10 Aprile 2024
Archeostoria

L’ eredità degli antenati, ottantottesima parte – Fabio Calabrese

Riprendiamo il nostro cammino fra la fine di maggio e gli inizi di giugno, sempre con la precisazione che è difficile fare previsioni su quando questo articolo potrà comparire su “Ereticamente”. Stiamo scontando ancora il vero diluvio di informazioni, nonché illazioni, ipotesi, (talvolta fantasticherie prive della minima base reale, come quella sugli Etruschi neri che negli USA – stupidità loro – presentano come un fatto ormai assodato).

In questi primi mesi del 2022 (ormai manca meno di un mese al prossimo solstizio estivo), mi sono concentrato soprattutto sulle fonti italiane, e abbiamo visto che la ricerca archeologica in Italia è molta e di ottima qualità, sebbene raramente assurga agli onori della cronaca in un Paese ipnotizzato da ben altre cose, da San Remo ai campionati di calcio, dove nemmeno una scoperta che all’estero avrebbe provocato sensazione, come la scoperta che il colle su cui sorge il castello di Udine è una collina artificiale, un mound risalente all’Età del Bronzo, sembra destare un’eco che vada oltre la dimensione locale.

Va però detto che, come vi ho ricordato più volte, novità di scoperte riguardanti il nostro passato, non possono per ovvie ragioni avere la periodicità fissa della cronaca politica, di quella sportiva, del gossip, e via dicendo. Attualmente, sembra di assistere a un certo rallentamento di fatti ed eventi. Non vorrei esserne troppo sicuro, ma se dovessi azzardare una previsione, direi che questo articolo dovrebbe passare il collo di bottiglia della pubblicazione attorno alla metà di agosto, il che significa che “la forbice” tra gli eventi e il momento della loro pubblicazione su “Ereticamente”, che era arrivata a cinque mesi, si è dimezzata.

Riportiamo perciò la nostra attenzione su quel che sta accadendo all’estero, premesso che, per i motivi che vi ho più volte esposto, continueremo ad ignorare tutto quanto sia british.

Anzi no, prima di tornare a ignorare quell’immondezzaio che si trova tra Scozia, Galles e Cornovaglia, mi permetto una piccola chiosa. Certi nostri connazionali devono avere la memoria più corta della vista di una talpa, li vediamo stupidamente gasati per i settant’anni di regno di Elisabetta II, quasi fosse qualcosa che ci riguardasse, si sono già dimenticati di come i sudditi britannici ci hanno trattato a pesci in faccia in occasione dei campionati europei di calcio.

Settant’anni di regno, sarebbe più giusto dire settant’anni di usurpazione, perché i monarchi inglesi sono tutti usurpatori almeno dal 1688, quando fu cacciato l’ultimo degli Stuart, ma forse addirittura dal 1066 quando Guglielmo di Normandia si impadronì del trono del re Harold.

Cominciamo allora con “Ancient Origins”, e ugualmente non si poteva non cominciare con qualcosa che riguarda l’archeologia italiana, infatti, un articolo del 27 maggio firmato Sahir ci parla del sequenziamento del DNA di due scheletri ritrovati a Pompei, di vittime dell’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. Per quanto possa sembrare strano, finora, del gran numero di resti umani ritrovati a Pompei, non era stato possibile sequenziare se non piccoli tratti di DNA mitocondriale, infatti il DNA non resiste allo chock termico che ha ucciso la maggior parte delle vittime dell’eruzione.

I due scheletri sono stati ritrovati insieme in quella che è conosciuta come la casa del fabbro o dell’artigiano, ubicata proprio nel cuore del mercato di Pompei. Si trattava di un uomo e di una donna, i cui resti sono stati trovati addossati. Non sembra che abbiano cercato di fuggire. L’uomo aveva tra 35 e 40 anni ed era alto 1,63. La donna ne aveva circa 50 ed era alta 1,45. I due scheletri sono stati studiati da un team dell’Università di Copenhangen guidata dal dottor Gabriele Scorrano (probabilmente una delle tante eccellenze che facciamo fuggire all’estero per trovare una collocazione adeguata alle loro competenze). Lo scheletro dell’uomo presentava lesioni alle vertebre dovute a tubercolosi ossea, mentre la donna soffriva di osteoartrite. Probabilmente, non hanno potuto mettersi in salvo perché si trattava di persone a mobilità ridotta.

L’analisi del DNA ha mostrato un profilo genetico non differente da quello delle popolazioni dell’Italia centrale dell’epoca, e che non è sostanzialmente diverso da quello degli Italiani che abitano oggi nelle stesse zone, ma in più con una componente sarda.

Iklaina, di cui ci parla un altro articolo firmato Sahir del 28 maggio, è oggi un insignificante villaggio affacciato sulla costa ionica del Peloponneso, ma recenti scavi archeologici hanno dimostrato che si trattava di un’importante e una delle più antiche, forse addirittura la più antica città-stato dell’età micenea.

Un santuario pagano a cielo aperto”, ci racconta Sahir,  “Un antico palazzo miceneo, gigantesche pareti a terrazza, murales, un avanzato sistema di drenaggio con massicce fognature in pietra e un elaborato sistema di irrigazione con tubi di argilla che era molto più avanti del suo tempo sono solo alcuni dei ritrovamenti inaspettati nel sito. Gli archeologi hanno persino scoperto una tavoletta di argilla che presenta un primo esempio di scrittura lineare B e risale tra il 1350 e il 1300 aC. Gli scavi hanno rivelato che la città era divisa in tre sezioni – amministrativa, residenziale e manifatturiera – che indicano una sofisticata struttura economica e sociale”.

Un altro articolo di Sahir del 30 maggio ci racconta della scoperta in Islanda di una serie di grotte artificiali interconnesse dell’era vichinga, avvenuta la scorsa estate. La scoperta è stata fatta nell’area di Oddi nel sud dell’isola. Non è chiaro il motivo per cui sia stato realizzato questa sorta di labirinto sotterraneo, ma dato che risalgono al X secolo, periodo che coincide con la cristianizzazione dell’isola, si pensa a motivi di culto. I cristiani avevano però dismesso da secoli l’usanza di praticare i loro riti nelle catacombe. Sono state forse il rifugio degli ultimi pagani islandesi?

A questo punto, sarebbe interessante sapere qualcosa di più su questo nuovo collaboratore di “Ancient Origins”, autore di tutti e tre gli articoli citati. Dalla scarna biografia presente sul sito, apprendiamo che il nome per esteso è Sahir Pandey, che è indiano e che è laureato in storia presso l’università di Dehli e in giurisprudenza presso la Jindal University di Sonepat, e che è uno scrittore free lance.

Vediamo cosa ci offre in questo periodo “The Archaeology News Network”. Cominciamo con un articolo del 2 maggio firmato Mikayla MacE Kelley che ci parla dell’eruzione del vulcano Thera o Santorini. Quando un vulcano esplode o ha un’eruzione di grandi proporzioni, disperde nell’atmosfera grandi quantità di ceneri che arrivano in tutto il mondo. Esse, ostacolando l’irraggiamento solare, influenzano la crescita della vegetazione, poi depositandosi sugli strati innevati o ghiacciati, lasciano una precisa traccia di sé. La dendrocronologia, cioè lo studio degli anelli ci crescita degli alberi, oggi diventata un immenso archivio che risale fino alla preistoria, e la glaciologia, cioé lo studio delle “carote” estratte dal ghiaccio, e si utilizza in particolare il vasto archivio glaciale della Groenlandia, ci permettono di datare con esattezza un’eruzione vulcanica, ma non si è in grado di stabilire con altrettanta precisione quale vulcano l’abbia emessa.

L’eruzione di Thera che secondo molti avrebbe distrutto la civiltà minoica, è sicuramente avvenuta in epoca anteriore al 1500 avanti Cristo.

Finora l’eruzione di Thera erea comunemente identificata con quella del 1628 a. C., ma un recente studio di un team del Tree-Ring Laboratory guidato dalla dendrocronologa Charlotte Pearson avrebbe dimostrato che non è così. L’eruzione del 1628 sarebbe stata quella del vulcano dell’Alaska Aniakchak II. Possibili date per l’eruzione di Thera resterebbero quelle del 1611, 1562, 1555 e 1538, sempre avanti Cristo. Una di esse è certamente quella di Thera, ma quale, al momento non si riesce a stabilire.

Sembra fatto apposta, un altro articolo che ci ricorda quanto la nostra pretesa di essere “i re del creato” non trova riscontro nei fatti, di quanto la vita umana dipenda dalla geografia, dal clima, dalla natura, non solo in occasione di eventi catastrofici come i terremoti e le eruzioni vulcaniche, è quello del 19 maggio firmato Asociacion RUVID, esso ci porta in Spagna, dove “Uno studio rivela l’impatto dell’innalzamento del livello del mare sui gruppi umani durante i periodi mesolitico e neolitico nel mediterraneo occidentale”.

In pratica, lo studio condotto da Javier Fernández López de Pablo dell’Università di Alicante assieme a Elodie Brisset del Centro nazionale francese per la ricerca scientifica (CNRS) ha riguardato l’area intorno al Parco Naturale della Palude di Pego-Oliva, tra Valencia e Alicante, la cui evoluzione e la relazione con le comunità umane che l’abitavano, è stata studiata nell’arco temporale compreso fra 9.000 e 7.300 anni fa. Si è visto che durante l’età mesolitica, la zona costiera offriva condizioni d’insediamento ideali, soprattutto per la disponibilità di una risorsa allora importante come il reperimento dei molluschi, ma che ciò è stato progressivamente compromesso dall’innalzamento del livello marino, portando al declino delle comunità umane della zona. “In quest’area, stimiamo che la costa si sposti nell’entroterra ad un ritmo di 140 metri ogni 50 anni. Ciò significa che questi cambiamenti erano percepibili nel corso della vita di una persona, dice López de Pablo”.

Sembra che dobbiamo rimanere in questa chiave interpretativa, di come le catastrofi naturali abbiano influenzato la vita e le civiltà umane, vediamo ora una fonte un po’ insolita, “National Geographic” di maggio 2022. Uno degli enigmi del nostro passato su cui i ricercatori si sono maggiormente arrovellati, è il cosiddetto dryas recente, una sorta di mini età glaciale comparsa in maniera, pare, improvvisa tra 12.800 e 11.500 anni fa, e portato alla scomparsa di culture umane che allora parevano ben sviluppate, come quella natufiana in Medio Oriente e quella Clovis nelle Americhe. Ora la soluzione dell’enigma pare venire da una direzione inaspettata.

Stando a quanto riferisce l’articolo di Brian Clark Howard su “National Geographic”, al disotto dei ghiacci della Groenlandia, è stato individuato un cratere da impatto meteorico che è stato chiamato Hiawatha (dal nome di una divinità dei nativi americani), dell’ampiezza di 19 miglia (più della città di Washington) che sarebbe stato causato dall’impatto di un meteorite dal peso stimato fra 11 e 12 miliardi di tonnellate. Si sarebbe trattato di una ripetizione (per fortuna su scala ridotta, altrimenti noi non saremmo qui), dell’impatto con un asteroide che 65 milioni di anni fa portò all’estinzione dei dinosauri.

Non dobbiamo però pensare che in questo periodo la ricerca italiana sia latitante. Su ArcheoMedia.net, un articolo del 30 maggio segnala che si è  Verso la soluzione dei “misteri” del villaggio palafitticolo di 3000 anni fa sul lago, che è quello di Bolsena. In effetti, bisogna dire che in effetti non si tratta di “misteri” tanto misteriosi, semplicemente, questo villaggio dell’Età del Ferro, oggi studiato dai ricercatori dell’Università della Tuscia meridionale (Vt) era solo in parte palafitticolo e i parte basato su fondazioni a terra, poi sommerse dall’innalzamento del livello del lago.

Torniamo infine a Pompei, dove il periodico “StileArte” (www.stilearte.it) ci avvisa in un articolo del 31 maggio, essere ormai in fase di completamento il restauro della Casa dei Vettii, una delle più belle e ricche domus pompeiane. I Vettii erano una famiglia di liberti arricchitasi con il commercio, e in questi casi l’ostentazione di un lusso ancora oggi chiaramente riconoscibile nella sontuosità degli ambienti, era praticamente d’obbligo per acquisire status sociale.

Vediamo ora cosa ci presenta “L’arazzo del tempo”, un sito che, abbiamo visto altre volte, ci ha presentato spesso novità importanti ignorate dall’archeologia ufficiale che sembra avere gli occhi sempre puntati verso l’oriente e il sud.

Bene, anche stavolta non ci ha fatto mancare una sorpresa da togliere il fiato, infatti un articolo del 17 maggio (firmato semplicemente “redazione”) ci parla di Lepenski Vir, la prima vera città d’Europa.

Di che si tratta? E’ questo il nome che è stato dato a un sito che si trova là dove il corso del Danubio separa i Carpazi dai Balcani, nella zona nota come Le Porte di Ferro.

“Nel sito, ci informa uno degli scopritori Dragoslav Srejovic, sono presenti cinque livelli di occupazione, i primi dei quali anteriori ad ogni segno di agricoltura.

Una popolazione nota come Lepenski Vir aveva costruito strane case di pietra sull’orlo di una rupe sul versante serbo della gola che il fiume attraversa in un seguito di rapide e cascate.

Un’opera di una civiltà culturalmente evoluta, che appare in netto anticipo rispetto ad altre civiltà contemporanee e che in seguito non ha conosciuto una degna prosecuzione. Alcuni studiosi definiscono Lepenski Vir la prima, vera città d’Europa.

Un villaggio dunque molto popolato: in tutto sono stati ritrovati 137 edifici che avevano una curiosa forma trapezoidale, disposti a ferro di cavallo che guardava il fiume con al centro un edificio che probabilmente era il luogo di culto”.

Non solo dunque la più antica città europea, ma la più antica città al mondo, perché la mediorientale Gerico cui finora è stato attribuito questo primato, è di un millennio più recente. Potremmo dire che è un altro primato che l’Europa strappa al Medio Oriente, dopo la scrittura (scrittura del Danubio, tavolette di Tartaria), gli attrezzi di metallo (ascia dell’uomo del Similaun), la misurazione del tempo (allineamenti di Warren Fields). Basterà questo a guarire l’archeologia ufficiale dal suo eterno strabismo mediorientale? Ne dubito. “La scienza” non è il più delle volte una ricerca spassionata della verità come si immagina l’uomo della strada, ma è fortemente legata a “scuole” e visioni che possiamo tranquillamente definire ideologiche, e la tendenza oggi è a immiserire e mistificare tutto quanto è europeo in nome del “cancel culture” e per favorire la sostituzione etnica.

Lo abbiamo visto più volte: questa serie di articoli ha un doppio aspetto, quello di informare sulle novità che riguardano le indagini sul nostro passato, e quello di evidenziare la grandezza e l’antichità della civiltà europea, un tesoro alla cui conservazione siamo tutti tenuti, e che oggi, di fronte al tentativo di screditare e avvilire tutto ciò che è europeo e bianco, per far posto ai “nuovi europei” che l’immigrazione ci porta in casa, ha chiaramente un significato politico. Di volta in volta, per quanto riguarda il primo aspetto, non ci si può che accontentare di quel che passa il convento, e questo è tanto più ovvio, se come questa volta, è toccato basarsi principalmente su fonti estere e ufficiali.

Tuttavia, anche stavolta l’esposizione non è così neutrale e anodina come sembrerebbe. Ci sono almeno due elementi che vanno evidenziati: prima di tutto, abbiamo visto quanto le catastrofi naturali, dall’eruzione del Vesuvio a quella di Santorini, al dryas recente (e a quelli remoti) possono influenzare la storia umana, e questo rende francamente grottesche tutte le illusioni moderne circa le “magnifiche sorti e progressive”. Abbiamo poi visto che la ricerca archeologica, dall’Italia, alla Spagna, dalla Grecia ai Balcani, è stata foriera di novità soprattutto riguardo all’Europa meridionale, e diciamolo una buona volta: gli eredi delle civiltà ellenica e romana, non hanno alcun motivo di nutrire complessi d’inferiorità verso l’Europa del nord.

NOTA: Nell’illustrazione, la Casa dei Vettii di Pompei, il cui restauro è ora quasi completo.

 

 

 

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