12 Ottobre 2024
Storia delle Religioni

Il pensiero mistico persiano – Marco Calzoli

 

Il sufismo è una tradizione esoterica all’interno dell’Islam. Il sufismo si forma in modo spontaneo già nei primi anni della Rivelazione di Maometto (VII secolo d.C.) come l’insegnamento più vitale caratterizzato anche da pratiche ascetiche. In definitiva il sufismo parla con un linguaggio interiore e può essere compreso solo da chi condivide quella esperienza (iniziazione).

L’affermazione del sufismo non è stata omogenea. Già un secolo dopo, cioè nel VIII secolo, gli autori erano discordanti riguardo la sua esatta natura. Il fatto che è un orientamento iniziatico, cioè segreto, crea diffidenza. Alcuni dimostrano molto presto persino disprezzo nei confronti del sufismo. Infatti i giuristi vi vedevano un pericolo per l’ordine costituito, invece gli ulema, cioè i teologi, vedevano nei mistici un pericolo costante verso l’ortodossia. Quindi la storia del sufismo è anche la storia di una ripetuta frizione con l’ortodossia.

Questo senso di disagio si è ripetuto secoli dopo altresì con l’incontro con la civiltà europea dal XIX secolo: i nostri orientalisti trovano affascinanti autori come Rumi, Hafez, ma la segretezza dell’insegnamento crea anche non pochi problemi nella comprensione dell’esatto messaggio sufi. I nostri orientalisti avevano una idea legalitaria dell’Islam, che non pareva molto rappresentata dal sufismo, con i suoi aspetti estetici e molto liberi rispetto agli stereotipi che gravitavano attorno all’Islam. Questa incertezza rimane fino al Novecento, quando Louis Massignon riesce finalmente a capire in profondità il sufismo, grazie al suo vasto lavoro di interpretazione delle fonti. Egli sostiene che una tradizione religiosa è vera quando contiene in modo omogeneo tanto l’aspetto legale, quanto quello teologico e quanto quello del perfezionamento spirituale (questo ultimo aspetto è presente nell’Islam grazie al sufismo nella coerenza del suo linguaggio spirituale). Altri orientalisti, come Nicholson, Arberry, confermano abbastanza presto che i contenuti del sufismo sono coerenti con le premesse del Corano, quindi con la tradizione islamica.

In particolare un orientalista tedesco, von Grunebaum, dice che il Tasawwuf (sufismo) è profondamente radicato nella parola rivelata, dalla cui molteplicità trae la sfida per la interiorizzazione del rapporto con il Creatore. Dal momento che nell’Islam tutti i significati importanti, siano filosofici, etici, artistici, ruotano attorno al tema dell’unità del Divino (tawḥīd), allora la via interiore diventa la ricerca della presenza nascosta del tawḥīd, la ricerca della sua articolazione interna. Il tendere verso questa unità con tutta l’anima secondo i suoi vari gradi – dalla percezione di una realtà ordinatrice alla scoperta della vicinanza con l’Amico fino al vedere le cose in una luce unificante – questa tensione diventa per molti il compito di tutta la vita. Queste persone sono i sufi. I sufi devono mantenere la custodia del cuore, in quanto il cuore è l’organo della conoscenza spirituale. C’è un bellissimo distico di Rumi che dice: “La prima origine del grido è dal cuore e l’eco ne rimbomba sulle montagne del corpo. O tu, stordito dagli echi, volgiti in silenzio all’origine della voce che crea”.

Il sufismo è diventato qualcosa di molto più ampio, che ha attraversato tutta la storia della cultura araba per secoli. Vi è una varietà di fenomeni che si sono svolti dentro le società tradizionali, quindi per sufismo si intende sia le scuole di filosofia mistica, sia le confraternite, sia le espressioni della devozione popolari, sia delle scuole dove si pratica l’espressione artistica tradizionale (calligrafia, musica).

Nel periodo del Profeta Maometto il primo atteggiamento di non poche persone che divennero i sufi ante litteram, era il timore del giudizio e quindi del castigo di Dio con atteggiamenti di rinuncia della mondanità e di ascetismo. Volontaria povertà, solitudine, desiderio di ascolto del cuore. Pertanto quando i primi testi parlano del sufismo si riferiscono a queste persone che in maniera assai diversa interpretavano asceticamente la dottrina di Maometto. È difficile trovare una linea comune tra costoro, non c’è un metodo particolare. “Morire prima di morire”, secondo un celebre hadith.

Simili aspetti di ritiro e contrizione caratterizzano anche i gruppi di asceti del secolo successivo (VIII), quelli di Kufa e Bassora (in Iraq). Ma cambia qualcosa, infatti emergono i concetti di sincerità nella fede, la vita pura, l’affidamento a Dio per ogni cosa: viene tracciato il quadro della vita religiosa ideale. È qui che la pratica ascetica viene identificata con la veste di lana portata dai devoti, infatti la parola Tasawwuf significa “lana”. Anche se questi asceti iniziano a riconoscersi tra di loro, non filtra quasi niente delle loro pratiche, in quanto l’accento che ci rimane è quello delle esortazioni morali. Quel poco che filtra è costituito dalle “espressioni estatiche”, sono quelle che Massignon definiva “locuzioni teopatiche”, cioè delle estasi durante le quali avvengono delle locuzioni. Il sufi veniva investito da una forza divina e pronunciava delle massime.

In seguito con la scuola di Baghdad (X secolo) avviene una progressiva sistemazione sia intellettuale sia delle pratiche. Si cercano i detti dei maestri e si raggruppano le loro convinzioni in una dottrina coerente. Compaiono i primi testi che diverranno canonici. Se prima il rapporto con la divinità era visto come una esperienza irripetibile e segreta, adesso acquista tratti più riconoscibili, tanto da poterla proporre. Per esempio l’ascesi, necessaria per mantenere il cuore puro, diventa qualcosa di inquadrabile in esercizi ben studiati destinati ai devoti. Poi viene data voce alla vita emotiva, cioè alla vicinanza con il Principio, che era prima segretissima e individuale. Quindi il percorso mistico non è più un puro sforzo individuale, ma una assimilazione progressiva di un sapere identitario condiviso da tutta una confraternita.

Quello che viene dopo la fase di Baghdad, che è quella del sufismo classico, è ancora un sufismo diverso. C’è uno sforzo maggiore di esplicitazione della dottrina, mediante un linguaggio spesso filosofico. Si arriva alla sintesi di Ibn Arabi (m. 1240), considerato il maggior sufi e il maggior teologo islamico. Egli fissa le linee di una conoscenza speculativa che va al di là della teologia tradizionale dell’Islam (questa riflessione sufi è detta teologia dell’esperienza). Poi si assiste alla apertura della letteratura e della poesia alla sensibilità sufi. Infatti, ad un certo punto, nella letteratura araba e persiana si fanno discorsi che possono sempre avere un significato mistico-esoterico, cioè influenzati dall’insegnamento del sufismo. Si arriva quasi alla creazione di figure letterarie sufi. Questo vuol dire che il sufismo era penetrato nella coscienza collettiva, anche a livello popolare, grazie pure alla stabilizzazione delle confraternite.

Abbiamo visto che al contrario dell’Islam ortodosso, che è in pratica una ortoprassi, scandita dai Cinque Pilastri (professione di fede, preghiera, elemosina, digiuno, visita alla Mecca), il sufismo è una dottrina mistica e una pratica ascetica. Esso ha una natura riservata a pochi, quindi è esoterico. Ma cosa è una dottrina mistica? Il mistico tende all’unità. Chi conosce misticamente ha la percezione dell’unità di tutte le cose, quindi non c’è più un sapere frammentato ma un sapere unitario, per certi versi assoluto.

Queste dottrine mistiche, non solo il sufismo, ma anche la meditazione yoga per fare un altro esempio, hanno più o meno gli stessi principi. Il pensiero razionale, quando si volge al mistero della presenza divina, tende a usare le sue capacità, cioè crea delle categorie generali, astratte, basate sul principio causale. Però con questa creazione di concetti si perde il mistero dell’origine, dell’intimo soffio che fa muovere le cose. Per questo riflettere con la semplice ragione sull’Unità crea difficoltà insormontabili. Ma cercarla nell’immanenza, nelle cose che cambiano, nel divenire, sminuisce il sacro, che in quanto tale trascende il mondo dei fenomeni. La terza via, che supera sia il pensiero razionale sia l’immanenza, è la via unitaria, vale a dire quella mistica.

Il divino non si coglie né nell’astrazione dagli attributi creati né nell’assimilazione delle creature con il Principio. Si tratta di due scogli che se presi singolarmente non portano a nulla. Lo dice molto bene Ibn Arabi: se si afferma la trascendenza divina si limita Dio con il concetto, se si afferma l’immanenza lo si delimita, ma se si affermano entrambe le cose simultaneamente ci si avvicina a Dio. La conoscenza del sufismo sta in questo punto di mezzo: si pone tra il desiderio originario dell’Uno di mostrarsi e la consistenza delle cose visibili che testimoniano di Lui.

Ora restringiamo il campo a tre autori sufi di area persiana: Ghazali, Baqli, Iraqi, che formano la corrente detta dei Fedeli di Amore. Secondo questi autori sufi il reale è lo specchio del divino, cioè le cose del mondo sono la manifestazione che Dio fa di sé stesso. Pertanto nella contemplazione teofanica del reale è possibile raggiungere il Creatore. Per essi la via mistica unisce divino e immanenza nella contemplazione delle creature del mondo, delle forme create.

La seconda caratteristica di questa corrente sufi persiana è quella di ishq, desiderio: è l’amore appassionato, impetuoso, connesso tanto alla natura umana quanto alla natura divina.

I persiani stessi, ma anche Corbin, hanno definito la corrente rappresentata da Ghazali, Baqli, Iraqi come la teologia dell’amore e della bellezza.

Essa presenta tre nuclei:

  • Amore
  • Bellezza
  • Visione.

 

Si tratta di nodi concettuali ma anche vissuti. Gli autori li vedono come i tre capisaldi della via religiosa. L’amore è una essenza divina in sé ed anche radicato in Dio. Deve esserci un rapporto profondo con la bellezza, che non si può evitare per raggiungere il Creatore. Kant diceva che il Bello parla senza concetti. La saggezza che si ottiene da amore e bellezza si sposa con la visione. È nella visione e non nel concetto che si fissano le conoscenze mistiche. L’immagine svolge quindi un ruolo fondamentale.

Amore, bellezza e visione hanno un corollario. Questa via conoscitiva non è di spoliazione, come nei primi tempi, bensì uno spazio di conoscenza che si attua nella mediazione. I Fedeli di Amore hanno bisogno di una forma sensibile trasfigurata dalla loro percezione per unirsi al divino. La scoperta del Sé non avviene direttamente ma attraverso un medium. La presenza divina si dà celandosi e si sottrae donandosi. Solo attraverso la forma è possibile seguire Dio, proprio perché nella forma Dio si rivela e si sottrae allo stesso tempo.

Corbin aveva scritto che “l’immagine simbolo nella visione è conoscenza diretta e paradossale, intrinsecamente mossa e dinamica”.

L’amore va pensato in termini leopardiani come l’ultimo orizzonte. All’origine di tutto c’è questo moto di amore. Non si tratta delle coloriture singole dell’amato innamorato di Dio che lo cerca, bensì di un amore metafisico. Per noi è facile pensarlo perché abbiamo letto Dante. Anche per i sufi c’è in gioco il senso dell’Essere. L’amore è il lato centrale e totalizzante che informa la creazione. L’amore è come la personificazione che animava il cenacolo degli stilnovisti.

Il desiderio essenziale è questo: Dio non viene visto come una realtà separata e apofanica, ma nell’essenza ha un desiderio, quello di essere conosciuto. L’inizio comincia con il desiderio del Principio di essere conosciuto in una dimensione di alterità amorosa. “Ero un tesoro nascosto e volevo essere conosciuto, creai le creature per essere conosciuto”, dice un famoso hadith. Questo desiderio di Dio stona con la teologia ortodossa che vuole Dio come separato dalle creature. Questo perché la conoscenza di sé si completa nella conoscenza delle creature. Questo porre le creature non è veramente un porre. Questo altro non è veramente un altro. Dio pone una dimensione che è quasi onirica, quasi interna a sé stessa. Sono piuttosto momenti diversi del farsi della sua conoscenza infinita.

Come c’è il desiderio di Dio di conoscersi in qualche modo nelle creature, c’è anche il bisogno delle creature di riafferrare la radice, cioè Dio. Ibn Arabi lo ha visto come il desiderio di Dio di completare la conoscenza di sé nelle creature.

I sufi dei primi tempi non volevano avvicinarsi al mondo, invece i sufi di questa corrente amano l’immagine. La presenza della dimensione dell’immagine, che è fatta anche di giovani donne, begli asceti, è una sensibilità che avverte nella profondità della bellezza anche la perdita. Questo senso del bello è una predisposizione innata dell’anima. Attenzione alla bellezza ovunque si trovi. Percepire la bellezza come al contempo affascinante e terribile, che attesta una presenza che non c’è, quella di Dio. Amore fatto di adorazione del bello. Idea della bellezza umana che avvicina a Dio.

Ci sono alcuni hadith del Profeta Maometto che esaltano la bellezza umana. “Dire il bello è amare la bellezza”. “Cercate il bene in coloro che hanno un bel viso”. Sono testimonianze al di fuori della logica aniconica e assolutamente trascendente dell’ortodossia dell’Islam, quindi questi hadith non vengono riconosciuti, eppure i nostri tre mistici ne fanno delle chiavi di riflessione. La bellezza è importante in quanto viene direttamente dall’Origine, da Dio che crea il mondo per essere conosciuto, quindi partendo dalla bellezza delle creature è possibile risalire fino al Creatore.

L’amore per una creatura umana non è visto come una tentazione pericolosa. Impossibile raggiungere l’unione con Dio senza passare per il ponte dell’amore carnale di una creatura. È un po’ quello che dice Cardini sul Dolce Stil Novo nella distanza da ogni idea decorativa: esso non è un richiamo generico all’amore ma una bellezza che è conoscenza, come in questa corrente mistica persiana. Ciò che interessa Dante non è un visibile ma una visibilità, qualcosa che trasporta oltre il semplice visibile e permette la conoscenza.

Il tragitto che porta al vero deve passare attraverso le forme perché il vuoto non dà segnali. Nel sufismo classico l’aspetto della visione non è molto sviluppato. La visione è lo svelamento improvviso di ciò che sta dietro.

Più che immagini in senso moderno, cioè cose in sé, sono simboli, che conducono oltre. Si scava nella tensione che vive nel visibile e che conduce altrove. La figura resta in attesa di colorarsi della realtà spirituale che la crea. Si cerca un contenuto intellegibile entro la forma visibile. Per questo nella visione della bellezza vi è anche il senso della mancanza: Dio non si dà tutto nella immagine, per questo il sufi avverte l’esigenza di andare fin verso Dio, totalmente, cosa che la immagine non dà fino in fondo. L’immagine è un ponte per l’Assoluto, ma non del tutto. Da qui il senso del vuoto non completamente riempito. Ogni teofania è insieme evidenza e mistero, acquisizione e nostalgia.

Quando nel XIX secolo vennero tradotti in Occidente i primi autori persiani che si rifanno al sufismo, come Hafez, Angelo Pizzi aveva notato il parallelo con gli stilnovisti. C’è un modo di percepire il mondo interiore che si muove sugli stessi binari. Ciò spiega una stessa categoria di immagini. Poi c’è anche il fatto che l’uomo è simbolico (Eliade), cioè tende a esprimersi in tutti i luoghi della terra con le stesse immagini, come il Sole per la luce dell’intelletto. Pensiamo alla donna come tramite alla ascesa allo spirituale, comune alle due correnti. Dal punto storico, se ci sia stata veramente una influenza tra stilnovisti e persiani sufi, è un argomento su cui ricercare. Ancora non ci sono risultati definitivi. Sappiamo però che tra i poeti del Nordafrica e i trovatori c’è stata una influenza diretta. Forse c’è stata anche tra stilnovisti e sufi? Nel Medioevo i musulmani si estesero circondando l’intera Europa, certamente è possibile un contatto tra sapienti di tradizioni differenti.

Ahmad Ghazali, morto nel 1126 (da non confondere con il celebre filosofo Al-Ghazali), prende le difese del diavolo (Iblis) considerandolo il modello dell’amante perfetto. Nel Sawanih di Ghazali i temi che abbiamo presentato si trovano per allusioni. È un’opera non di facile lettura. Vengono fissati brevi accadimenti del cuore tenuti insieme da un filo quasi invisibile, è una sorta di raccolta di aforismi. Stile altamente allusivo. Ricordiamo che il sufismo è una setta, quindi Ghazali vuole offrire spunti a una cerchia interna con un linguaggio criptico. È un testo rivolto a chi condivide il linguaggio segreto del sufismo. Saccone sostiene che il linguaggio allusivo sia stato adottato per non entrare in contrasto con l’Islam ortodosso. Ma non c’è solo questo. C’è anche una terza interpretazione. Ghazali vuole pure educare l’uditorio a un linguaggio non scontato per condurlo a meditare l’insegnamento.

Nella letteratura persiana questo è il primo trattato che si concentra interamente sull’amore. Non c’è un prospettiva di tipo sentimentale né etica né sociale (matrimonio) ma è un testo che guarda all’amore dall’interno.

“Quando lo spirito venne galoppando dal nulla all’esistenza, sul limite esterno dell’esistenza amore già stava in attesa della sua cavalcatura”. Quando gli spiriti stanno per iniziare l’esistenza, vi era già l’amore ad attenderli. “All’inizio dell’esistenza io non so quale intima commistione si verificò, ma di certo se l’essenza si fece spirito, attributo dell’essenza divenne amore, e trovando la casa vuota vi prese dimora”. Ghazali in maniera allusiva ci dice che amore è un attributo dell’essenza, cioè la divinità non può esimersi dall’amare ciò che ha creato.

Ghazali ci presenta l’amante, l’innamorato (il mistico, lo gnostico, il sufi) in questi termini quasi categorici, astratti:

  • Bisogno
  • Ricerca
  • Insoddisfazione

L’amato (Dio) invece si caratterizza per:

  • Indipendenza
  • Appagamento di sé
  • Continua sicurezza.

 

Si tratta di due modalità esistenziali, se prevale l’una sull’altra abbiamo uno squilibrio.

“All’amato non viene nessun vantaggio dall’amore dell’innamorato, ma essendo la sua generosità regola affermata amore lega l’amante all’amato, anzi l’amato diviene in ogni suo stato osservatorio dell’amante in virtù del legame amoroso. Quanto vi è di maestà e di tirannia, di indipendenza e di fierezza nella sorte amorosa si manifestò nelle qualità dell’amato. E quanto vi è di abiezione e di fragilità, di umiltà e povertà e indigenza divenne invece la parte assegnata all’amante. Perciò se le cose stanno così l’amante e l’amato sono antagonisti, e non stanno assieme se non a condizione di sacrificio di uno dei due”.

L’amato è freddo, invece l’amante ama e soffre. Non c’è nessuna passione, che in sé significa essere mossi da qualcosa. Le leggi dell’amore prevedono il sacrificio dell’amante da parte dell’amato, signore del regno. L’amante deve estinguersi per il rispetto delle regole dell’amore. Nell’amore la pena è la regola, mentre le gioie sono una rarità. Essere sé stesso nel proprio sé è lo stadio immaturo dell’amore: quando l’amante lascia il proprio sé per prendere quello dell’amato diviene maturo. L’estinzione è il processo per cui dalla immanenza l’amante raggiunge il conseguimento della perfezione spirituale, come la falena che si getta nel fuoco. Quando l’amore esiste realmente l’amante diviene il nutrimento dell’amato. Non è l’amato il nutrimento dell’amante in quanto l’amore non può essere contenuto nelle capacità dell’amante. La perfezione sta nella identificazione tra amante e amato.

Questo schema però viene lentamente eroso. Nella lirica persiana, per quanto astratta e depurata, qualcosa accade sempre, e in Ghazali avviene proprio questo. Questo essere che è tutto superiorità e autoreferenzialità, viene accostato all’altro polo. L’autonomia dell’amato viene lentamente a scemare. La bellezza per essere perfetta ha bisogno di qualcuno che l’ammiri, dal quale essa tragga la coscienza di essere bellezza. L’amato si apre a una necessità, quella di essere amato; l’amato ha bisogno di un innamorato perché possa nutrirsi della propria bellezza. Ghazali sta parlando anche della creazione: Dio ha bisogno della creatura per specchiarsi e conoscersi.

Per Ghazali l’amore non mostra agli uomini l’intero suo volto, in quanto l’amore sta nella pre-eternità, ora stiamo nel mondo della post-eternità, quindi l’amore non può manifestarsi agli uomini se non mediante dei veli.

Baqli, morto nel 1209, adotta le stesse categorie concettuali di Ghazali. Egli crebbe senza una istruzione religiosa, ma ebbe da subito delle estasi molto potenti tanto che smise di fare il droghiere e venne iniziato nel sufismo. Era detto Doctor Aestaticus. Possiede uno stile di grande efficacia retorica. I suoi testi sono stati tramandati da una ristretta cerchia di adepti in Turchia e in Persia.

Egli cantava che nella ricaduta di una capigliatura dell’amata che ondeggia vi sono lunghe trecce di rivelazioni. Nel corpo dell’amata, quindi, vi è la suprema rivelazione. Dio ha creato l’amata e ha posto in lei il regno dell’incontro con Lui. La forma esteriore di un essere umano porta il segno del soffio primordiale. L’esperienza estatica è lo spogliamento, la cifra segreta dell’amore, l’assalto del mondo pre-eterno, l’irruzione dei guardiani della teofania del Sinai. È la capacità totale, la radice dell’universo, essa si annuncia con il richiamo interiormente percepito e culmina con la manifestazione della bellezza. Non c’è limite al sentimento dell’amore perché senza limite è l’esistenza stessa. L’amore è coeterno all’anima. È il sommo della scala degli attributi divini. L’amore è la spada che toglie via all’amante mistico la testa della creaturalità. Chi è divenuto allo stesso tempo amante e beneamato di Dio diviene nel suo essere dell’identico colore dell’amore. Questo stato è visione totale e nella pura visione degli attributi l’amore si sovrappone a sé stesso.

Con Baqli la bellezza sensibile compare immediatamente come richiamo al divino. Amore e bellezza hanno stretto un patto sin dalla pre-eternità, diceva. Alla luce della sensazione del bello riesce a leggere non solo la tradizione maomettana ma tutto un filone della storia sacra, compresi i profeti. Lo slancio al bello gli fa vivere la bellezza come un messaggio profetico. Rispetto agli altri autori del gruppo, egli si distingue per la omologia tra amore umano e amore divino: egli dice chiaramente che l’amore umano è il tramite per la scoperta dell’amore divino. E solo nell’amore divino l’uomo trova il suo massimo inveramento e perfezione, dopo essere passato per l’amore umano.

La sua figura non è molto conosciuta, negli anni Settanta Corbin lo ha scoperto e ha fatto sì che nascesse in Persia e in Europa un nuovo interesse. È un autore completo, ha scritto su molti argomenti ed è ancora oggetto di studio in America. Il suo libro più conosciuto si intitola Gelsomino dei Fedeli d’amore, nel quale egli narra il suo innamoramento nei confronti di una giovane fanciulla conosciuta a Mecca, che faceva la cantante. Questa vicenda amorosa è il punto di partenza per le sue riflessioni sufi. L’intenzione di Baqli è quella di fare una sorta di verifica: fino a che punto l’amore umano può concordare con la ricerca sincera della divinità?

All’inizio del testo, il quale non ha per nulla un intreccio lineare, Baqli dice che è giunto il momento di interrogarsi sull’amore, dopo tutte le esperienze estatiche che ha avuto. E la bellezza della donna è l’occasione datagli da Dio per farlo. L’apparizione della bellezza è la strada più adatta per incontrare la Presenza nascosta di Dio. Le cose e il divenire non sono illusorie, ma chiavi di accesso a Dio, per trovare l’amato divino. Lo schema concettuale è identico a quello di Ghazali, ma Baqli dà molti più dettagli e toglie il velo dell’illusione mettendo in chiaro la teologia amorosa sufi.

Un tema importante in Baqli è lo sguardo dell’amata: esso da una parte porta oltre la forma, dall’altra esso rivela qualcosa che ha la natura dello specchio (riflesso nell’amata del sé dell’amante). Quindi lo sguardo ha un aspetto ambiguo.

La parola teofania è di origine greca e indica la manifestazione di Dio. Nel senso specifico di manifestazione di Dio nelle creature e nelle realtà finite, è usato per la prima volta nell’espressione Theophania id est apparitio Dei, attribuita a Scoto Eriugena. In arabo la parola corrispondente a teofania è tajalli, la manifestazione di Dio. Baqli propone una sorta di viaggio nella teofania, vuole approfondire il suo ruolo di mediatrice e come essa fa arrivare alla Presenza divina. È una sorta di lunga riflessione sul detto (hadith) del Profeta Maometto “Ho visto il mio Signore nella più bella delle forme”.

Se tu sei capace di vedere, osserva come questo Sole risplende sul volto dell’amata, scriveva Baqli. Egli mette in chiaro la teologia amorosa ma il suo non è un testo chiaro, anzi è assai difficile dal punto di vista filosofico. La sua scrittura, essendo eccessiva e un po’ barocca, rende l’opera anche di difficile classificazione in un preciso genere letterario. Il messaggio infatti viene riproposto di continuo ma si piega su sé stesso in forme e temi assai diversi, fino a disperdersi progressivamente.

Baqli ha un grandissimo concetto della bellezza, quindi non è lo sforzo che conta nell’avvicinamento nella bellezza ma è essa stessa che ha un potere di trasformazione, anche se l’ardore dell’innamorato non scompare ma viene aumentato dalla stessa bellezza. Qui si richiama a Platone per cui il simile chiama il simile.

La bellezza dell’amata è ambigua: conduce a Dio ma c’è anche il rischio di non spiritualizzare l’amore carnale. Il rischio terribile è quello di rimanere nell’amore carnale e di non raggiungere Dio. La vera immagine va sempre cercata. L’amore, infatti, è un itinerario che procede per gradi, solo pochi raggiungono la perfetta unione con Dio.

Lo schema conoscitivo alla base della teofania di Baqli è quello secondo Avicenna, che si rifà a Platone e ai maestri sufi. La conoscenza intellettuale (dell’intellegibile) è analoga a quella del sensibile, ma su un piano diverso.

Nella conoscenza sensibile il motore attivo, cioè l’agente attivo, che è sempre in atto, è il sole che attualizza i colori presenti nelle forme (cioè portandoli dalla potenza all’atto, vale a dire dalla potenza alla visibilità) e attualizza anche il mezzo (l’aria, l’ambiente): la luce attraversa il mezzo per arrivare alle forme. Nella conoscenza intellettiva vi è qualcosa di analogo: l’agente attivo è l’intelletto agente (ruh in arabo), che possiamo paragonare al sole; i concetti universali e le essenze sono le forme che passano dalla potenza all’atto; l’anima umana è il mezzo. Essa viene illuminata e su di essa vengono proiettate le forme intellegibili.

Nei nostri tre sufi persiani c’è un discorso simile. L’amore è l’intelletto agente; il passaggio dalla potenza all’atto è la presenza nell’immanenza del vero divino; l’animo umano è rappresentato dallo sguardo o dal cuore.

In Baqli l’amante si avvicina alla bellezza dell’amata per osmosi e poi succede un salto che l’autore non definisce chiaramente, per il quale lo sguardo dell’amata comunica il divino. Quel primo contatto si è trasformato in un fluire, che ha la stessa immediatezza dell’intelletto. Per i neoplatonici la conoscenza dell’intelletto è identificazione con una idea. Baqli non dice se questa coincidenza di sguardi tra amante e amata avviene in un attimo, in maniera immediata, come quando ci si identifica con una idea, ma alcuni interpreti di Baqli lo hanno sostenuto.

Riassumendo, le tappe dell’amore sono queste. Abbiamo dapprima il desiderio che porta l’amante a desiderare l’amata fino, poi, alla scoperta del proprio sé nell’amata mediante l’incrocio degli sguardi. Segue la scoperta dell’unità divina che per Baqli è una visione, sebbene non sensibile: un unico raggio di luce, il tempo si stacca dalla visione umana e si trasforma in una visione divina, un cedere alla luce originale.

Pertanto l’amore carnale porta a scoprire sé stesso nell’amata, in seguito questa unità carnale e interiore diviene Unità divina, cioè la coincidenza con Dio stesso.

Allora la tappa ultima è l’arrivo all’ “Occhio divino”. Analizzare questa espressione non è facile, si tratta di una sharat (formula paradossale). Nell’ultima parte della sua opera Baqli crea una atmosfera letteraria e concettuale più rarefatta, piena di sottintesi e caratterizzata da un linguaggio più enigmatico. Questa formula allude a qualcosa e cerca di forzare anche la nostra comprensione. Qua assistiamo a una fraseologia presente anche in Ibn Arabi, che forza il legame tra immanenza e trascendenza e quindi troviamo espressioni come “Tu sei Lui, Tu non sei Lui”. Allo stesso modo Baqli sta comunicando qualcosa di non immediato tra il gioco delle allusioni e quello del mistero. Questo violare volentieri le leggi della logica ha anche una funzione pedagogica: l’uditorio non deve credere di aver capito il mistero! Deve quindi meditare a fondo, il senso è recondito e va ricercato mediante una operazione di ricerca personale.

“Al sommo dell’amore niente è curvato sotto la pressione della violenza”. La scoperta di Dio nella fanciulla amata è un processo naturale, le domande sulla ricerca di Dio forse non ci sono più, tutto fluisce naturalmente.

Il mistico giunto al termine del viaggio “gusta l’attributo divino”. Anche questa è una espressione paradossale, è un errore teologico: sono i Nomi di Dio che agiscono nella creazione, invece l’attributo divino è la radice, sta nella sfera di Dio, è la sua essenza, e non può essere fruibile da parte dell’uomo. “La bellezza del mondo cessa di essere … non c’è più spazio per la creatura”: è avvenuta l’unificazione con Dio! All’inizio della sua opera Baqli dice che la fanciulla amata è “il discorso segreto di tutti gli esseri, il compimento di tutto”. Attraverso di lei si giunge a Dio perché la divinità sta nell’umanità. Il mistero della bellezza femminile va dritto all’essenza.

Passiamo all’ultimo nostro sufi, ‘Iraqi, morto nel 1289. Fu membro dei dervisci danzanti, con loro arrivò fino all’India. Il viaggio in India fu importante in quanto apprese molto, per poi andare in Arabia. Fece una vita di spostamenti. Caduto in disgrazia per ragioni politiche in Turchia, andò anche in Egitto. L’ultima fase della sua vita fu dedicata alla stesura di varie opere.

Con ‘Iraqi sono passati circa ottanta anni da Ghazali e sono cambiate alcune cose. Il suo linguaggio è leggermente diverso, i contenuti si ritrovano ma l’atmosfera è un poco mutata.

Dal punto di vista della biografia ‘Iraqi assomiglia al Fedele di Amore: fa della sua vita una ricerca iniziatica. Si sposta per quel periodo in zone lontanissime, fa una vita errabonda. Il suo unico amico è la divinità, quindi passa tutta la vita con Dio nel cercarlo (e trovarlo) in tutte le cose e in tutti i luoghi che visita. Egli è colpito da ogni essere, da cui traspare la bellezza sacra.

Risente leggermente di più dell’insegnamento di Ibn Arabi, del cui discepolo più influente ‘Iraqi divenne seguace. L’opera di ‘Iraqi detta Libro dei bagliori ha 28 capitoli come le lettere dell’alfabeto arabo e i capitoli di un libro famoso di Ibn Arabi.

Lo stile di ‘Iraqi somiglia a quello di Baqli in quanto ricerca costantemente “il volto dell’Amico” e lo descrive apertamente. Se c’è un’altra differenza con Baqli questa è presente nella grande cultura poetica di ‘Iraqi: la lirica persiana ha delle regole molto precise, come la poesia cortese medioevale, ‘Iraqi le conosce molto bene, invece Baqli scrive un’opera che non rientra in nessun genere preciso. Gli storici della letteratura persiana considerano ‘Iraqi un autore del periodo classico.

All’interno della corrente mistica dei Fedeli di Amore e di altre correnti dell’amore platonizzato, alcuni avevano l’abitudine di contemplare i volti di giovani ragazzi: li mettevano in una stanza e passavano ore a contemplarli. Le fanciulle non erano oggetto di tale contemplazione in quanto la società islamica lo permetteva di meno. Ghazali e ‘Iraqi dettero scandalo per questa pratica e dovettero smettere. Anche se un’altra celebre opera di ‘Iraqi, Ushhaq-Name, si basa sulla contemplazione della donna.

‘Iraqi non presenta una dottrina precisa della teofania: essa basta a sé stessa, non avviene in maniera razionale né inquadrabile esattamente in gradi, come fa Baqli: la teofania accade senza mezzi termini.

‘Iraqi scrive anche un importante Canzoniere, nel quale introduce un personaggio che avrà grande fortuna, quello dell’innamorato triste e lamentoso, che sarà ripreso nei canzonieri di celebri autori persiani, come Rumi e Attar. Compaiono anche immagini che nella loro ambiguità saranno molto usate nella lirica persiana successiva, come per esempio la Coppa, che vuol dire o il cuore o il volto dell’amato o solamente la coppa divina.

Uno dei tratti della dottrina sufi è il combattimento contro l’anima passionale (nafs), nella via purgativa: la coscienza di avere qualche merito è considerata un ostacolo nei confronti della intuizione del cuore, solo la quale avvicina a Dio. ‘Iraqi si interroga su sé stesso: “Fino a quando canteremo solo le nostre lodi?”. L’anima passionale è un velo che copre la presenza di Dio nel cuore del mistico. Nei brevi componimenti lirici persiani, detti ghazal, c’è una regola: verso la fine, all’interno di un verso, l’autore inserisce la firma, cioè il suo nome. E ‘Iraqi lo fa in genere in senso dispregiativo, per punire il suo ego, la sua anima passionale, che deve essere purgata anche in questa maniera. Finché c’è ‘Iraqi non c’è l’Amico. Curiosamente Rumi era rapito per la figura del suo maestro e metteva la sua firma assieme a quella del suo maestro.

In ‘Iraqi e in Rumi la manifestazione di Dio (teofania) è totale e tutti la sentono, anche i morti, viene paragonata alla brezza dello zefiro. La teofania è un attimo totale di rapimento. L’apertura viene provocata dal fatto che dietro ogni cosa c’è Dio. “Nella bellezza dei visi delle belle vi era Lui”, scrive ‘Iraqi.

All’interno della cultura islamica e del sufismo il termine qalandar indica i dervisci erranti. È una parola dalla radice iranica, che vuol dire qualcosa come sregolato, fuori dalla legge. All’origine designava gruppi di asceti che rifiutavano una collocazione all’interno della società, vivevano di mendicità, senza casa, vagabondi. Questo modo di vita era visto in maniera abbastanza inquieto dall’Islam ortodosso. Ma essi non volevano nulla del mondo, un po’ come gli asceti sufi dell’inizio, e non la ricerca dell’anomia in quanto tale.

L’autorità civile e molti sufi criticavano questo modo di vivere del qalandar in quanto poco stabile, poco regolare. Il fatto che ‘Iraqi si innamora di un suo amico e fugge con lui dà l’idea del qalandar. Però negli scritti dei sufi il qalandar è l’amante per eccellenza. Quindi il qalandar è qualcosa di ambiguo: alcuni lo accettano, altri lo rifiutano.

Dai qalandar bisogna distinguere i malamatin, che erano considerati negli scritti dei sufi degli adepti che hanno scelto la via del disprezzo di sé: essi fanno voto di essere odiati dagli altri; rifiutano ogni forma di compiacimento della propria anima. Quando Ibn Arabi traccia le categorie degli amici di Dio, cioè i grandi santi, sistema tra i più importanti i malamatin. Questo ha fatto sì che la scuola dei malamatin in un certo periodo diventa assai pregiata, anche se essere un malamatin è un segreto. Ci sono due modelli di malamatin: il grande carismatico (il modello è Mosè, che scende dal monte di Dio con il volto trasfigurato) e quello che nessuno nota (il modello è il Profeta, che ascende dove sta Dio e poi torna sulla terra senza nessun cambiamento nel volto e parla con gli uomini delle cose comuni, i problemi della comunità). Il grande autore persiano Hafez viene considerato il portavoce dei malamatin.

 

 

 

Bibliografia

 

 

  • Ahmad Ghazali, Delle occasioni amorose (Sawanih), a cura di C. Saccone, Roma 2007;

 

  • R. Baqli, Le jasmin des fidelès d’amour, a cura di H. Corbin, Paris 1991;

 

  • F. ad Din ‘Iraqi, Ushhaq-Name (The song of Lovers) , trad. A. J. Arberry, London 1939;

 

  • H. Corbin, Nell’Islam iranico, vol. III (I Fedeli d’Amore), Milano 2017;

 

  • C. Ernst, Ruzbehan Baqli: Mysticysm and the rethoric of Sainthood, New York 2003;

 

  • S. Foti, Aspetti dell’amore mistico nella Vita Nova di Dante e in Ruzbehan, in Quaderni di Studi Indo-mediterranei, Alessandria, Dell’Orso, 2017;

 

  • C. Saccone, Il maestro Sufi e la bella cristiana, Roma 2005.

 

 

Autore

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 47 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

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