal loro animo, con i legami da ogni parte e con l’inerzia e l’assenza di movimento verso il bene; per cui non è loro concesso di essere giammai partecipi della beatitudine divina”. È il diavolo che ha scelto di stare contro Dio e quindi si comporta male, e lo ha deciso in un solo istante. Invece l’uomo ha un corpo, questo appesantisce l’anima a tal punto che, per scegliere tra bene e male, è necessaria tutta l’esistenza terrena. Inoltre Taziano (Discorso ai Greci) scriveva che per i diavoli “il peccato diventa sempre più grande a causa di una vita senza fine”, mentre i seguaci dei diavoli (gli uomini malvagi) muoiono e morendo smettono di peccare, anche se poi riceveranno una immortalità dolorosa (inferno): pertanto per Taziano i diavoli riceveranno una condanna maggiore rispetto agli uomini, che smettono di peccare con la fine della vita terrena.

Gli angeli sono creature spirituali, puri spiriti disincarnati, mentre l’uomo ha una sostanza spirituale (anima) assieme al corpo materiale. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I, 50, 1): “È necessario ammettere delle creature incorporee. Infatti ciò a cui mira principalmente Dio nella creazione è il bene, che consiste in una rassomiglianza con lui. Ora, l‘effetto assomiglia perfettamente alla causa quando la imita proprio in ciò che serve ad essa per produrre l‘effetto: come quando un corpo caldo rende caldo un altro corpo. D‘altra parte Dio produce la creatura per mezzo dell‘intelletto e della volontà, come fu spiegato a suo tempo. Quindi la perfezione dell‘universo richiede che vi siano delle creature intellettuali. Ma l‘intellezione non può essere l‘atto di un corpo né di alcuna facoltà corporea: ogni corpo infatti è limitato nello spazio e nel tempo. Ne segue quindi che, perché si abbia la perfezione dell‘universo, è necessario ammettere l‘esistenza di qualche creatura incorporea. Gli antichi [filosofi] invece, ignorando la portata dell‘intelligenza, e non sapendo distinguere l‘intelletto dal senso, credettero non esservi al mondo nient‘altro all‘infuori di ciò che cade sotto il dominio dei sensi e dell‘immaginazione. E siccome sotto l‘immaginazione non cade altro che il corpo, opinarono che non vi fosse altra realtà che il corpo, come riferisce appunto Aristotele (Fisica 4, cc. 6, 7). E da questi stessi motivi ebbe origine l‘errore dei Sadducei, che ‘negavano l‘esistenza degli spiriti’ (cf. Atti 23, 8). — Invece per il fatto stesso che l‘intelletto è superiore al senso si deve ragionevolmente concludere che esistono delle sostanze incorporee, conoscibili solo dall‘intelletto”.

Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I, 51, 1): “Gli angeli non possono essere uniti naturalmente a dei corpi. Infatti ciò che conviene a una natura accidentalmente non si trova universalmente nella natura stessa. Come avere le ali, non essendo una caratteristica essenziale dell‘animale, non appartiene a tutti gli animali. Ora, poiché l‘intendere, come vedremo, non è un‘operazione del corpo né di alcuna facoltà corporea, la sostanza intellettiva, in quanto tale, non richiede essenzialmente di essere unita a un corpo; ma ciò può capitare a qualche sostanza intellettiva per altri motivi. All‘anima umana, p. es., si addice di essere unita al corpo poiché è imperfetta, ossia in potenza, in quanto sostanza intellettiva: essa infatti, come vedremo in seguito, non possiede per natura la pienezza della conoscenza, ma deve acquistarla dalle realtà sensibili per mezzo dei sensi corporei. Ora, se si trova in un dato genere alcunché di imperfetto, bisogna che preesista un modello perfetto di quello stesso genere. Vi saranno quindi delle sostanze intellettive, perfette quanto alla loro natura intellettiva, che non hanno bisogno di ricavare la loro conoscenza dalle realtà sensibili. Quindi non tutte le sostanze intelligenti sono unite a dei corpi, ma ne esistono alcune del tutto separate. E sono appunto quelle che noi chiamiamo angeli”.

In un noto testo di Qumran, la Regola della Guerra, è scritto che alla fine dei tempi ci sarà una grande battaglia tra i figli della luce e i figli delle tenebre, i primi malediranno il capo dei diavoli, chiamato Belial, con queste parole: “Sia maledetto Belial nel suo disegno ostile, sia esecrato nella sua colpevole dominazione! Siano maledetti tutti gli spiriti del suo partito nel loro disegno malvagio! Siano esecrati in ogni opera immonda della loro impurità, poiché essi sono il partito delle tenebre, mentre il partito di Dio è per la luce eterna”. Si tratta di un noto tema della letteratura apocalittica: nell’Apocalisse la battaglia finale è chiamata Armagheddon, che deriva dall’ebraico “monte (ar) di Meghiddo”. Meghiddo era una città vicino orientale dalla posizione strategica nella quale, per il suo controllo, si scatenarono lungo la storia innumerevoli battaglie, quindi venne presa dall’autore dell’Apocalisse come il modello del luogo della carneficina finale.

Il “combattimento spirituale” è il “martirio bianco” che ogni cristiano deve intraprendere contro i diavoli, ma anche contro la carne e contro il mondo, per ottenere la salvezza, rifiutando le tentazioni e la concupiscenza e seguendo la legge di Dio. Il “martirio rosso”, cioè quello di sangue, è una grande grazia che Dio concede solo a poche anime elette per testimoniare la fede e aderire fino alla fine al cristianesimo (“martire” deriva dal greco e significa “testimone”).

Per questo nella vita occorre avere discernimento, termine tecnico che significa giusta valutazione di ciò che accade. San Bernardo diceva che il discernimento è un “cielo raro”, perché è facile incappare negli inganni di Satana e dei diavoli, specie oggi che almeno in Occidente sembrano scomparsi. Ma da più parti si dice che il grande inganno dei diavoli fatto all’uomo moderno è di far credere che essi non ci siano, cosicché questi sia meglio attaccabile. Una vipera è lenta nei movimenti, ma è pericolosissima quando non la si vede, nascosta nel fogliame.

Il Vangelo di Giovanni (8, 44) rivela che il diavolo è mentitore e omicida dall’inizio. Ha quindi due armi per nuocere all’uomo: suscitare idee false su Dio e gli uomini (tentazioni, ossessioni, falsa profezia) e recare loro danno con la violenza (vessazioni, possessioni, omicidi, come quando Satana uccise i figli di Giobbe). Ma non bisogna temere il diavolo e gli altri spiriti maligni, la loro è una fala forza. Tertulliano (Apologia del cristianesimo XXVII 2-7) insegnava che i diavoli temono l’uomo per via della predilezione verso di lui che ha Cristo: “Benché la violenza dei demoni e degli spiriti di quel genere sia a noi soggetta, tuttavia, proprio come gli schiavi, essi alternano talora la paura alla ribellione e tentano di far del male a coloro che in altre circostanze temono (giacché il timore suscita anche l’odio)”.

Il cristianesimo afferma che ogni opera compiuta dai diavoli avviene con il permesso di Dio, il quale li lascia agire “ad agonem”, come scriveva il Concilio di Trento, cioè affinché il cristiano faccia la santa lotta contro le insidie e le malvagità del diavoli per vincerli – oltre che per i meriti di Cristo, senza il quale non è possibile fare nulla –  anche con la propria, personale, opera buona. Dio ha creato l’uomo libero di scegliere il bene e libero di scegliere il male. Dio non vuole degli automi ma persone che lo scelgano liberamente e che quindi combattano la buona battaglia contro le insidie del diavolo per dimostrare la piena adesione a Dio. Giustino (Apologia I, 28) scriveva: “In principio Dio ha creato il genere umano dotato di ragione e capace di scegliere liberamente la verità e di comportarsi bene, per cui non c’è alcuna scusante per tutti gli uomini dinanzi a Dio: sono nati infatti razionali e riflessivi. E se qualcuno non crede che Dio si preoccupi di loro, o sarà costretto con errori ad ammettere che Dio non esiste, o che, se esiste, o ama il male, o è indifferente come una pietra, che virtù e vizio non sono niente, e che giudicare le cose beni o mali riguarda solo l’opinione degli uomini: ebbene, questa è l’empietà e l’ingiustizia più grande che ci possa essere”.

Ignazio di Antiochia (Filadelfiesi VI, 2) scriveva: “Fuggite le male arti e gli inganni del principe di questo mondo. Oppressi dal suo spirito non dovete mai indebolirvi nell’amore, ma siate tutti uniti in un cuore indiviso”. Nella Epistola dello Pseudo-Barnaba (IV) è scritto: “Perché il diavolo non penetri di nascosto, fuggiamo ogni vanità e detestiamo definitivamente le opere della via cattiva … Diventiamo spirituali, diventiamo un tempio di Dio. Per quanto è in noi curiamo il timore di Dio e lottiamo per osservare i suoi comandamenti, per gioire dei suoi giudizi”.

Atenagora (Supplica per i cristiani) insegnava che i diavoli sono gli spiriti della materia, che possono influire sull’anima umana attraverso dei moti irrazionali. “I moti irrazionali e fantasiosi dell’anima circa queste manifestazioni assumono dalla materia ora una immagine ora un’altra e se le formano e concepiscono da sé stessi. L’anima soggiace a questo fenomeno soprattutto quando riceve in sé lo spirito della materia, compenetrandosi con esso; e guardando non più alle cose celesti e a Colui che le ha fatte, ma in basso verso le cose terrene, si trasforma completamente in carne e sangue e non più in spirito puro. Onde questi moti irrazionali e fantasiosi dell’anima” producono i peccati, specie nel popolo ignorante.

Il cammino spirituale nasce con la conversione, cioè con la adesione con tutto il cuore a Dio e ai suoi comandamenti. I Padri orientali dicevano che la conversione è un ritornare a casa. In ebraico la conversione è espressa da un termine che significa anche ritorno, si tratta della radice šwb. Nell’Antico Testamento il verbo e i sostantivi derivati hanno diffusione straordinariamente ambia. Solo il verbo ha 1050 attestazioni. La radice è frequente anche nelle altre lingue semitiche. Per fare un solo esempio, in aramaico è significativa la locuzione wk’t hšbw ‘lhn šjbt bjt ‘bj, “ora gli dei hanno restaurato la mia dinastia paterna”, dove la restaurazione è un ritorno alla condizione precedente.

Il nostro ritorno alla casa del Padre è ostacolato da mille insidie. Per esempio siamo spiazzati di fronte al male e siamo tentati di dire che Dio non esista. I Padri della Chiesa affermavano che la sofferenza è un dono in quanto ci fa ascoltare la voce di Dio. La parola “castigo” deriva da “casto”, in quanto ci purifica, cioè ci allaccia di nuovo a Dio. È il mistero del male. Dio si è incarnato nella nostra materia e quindi anche nel male e ha benedetto ogni cosa. Quindi persino il male diviene strumento di salvezza. Dio trae il bene dal male.

Non solo il male ci avvicina al Sé, cioè alla nostra natura più intima, nella quale è presente Dio, cioè il fondo dell’anima. Spesso le persone riscoprono la spiritualità dopo una malattia. Quella sofferenza è una vocazione ad amare di più. In essa scoprono Dio o lo riscoprono.

Ma il male, secondo il cristianesimo, ci unisce a Cristo in maniera singolarissima quando offriamo a Dio le nostre sofferenze. Molti santi sono stati Anime-Vittima, cioè hanno chiesto a Dio la croce per il perdono dei propri peccati e per redimere gli uomini colmando ciò che manca alla redenzione di Cristo. E sono stati esauditi.

La carta dei Tarocchi chiamata Appeso nasconde questa grande verità: una persona torturata ma gioiosa. È la Via di Mem, come dicono i cabalisti. La cabala insegna che Dio ha creato solo la Luce, cioè solo sé stesso. Siamo noi che non capiamo che tutto è una manifestazione di Dio, anche ciò che sembra non esserlo, come il dolore. Il dolore è una Via scelta da Dio per manifestare sé stesso, come ogni altra cosa che c’è e che accade. I santi cristiani dicono che “tutto è grazia”. Nella Messa cattolica si proclama che è buono e giusto ringraziare sempre e in ogni momento Dio. Rivelazioni private insegnano che Dio è l’Amore in persona, noi siamo racchiusi nelle sue viscere misericordiose più di un bambino nel grembo di sua madre. Ogni cosa che accade è dono della sua inconcepibile misericordia. Anche ciò che sembra male, in realtà, è un bene che noi non riconosciamo come tale perché ci siamo persi dietro le apparenze.

I santi dicono di aver incontrato Dio e di aver capito come ogni loro singolo avvenimento sia deciso da Dio in persona. Quindi affidano totalmente a Dio la propria vita aderendo perfettamente alla invocazione del Padre nostro: “Sia fatta la tua volontà”. Scoprono che la volontà di Dio è amore e misericordia e che la obbedienza è la vera libertà. E conquistano ciò che i Padri greci chiamavano apatheia, che alcuni traducono con “santa indifferenza”. Dopo essersi affidati totalmente a Dio, diventano invulnerabili al dolore, in quanto lo scoprono come una manifestazione di Dio.

Nella mistica cattolica esiste la trasverberazione, quando un angelo o Cristo trafigge il cuore del santo con un dardo o una lancia. Il significato più recondito di questo gesto spirituale è quello di staccare il mistico dagli affetti terreni per indirizzarli totalmente a Dio. Da Dio siamo nati e a lui dobbiamo ritornare abbandonando ogni cosa. Anche il cuore deve diventare puro e amare Dio sopra ogni cosa fino a che non diventiamo “indifferenti verso tutte le cose create”, come diceva Sant’Ignazio di Loyola.

Bisogna amare il prossimo, come Paolo che si era fatto “tutto a tutti”, tois pasin panta, 1Corinzi 9, 22. La grazia del battesimo esige che il cristiano si impieghi per il bene della chiesa e di ogni fratello. Ma, alla fine, bisogna riconoscere che ogni amore umano è imperfetto. Imitazione di Cristo II, 7: “L’amore delle creature è ingannevole e instabile, l’amore di Gesù è fedele e costante. Chi si attacca alla creatura cade con la cosa caduca, chi abbraccia Gesù resta stabile in eterno”, dilectio creaturae fallax et instabilis, dilectio Jesu felix et perseverabilis. Qui adhæret creaturae, cadet cum labili, qui amplectitur Jesum, firmabitur in Eum. In un altro classico medioevale della spiritualità cristiana, La nube della non conoscenza (IX), si esorta l’anima devota in questa maniera: “Lascia che Dio attiri il tuo amore a quella nube e cerca, con l’aiuto della sua grazia, di dimenticare ogni altra cosa”.

Nell’induismo l’amore per la divinità è detto bhakti. “Colui che ottiene la bhakti non desidera altro, né si lamenta, né prova odio, né si rallegra per altre attività”, yat prāpya na kiñcid vāñchati na śocati na dvesti na ramate notsāhī bhavati (Nāradabhaktisūtra 5). Il Corano (2, 165) rivela: “Coloro che credono, più di loro stessi amano Dio”, wa-alladhīna āmanū ashaddu ḥubban lillahi.

A questo punto la celebrazione della Messa non è solo l’offerta di Cristo al Padre nelle specie del pane e del sangue, ma l’offerta di ogni battezzato che dona la propria vita a Dio. Ogni avvenimento e ogni dolore è accettato e offerto in obbedienza perfetta alla volontà di Dio, amato sopra ogni cosa e sopra sé stessi.

Ogni Messa è importantissima. San Pio da Pietralcina diceva che Dio ha ancora pazienza verso l’umanità peccatrice per via della Messa. I mistici vedono che durante l’Offertorio della Messa l’angelo custode del fedele si stacca dal fianco sinistro e procede verso l’altare per presentare a Dio l’intenzione della celebrazione.

I miracoli esistono in tutte le religioni del mondo, altrimenti le persone non vi crederebbero. Il primo miracolo è la rivelazione originaria che fonda la religione, poi ci sono altri prodigi che corroborano la fede. Come si spiegano? Per alcuni sono tutte fantasie. Per altri esiste una sola religione vera e per il resto si tratta solo di inganni demoniaci. Per altri ancora Dio sceglie sempre di rivelarsi in ogni religione. La persona che ama Dio ha la stessa dignità qualsiasi religione professi.

A questo punto, bisogna chiederci: Cosa è la verità? La verità non è un pensiero ma è un atto di amore verso Dio. La verità è l’amore verso la sua volontà su di noi. Il senso della vita non possiamo trovarlo meditando una verità astratta ma abbracciando la volontà di Dio, anche la croce.

Il dolore altro non è che la tensione che ci strappa dall’egoismo per farci amare Dio. La vera scienza quindi è quella della croce, come diceva Edith Stein, che da ebrea divenne suora cattolica e quindi santa. San Francesco diceva che non c’è libro migliore della croce. Dio incarnandosi ha trasformato il mondo in luce, come scriveva Scoro Eriugena.

Anche il dolore è stato trasfigurato. La parola greca euanghelion è antica e la usava già Omero ma il senso prevalente era “ricompensa per una buona notizia” (Odissea 14, 152). Più significativa è la iscrizione di Priene (Asia Minore) del 9 a. C., una specie di calendario ove si legge che il giorno della nascita di Augusto fu l’inizio dei “buoni annunci”. Ma l’Antico Testamento nella versione greca dei LXX usava il verbo greco “evangelizzare” per tradurre l’ebraico basser, “annunciare un lieto messaggio”. In questo senso il Nuovo Testamento quando parla di “vangelo” si riferisce alla buona notizia annunciata da Gesù (per poi indicare il vangelo come genere letterario). Qual è questa buona notizia? Cosa è venuto ad annunciare Cristo? La sconfitta della morte e del dolore. Vangelo di Matteo 11, 28: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò sollievo”. Vangelo di Giovanni 6, 51: “Il pane che io vi do è la mia carne, per la vita del mondo”. Vangelo di Giovanni 6, 56: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e io in lui”.

Nel cammino spirituale ci sono molti ostacoli, uno dei più grandi è la superbia, è quello di credersi arrivati smettendo di riconoscere che Dio è tutto. Origene diceva che la superbia si ha quando si mette il proprio io al posto di Dio e fu il primo peccato di Satana, che determinò la sua caduta. San Basilio approfondisce questo pensiero dicendo che Satana fece cadere l’uomo con la superbia insinuandogli l’idea di poter essere come Dio. Giovanni Crisostomo asseriva che il diavolo attacca le persone buone spingendole all’autocompiacimento e a cercare l’applauso della gente. Evagrio Pontico distingueva la superbia in vanagloria (vanità eccessiva senza giustificazione nei fatti, che spinge l’uomo di virtù a far conoscere le proprie opere buone per essere applaudito) e in orgoglio (più radicale, spinge l’uomo di virtù a vedersi la causa della propria santità). Questo autore riconosceva che la superbia è una ulteriore tentazione di chi è alla fine del cammino spirituale e si avvicina alla santità. Agostino fa una analisi vastissima dell’orgoglio. Questo Padre della Chiesa sosteneva che ogni creatura dotata di ragione (angelo e uomo) è naturalmente portata a compiacere sé stessa perché è la più perfetta: questa tendenza, che non è cattiva, costituisce un pericolo quando la creatura non tiene conto della perfezione di Dio, ancora maggiore, e allora la creatura, non conoscendo Dio, vi si sostituisce, ed è tale l’origine dell’orgoglio. Per Agostino l’orgoglio è principio e causa di tutti i peccati e di tutti i vizi. Tommaso d’Aquino diceva che l’uomo desidera la pienezza e la realizzazione di sé stesso, cioè la propria perfezione: questo non è un male, ma lo diventa quando sconfina nella esaltazione di sé, al di là del buon senso, e questo è l’orgoglio.

Esistono dei valori che la filosofia chiama trascendentali, cioè che sono in ogni ente e non nella mente, non mutano nel tempo. Essi sono Vero, Bello, Buono. La verità consiste nel guardare alla cosa per quella che è in relazione all’essere effettivo che possiede, senza aggiungere né togliere nulla. E la giustizia consiste nel riconoscere ad ogni ente il livello di vero che gli appartiene. Per il filosofo stoico greco Crisippo di Soli il vero “è ciò che esiste davvero”, kat’autous to uparchon (fr. 195 von Arnim). In questo senso l’umiltà è una forma di giustizia verso sé stessi e gli altri, l’orgoglio invece è una forma di folle ingiustizia, una falsa visione di sé e degli altri.

Secondo il dogmatismo ci sono verità assolute, secondo lo scetticismo non è possibile conoscerle o non ci sono. Una posizione intermedia è costituita dal probabilismo, per il quale non esiste un criterio unico per la verità: non è possibile conoscere la verità assoluta, ma è possibile basarsi solo sui dati probabili. Il probabilismo etico, sostenuto dai gesuiti del XVII secolo, riconosceva una morale individuale: nel caso di dubbio, si diceva che bisogna affidarsi alla coscienza come dato probabile da seguire.

Ma i santi riconoscono che la verità non la si pensa, ma la si ama. La verità non è un oggetto da indagare ma una relazione. È l’abbraccio tra noi e il mondo, unico per ogni persona. La verità è Dio. I santi, che scoprono Dio, riconoscono semplicemente che la verità sta nel seguire e amare Dio con tutto il cuore. Solo chi non ha incontrato Dio può ancora cercare la verità assoluta. Chi ama Dio sa che la verità assoluta consiste nell’aderire alla sua volontà, rimane spazio solo per le verità relative.

Il paganesimo ricercava spesso la verità nel mondo delle cose materiali. Significativo che per uno stoico romano minore, Cornuto, gli dei, in greco theoi, erano identificati come astri, e il termine greco veniva spiegato dal verbo greco thein, “correre”, perché gli astri si muovono. Anche nel Vicino Oriente antico gli dei erano spesso identificati con i fenomeni della natura, come il sole o la luna.

Ma il mondo della materia è sempre una manifestazione di Dio e Dio può manifestarsi visibilmente anche da una realtà inanimata, come quando Mosè vide il roveto ardente. Giordano Bruno si stupì quando osservò una corda diventare un serpente. Dio è presente in ogni dove e tutto obbedisce alla sua volontà. Sin dai tempi più remoti gli antichi vedevano segni particolari nei cieli, come le eclissi o oggetti volanti, e pensavano che erano opera delle divinità.

Nonostante ogni manifestazione, Dio resterà sempre un mistero per la mente umana. Cusano nell’opuscolo “Il Dio nascosto” faceva dire al cristiano: “Proprio perché ignoro, adoro”, quia ignoro, adoro. La verità non si può cogliere con la ragione discorsiva, la si può solo amare. Per la sapienza indiana il dio più grande, Prajapati, è avvolto nell’ignoto: esso è indicato da una domanda senza risposta, in sanscrito Ka: Chi. Nonostante questo l’onnipotenza divina è quanto di più efficace ci possa essere, Dio ci è più vicino della nostra aorta, wanaḥnu aqrabu ilayhi min ḥabli l-warīdi, recita il Corano 50, 16. Già Plotino (Enneadi II, 3, 7) diceva: “Tutto nel mondo è pieno di segni … le cose dipendono l’una dall’altra … tutto cospira”.

Secondo la tradizione ebraica la Presenza (Shekinah) di Dio si manifesta nella storia in 36 Giusti (Tsadikkim). Ogni generazione conosce la presenza di 36 Giusti dalla cui condotta dipende il destino dell’umanità. La fonte di questa dottrina si trova in un passo del Talmud di Babilonia. Gli ebrei chiamano questi uomini eletti con l’espressione yiddish Lamedvavnikim: è formata dalle due lettere dell’alfabeto ebraico, la Lamed ha valore numerico 30, la Vav 6.

Per gli ebrei Dio è conosciuto anche come El Shadday, l’Onnipotente (Genesi 14, 18). Gli studiosi hanno proposto diverse possibili etimologie del termine Shadday. Partendo dall’ugaritico ‘ttrt sd, “Astarte dei campi”,  Weippert risalì a un ipotetico El Shadaj, “dio dei campi”, che venne dimostrato solo dopo da Loretz che indicò un testo in cui compare 3l shd jṣd, “El dei campi, che caccia”. Per Delitzsch l’ebraico Shaddaj sarebbe da collegarsi con l’accadico sadu, “monte”, quindi El Shaddaj significherebbe Dio dei monti. Altri danno come significato originario di Shaddaj quello di “seno, mammella”, quindi Dio con i seni, in relazione alle divinità cananee della fertilità. C’è chi ha pensato a una associazione tra Shaddaj e l’accadico sedu, “demone”, nel senso di un dio che protegge dai demoni. Redford richiama l’egiziano shdj, “salvare”, quindi si tratterebbe di un dio che salva. Nella iscrizione di Tell Deir ‘Alla, che va assegnata all’israelitico della Transgiordania con sfumatura aramaizzante, compaiono i shdnj che tengono una assemblea; in parallelo c’è la menzione degli dei ‘lhn: sulla base di tale parallelismo si ammette l’identità di shdnj e ‘lhn, che apparterrebbero però a due gruppi diversi di divinità. Poi nelle iscrizioni thamudene si menziona una volta una divinità El shdj: alcuni hanno suggerito una etimologia di questo termine shdj dall’arabo shdd, “essere forte”. In una iscrizione palmirena il dio principale di Palmira, Bel, sembra associato a un dio chiamato shdj’, per Müller da collegarsi agli dei shdnj dell’iscrizione di Tell Deir ‘Alla, invece per Knauf da collegarsi all’accadico sedu, “demone”.  In ogni modo, nonostante queste proposte, l’etimologia risulta ancora incerta.

Però i mistici ebraici affermano che da El Shadday si forma la formula ebraica She day, “che basta”. Quindi Dio è colui che è sufficiente a sé stesso, che basta a sé stesso, incondizionato. Ma, come affermano i teologi cristiani, Dio si stancò della sua solitudine e per amore creò l’uomo.

In un testo ritrovato a Qumran, 4Q504, Dio pose l’uomo nell’Eden, “terra di gloria” (‘rṣ kbd). Dio, “secondo la somiglianza della sua gloria” (bdmwt kbwd), ha dotato l’uomo di un’anima vivente in modo da conseguire “intelletto e conoscenza” (bjnh wd’t).

In ebraico Eden non significa solo “giardino” ma anche “delizia”, quindi la parola indica altresì quel giardino primordiale nel quale l’uomo era beato, cioè il paradiso terrestre. La radice è condivisa con varie lingue semitiche: arabo gadan, “moltezza, vita agiata”, e poi “essere rigoglioso, abbandonate”; palmireno ‘dn, “destino favorevole”; medio ebraico ‘iddunim, “divertimenti”; aramaico antico ‘dn pa. “far crescere, rendere fertile, donare abbondanza”.

La condizione originaria dell’uomo, che poi è caduto e quindi venne scacciato dal paradiso terrestre, si ripristina con l’amore a Cristo, Via, Verità e Vita, ē odos kai ē alētheia kai ē zōē (Vangelo di Giovanni 14, 6).

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 42 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

Fonte immagini: web

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