11 Dicembre 2024
Lorenzoni

Il meticciato linguistico

Di Silvano Lorenzoni

Le vie dell’involuzione degenerativa sono molteplici e si costituiscono a ‘filoni’ che si sovrappongono, si intrecciano, si accavallano e interagiscono fra di loro.

Uno di questi filoni degenerativi è quello linguistico, al quale è stata concessa poca attenzione da parte degli studiosi anche se è del massimo interesse scientifico e del massimo significato culturale nel mondo contemporaneo. Sta di fatto che al rango di mezzo di comunicazione-principe ed idioma portante del mondo contemporaneo è assurto il papiamento americanese, il cosiddetto ‘inglese’. I dettagli verranno più avanti, ma sia subito reso chiaro che l’isola inglese, almeno dal 1940, fa parte degli Stati Uniti d’America, dei quali rappresenta il tentacolo e la testa di ponte davanti alle coste dell’Europa. Inoltre, chiamare certa gente ‘anglosassoni’ dovrebbe fare per lo meno da ridere: con la stessa logica gli abitanti della Padania dovrebbero essere detti ‘longobardi’ e quelli della penisola Iberica ‘visigoti’.

Il fatto che un idioma del tutto degenerato sia divenuto l’idioma portante di tutta un’epoca storica, da adito a conturbanti considerazioni. Secondo Alain de Benoist e Giorgio Locchi (Il male americano, LEDE, Roma, 1978), l’uso di un linguaggio degenerato – come lo è l’americanese, questo verrà subito sviluppato – ha conseguenze teratologiche sulla capacità di espressione e, di rimbalzo, sulla stessa qualità umana di chi lo utilizza (ammesso pure che l’accettazione e magari l’adozione di un idioma del genere come proprio principale mezzo di comunicazione non stia a indicare che fra coloro che così fanno ci sia già in partenza qualcosa di psicologicamente ‘fuori di posto’). Il saggista Richard Helm (sulla pubblicazione non periodica Der Südafrika Deutsche, Pretoria, marzo 1990), quando affrontava il problema di proporre quale potesse essere l’idioma appropriato in una società formata dai nietzscheani ‘ultimi uomini’, quindi dei meno umani degli ‘umani’ immaginabili, diceva che “Die dadurch notwendige Lingua-franca aber musste einerseits so primitiv sein, dass auch diejenigen sie benutzen konnten, die aus Gegenden weitab der Zivilisation hinzugezogen waren; und zugleich so effektiv dass jeder rasch genug erhielt was er forderte. Ausserdem sollten darin möglichst alle solche Worte und Begriffe fehlen, die über die alltägliche Bedurfnisse hinausgingen und die den Menschen ja doch nur zu unnötigen Nachdenken verleitet hätten. Schliesslich setzte sich die englische Sprache durch [La lingua franca più appropriata doveva, per incominciare, essere tanto primitiva da potere essere usata anche da coloro che provenissero da luoghi lontani da ogni civiltà; e in secondo luogo sufficientemente efficiente perché si potesse venire subito incontro alle richieste di ognuno. Inoltre, essa doveva escludere tutte quelle parole e tutti quei concetti che fossero al di sopra delle necessità giornaliere e che quindi potessero innescare nelle persone un qualche tentativo di ragionamento. Finalmente, si impose la lingua inglese]”. Richard Helm aveva avuto un insigne predecessore nell’Imperatore Carlo V che, agli inizi del secolo XVI asseriva che lui parlava in tedesco con i militari, in italiano con i diplomatici, in francese con le dame, in spagnolo con i teologi e in inglese con i cavalli (vedi il mensile Orion, Milano, febbraio 2004).

A questo punto, prima di entrare in dettagli sia storici che linguistici dell’idioma americanese, ricordiamo che il linguista Claude Hagège (Le Souffle de la langue, Odile Jacob, Paris, 1992) classificava l’americanese come un idioma sintatticamente e grammaticalmente bantù; e che non a caso, in Sud Africa, dopo il 1993, per negrizzare le istituzioni docenti si utilizzò la tecnica di eers verengels, dan verkaffer [prima anglificare, poi negrizzare] (vedi il mensile Veg, Pretoria, aprile 1995).

L’americanese ha anche una particolarità nella sua forma scritta, particolarità che esso condivide (sempre e soltanto per quel che riguarda la scrittura)con soltanto un’altra lingua al mondo, quella tibetana. Si tratta del disordine calligrafico, per cui non c’è una correlazione se non al massimo di tipo statistico fra quel che è scritto e quel che si pronuncia. La scrittura dell’americanese viene eseguita usando le lettere dell’alfabeto latino (quella del tibetano usando lettere sanscrite) , ognuna delle quali sottende un determinato suono. Ma siccome il modo in cui la parola scritta viene pronunciata non ha generalmente che ben poco a che vedere con i suoni indicati dalle lettere che la compongono, la procedura che, magari in modo automatico, deve essere seguita per leggere ad alta voce una parola scritta in americanese è come segue: bisogna (a) individuare le lettere, una ad una, nel loro ordine, (b) sopprimere la tendenza a pronunciare la parola come suggerirebbe la sua grafia, (c) richiamare alla memoria il geroglifo, costituito da quelle lettere nel loro ordine specifico (processo più difficile che leggere una lingua geroglifica pura tipo il cinese), (d) emettere il suono o insieme di suoni corrispondenti, caso per caso, al geroglifo. Si tratta dunque di una scrittura di tipo geroglifico particolarmente involuto. Studi neurologici e neuropsichiatrici recenti hanno indicato che i meccanismi cerebrali che vengono attivati nella lettura dell’americanese sono diversi da quelli attivati
per la lettura di qualsiasi lingua europea (vedi Alberto Oliviero sul quotidiano Corriere della sera, Milano 5 marzo 2000).

Premesso quanto sopra, si può passare a fare un tentativo di analisi storica strutturale e psichiatrica della genesi e forma dell’idioma americanese. Per incominciare, vale lo studio del fenomeno dell’universale fenomeno del meticciato linguistico, un filone degenerativo nel campo della linguistica. Nello stesso modo che il meticciato biologico porta a effetti teratologici distruttivi, il meticciato linguistico è uno dei fenomeni degenerativi della psiche (il modo di pensare) che alla lunga avrà anche effetti psicopatologici comportanti dissoluzione esistenziale e degenerazione anche somatica.

Il ‘papiamento’ è quell’intruglio di spagnolo, portoghese, olandese e americanese che è parlato stabilmente nelle ex-Antille Olandesi, dove è assurto allo status di lingua ufficiale. Un ‘papiamento’ (neologismo dello scrivente) indica qualsiasi intruglio linguistico utilizzato per ragioni di necessità di scambio e di intesa fra gruppi linguisticamente eterogenei trovatesi a essere in contatto per durate più o meno lunghe senza che ci sia una totale acquisizione culturale, e quindi linguistica, dell’una da parte dell’altra. Il fenomeno è stato vasto e diffuso; qui si daranno delle indicazioni sullo sviluppo di diversi papiamenti, sia in Europa che in certe aree terzomondiali.

Il più antico papiamento di cui si abbia notizia risuonava nella Penisola Italica quando Roma non aveva ancora grande importanza: a Faleria ci fu un incrocio latino-etrusco (Massimo Pallottino, La storia della prima Italia, Rusconi, Milano, 1960) usato per gli scambi commerciali e che scomparve senza lasciare traccia dopo che Roma divenne potente. Un papiamento di lunga durata fu, in Spagna, la algarabía, mescolanza di spagnolo e arabo usata sulla frontiera fra gli stati spagnoli e quelli islamici: il suo utilizzo si mosse sempre più a Sud a seconda che la frontiera si spostava, salvo scomparire definitivamente nel giro di una generazione dopo l’espulsione definitiva dei musulmani dalla Spagna (il vocabolo algarabía sussiste ancora nello spagnolo moderno e sta a significare una cacofonia di urlamenti sconclusionati). Nei porti del Mediterraneo, ancora nel Settecento, le svariate ciurme si intendevano fra di loro e con le prostitute usando la lingua franca, fatta di spagnolo, francese, italiano, greco, turco e arabo. – In Slesia, durante il medioevo, le ciurme miste germanofone e slavofone che manovravano le chiatte che portavano legnami verso occidente lungo i grandi fiumi si intendevano usando il Wasserdeutsch, misto tedesco-polacco. Adesso, per denaturare le popolazioni centroeuropee, si sta cercando di diffondere al massimo un idioma a base di tedesco ma pesantemente inficiato di americanese, detto sprezzantemente, da chi ha un briciolo di dignità denglisch (un esempio estremo di denglisch, scritto probabilmente con scopi canzonatori, è stato pubblicato a firma di tale ‘Eike Rux’ nel mensile Phoenix, Sibratsgfäll, gennaio 2012).

Nelle Americhe, siano menzionati gli ormai estinti Pennsylvania-dutch, misto tedesco-americanese che fu parlato in certe zone degli Stati Uniti d’America per un determinato periodo di tempo (secoli XVIII – XIX); il talián, intruglio veneto-portoghese nel Brasile meridionale e il cocoliche, misto italiano-spagnolo che risuonò a Buenos Aires alla svolta dei secoli XIX –XX.

Nel cosiddetto Terzo Mondo, a livello di popolazioni infime, sono documentati, per esempio, dei papiamenti bantù-boscimaneschi nella zona dei pantani dell’Okawango (Martin Gusinde, Von gel ben und schwarzen Buschmänner, Akademische Druck, Graz, 1966). Lo swahili è un papiamento a base di arabo, con importanti immissioni bantù e un pizzico di portoghese, assurto a lingua ufficiale in alcuni ‘paesi’ dell’Africa equatoriale. Il pidgin papiamento papuaso-americanese con un pizzico di cinese è lingua ufficiale nella Papuasia-Nuova Guinea.

Da notarsi che questi idiomi artificiali, degenerati e degeneranti, in Europa scomparvero senza lasciare traccia e in brevissimo tempo non appena cessarono di essere funzionali a determinate situazioni. Unica eccezione: l’’inglese’/americanese – ammesso che l’isola inglese possa essere vista come facente parte dell’Europa.

Che l’americanese sia un papiamento, è difficile contestarlo: “ … d’abord, par moitié français mal prononcé et moitié Niederdeutsch prononcé ancore pire [per metà francese pronunciato male e per metà Niederdeutsch pronunciato peggio ancora]” – così il compianto politologo francese Henry Coston, che onorò lo scrivente della sua amicizia nei primi anni Ottanta. Il carattere bantù dell’americanese, esplicitato senza mezzi termini dal già menzionato Claude Hagège, è stato messo in rilievo – comicamente, senza rendersene neppure conto – dalla linguista americanofona Alice Werner (Introductory sketch of the bantu languages, Kegan & Paul, London, Inghilterra, 1919): secondo lei, l’assenza del genere grammaticale in una lingua ‘altamente evoluta’ come l’americanese la avvicinerebbe alle lingue bantù. E ne dovrebbe seguire che, a rigore di logica, che le ‘psicologie determinanti’ sia delle lingua bantù
che dell’americanese potrebbero ormai essere analoghe – non a caso lo scrivente in una sua recente opera suggeriva che nell’americanese, forse, ha da vedersi un bantù in formazione, oppure il bantù del futuro.

La qualità di paiamento dell’idioma americanese, senza che mai ci fosse da parte di coloro che lo parlarono e che lo parlano un tentativo di scuoterselo d’addosso, ha avuto effetti profondi, intaccando la loro qualità umana trascinandoli ormai verso la negrizzazione psichica. – Vale l’importante osservazione che la mappatura delle lingue africane sull’americanese è molto più agevole che sulle lingue europee (Charles Doke, Outline of grammar of bantu, Dept. Of african languages, Rhodes Univ. Grahamstown, Sud Africa, 1982). – E significativa è anche la casistica di quel ‘papiamento di secondo grado’ che è il cosiddetto fanakalò, parlata sviluppata e usata negli ambienti minerari sudafricani (adesso snobbata in quanto ‘retaggio coloniale’) (Arthur Sparks, Translation programs for construction and mining, testo di una conferenza tenuta Midrand, Sud Africa, nel 1992). Contrariamente a quanto credevano tanti che pure lo utilizzavano, il fanakalò non è una forma di ‘americano bantuizzato’ (una sorta di black english [inglese negro] sul tipo di quello che ormai, nel mondo cosiddetto ‘anglosassone’ sta diventando l’idioma utilizzato anche dai ‘bianchi’) ma uno zulù americanizzato – importantissimo il fatto che, americanizzandosi, lo zulù venne addirittura a perdere buona parte delle sue pure modeste forme sintattiche e grammaticali: si appiattì.

Chi poi abbia studiato un poco la topografia linguistica del cosiddetto Terzo Mondo avrà rilevato che in quei luoghi si è sviluppata una crescente americanizzazione linguistica (vedi il già citato Claude Hagège; ma anche un ottimo breve saggio di Aldo Braccio nel trimestrale L’uomo libero, Milano,ottobre 2002), spesso a costo delle parlate aborigeni che vengono soppiantate da papiamenti di secondo grado a base di americanese. L’americanese non solo è una varietà di espressione lessicale adeguata/appropriata per le genti di colore,ma è il trampolino-principe per lanciare papiamenti di secondo grado.

(Un’osservazione ‘volante’ è che gli ebrei adesso, maggioritariamente, parlano lo jiddish, un papiamento a base di tedesco renano con aggiunte lessicali slave ed ebraiche. Ma paiamento è anche l’ebraico (Eustace Mullins, Mullins’ new history of the jews, Institute of jewish studies, Staunton, America, 1978), generalmente classificato come lingua semitica, guazzabuglio di aramaico, copto, bantù, ecc. Non a caso c’è chi ha notato delle notevoli e innegabili affinità psicologiche fra ebrei e ‘anglosassoni’, che si riflettono anche sul fatto linguistico.)

Chiudiamo questo studio linguistico indicando che l’americanese ha anche delle interessanti affinità con le lingue boscimanesche: questo studio, che lo scrivente sappia, è solo suo personale e fu da me intrapreso quando per la prima volta risiedetti in Sud Africa, nei primi anni Settanta. E sia anche notato, per debito di giustizia e di obiettività, che da uno studio approfondito e senza pregiudizi diviene chiaro che i boscimani e gli ottentotti non hanno alcuna ragione per nutrire ‘complessi’ rispetto ai cafri. Potrebbe benissimo darsi che in un passato neanche tanto remoto quel briciolo di civiltà che i negri dell’Africa pre-coloniale possedevano, fosse almeno in parte di origine boscimanesca. Bantù ottentottizzati sono ancora i dama dell’Africa Sud-occidentale e i quadi dell’Angola meridionale (Erich Westphal, The linguistic prehistory of southern Africa, Città del Capo, 1963); mentre è attestato che in tempi ancora recenti (secolo XIX) alcune stirpi bantù dell’Africa meridionale erano vassalle di ‘signori’ boscimaneschi (per esempio Marion Walsham-Howe, The mountain bushmen of Basutoland, van Schaik, Pretoria, 1962; George Stow, The native races of south Africa, Swann, Sonnenschein & Co., London, Inghilterra, 1905). Ciò premesso voglio indicare un autore americanofono o che per lo meno scriveva in americanese (ma la sua lingua doveva essere lo jiddish, il che non fa grande differenza) (Isaac Schapera, The khoisan peoples of southern Africa, Kegan & Paul, London, Inghilterra, 1930) che, nella sua vasta opera riassuntiva sull’antropologia culturale di ottentotti e boscimani, notava come molte proposizioni in lingua boscimanesca coincidessero esattamente, e con la stessa sequenza di vocaboli, con le proposizioni dallo stesso significato in idioma americanese. Questo fatto egli, americanofono, lo trovava strano e interessante – e anche ‘sfizioso’, carino. Quale potesse essere, in profondità, il suo significato, forse non se lo immaginava neppure.

A questo punto possiamo fare l’osservazione finale, collegandoci all’inizio di questo breve scritto. L’americanese come mezzo di comunicazione verbale ha adesso un’importanza di tipo pragmatico, commerciale, venale, ma il suo uso sconsiderato senza prendere gli adeguati ‘antiveleni’ psicologici contro la sua qualità abbrutente e catagogica può portare, anche a breve scadenza a  condizioni psicologiche, e poi anche di vita vissuta, di tipo boscimanesco – o magari sub-boscimanesco cioè bantù, per quel che ne sappiamo. (Non solo l’americanese è catagogico per sua natura, ma l’abbrutimento di chi lo utilizza è anche la sua funzione assegnata – chi maneggia i mezzi di comunicazione di massa sa cosa vuole.) – Lo scrivente ha un notevole rispetto e anche simpatia per i poveri boscimani, ormai quasi estinti, ingiustamente ed erroneamente classificati come il fondo della scale ‘umana’ (si fa per dire).

Chi volesse approfondire si riferisca a due miei scritti nei quali troverà anche delle discrete bibliografie: Il selvaggio, Ghenos, Ferrara, 2005 e La figura mostruosa, Primordia, Milano, 2011.

4 Comments

  • donato 11 Marzo 2012

    Quindi Obama parlerebbe la sua lingua madre in un certo senso

  • donato 11 Marzo 2012

    Quindi Obama parlerebbe la sua lingua madre in un certo senso

  • italicus 13 Marzo 2012

    Articolo interessante. Mi interessa particolarmente “l’ufficiosa” dichiarazione a riguardo della lettura geroglifica del suddetto meticciato in questione,che condivido appieno. Mi chiedo se mai un giorno qualcuno troverà il coraggio di dichiarare apertamente che il meticciato in questione favorisce de facto l’incremento del numero dei già numerosi dislessici.

  • italicus 13 Marzo 2012

    Articolo interessante. Mi interessa particolarmente “l’ufficiosa” dichiarazione a riguardo della lettura geroglifica del suddetto meticciato in questione,che condivido appieno. Mi chiedo se mai un giorno qualcuno troverà il coraggio di dichiarare apertamente che il meticciato in questione favorisce de facto l’incremento del numero dei già numerosi dislessici.

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