4 Dicembre 2024
Storia delle Religioni

Il Brahman e l’Atman – Marco Calzoli

 

        I testi sacri dell’induismo sono i Veda. La parola sanscrita “veda” significa “conoscenza”. I Veda non sono testi mitologici ma sapienziali e filosofici. Mentre in Occidente la cultura si basa sulla informazione (sapere tante cose e poi avere la chiave per applicarle), invece la filosofia dei Veda si basa sulla trasformazione. Le verità ivi contenute devono portare al mutamento del soggetto che conosce. In sanscrito “verità” si dice satya, che deriva dal verbo “essere”: quindi la verità non va solo conosciuta astrattamente ma va vissuta. Pertanto lo scopo dei Veda è quello di portare alla liberazione l’allievo.

          Per la sapienza indiana ci sono tre forme base di sofferenza (klesha): quella che dipende da noi stessi (avere la mente troppo occupata, avere aspettative sbagliate), quella procurata dagli altri (anche Sartre diceva che l’inferno sono gli altri), quella che deriva dagli agenti naturali (come un terremoto). Tuttavia una persona in armonia non sé stessa, che grazie alle sue doti empatiche abbia buone relazioni e che per caso non sia colpita per nulla dalla natura, non è detto che sia felice. Quindi i Veda aggiungono anche una quarta forma di sofferenza, il tempo: arriva la vecchiaia, la morte degli altri e la nostra. I Veda cercano di eliminare queste forme di sofferenza per ripristinare lo stato detto di ananda, la beatitudine personale, che per la nostra anima (Atman) è molto naturale. Per noi è naturale essere felici! L’anima nasce felice e tutto ciò che ci discosta da questa felicità ci sembra assurdo.

        Per la conoscenza vedica tutti i rami del sapere concorrono a rendere operativa ananda. È una visione molto olistica del sapere. L’universo cospira per renderci felici. Per il mondo indiano il sapiente è acharia, che etimologicamente significa “comportamento”. Questo vuol dire che il vero maestro insegna soprattutto con il comportamento perché detiene il fulcro della vera conoscenza, che per lui non è solo astratta e teorica. Il vero sapiente indiano è anche saggio: sa come comportarsi e come operare per rendere felice il proprio allievo. Non è solo colui che ha studiato e trasmette delle teorie ma vive la sapienza che ha raggiunto incidendo profondamente nella vita dell’allievo.

        Per la filosofia occidentale svolge un ruolo centrale il progresso: un filosofo diventa importante se critica o dice qualcosa di diverso dai predecessori. Invece per quella indiana è l’esatto opposto: ha valore solo chi si allaccia alla tradizione.

         Parlare di testi in India è di per sé problematico. Quando noi parliamo di un testo, ci riferiamo a uno scritto al quale possiamo rifarci senza equivoci. In India non abbiamo testi scritti all’inizio, infatti per millenni il depositum fidei è stato trasmesso oralmente con l’aiuto di un sistema sofisticato di mnemotecniche, la messa per iscritto avvenne molto tardi. Rispetto all’oralità la scrittura è considerata di valore accessorio: la comprensione dei Veda deve essere mandata a memoria, ogni sillaba e ogni accento vanno ripetuti e cantillati in modo esatto secondo regole conservate da scuole di recitazione molto raffinate che nel corso dei secoli hanno garantito la trasmissione di questi testi. L’oralità trova la propria forza anche nel fatto che il vero insegnamento deve propagarsi da maestro a allievo.

        Nella tradizione indiana i Veda sono detti Śruti, letteralmente “ciò che è stato udito”, perché dogmaticamente i Veda non sono considerati frutto di uomo ma manifestazione dell’Assoluto che si sarebbe rivelato nella notte dei tempi all’umanità. I Veda sono in sanscrito apauruṣeyā, prodotto “non umano”. C’è stata una rivelazione fonica (di suoni) fatta dall’Assoluto e ascoltata dai Rishi. C’è una distinzione tra Śruti, ciò che è stato ascoltato dai Rishi, e Smriti, “ciò che è ricordato”. La prima costituisce la vera rivelazione, la seconda è la tradizione interpretativa dei Veda operata da esseri umani: Brahmasutra, Ithiasa, Purana, e così via. Si ritiene che tale letteratura commentariale sia vedica solo se rispetta il siddhanta dei Veda, cioè il loro scopo. I Rishi sono figure ascetiche e di santità che si perdono in illo tempore che avrebbero udito questi suoni. Ma i testi usano anche il verbo “vedere”: i Rishi avrebbero avuto anche delle visioni mistiche che essi iniziarono a tramandare.

          Il cuore della teologia vedica è il sacrificio, dove il fuoco ha il primato assoluto. Gli inni vedici venivano recitati anche per giorni e addirittura settimane in contesto rituale. Ogni sillaba di ogni inno vedico veniva declamata come un mantra. Mantra è un termine sanscrito che indica una formula da recitare: deriva da –tra, che indica la strumentalità, e da man-, che indica la “mente”. Quindi il mantra è uno strumento per focalizzare la mente con uno scopo preciso: ogni sillaba ha una potenza teurgica tale da rendere presente immediatamente la presenza divina che evoca. Gli inni vedici erano anche cantati secondo melodie tramandate dalla Śruti.

       La Śruti è composta dalla Samhita (i 4 Veda principali: Rig-Veda, Sama-Veda, Yajur-Veda, Atharva-Veda) più altri testi. La sezione della Samhita e dei Brahmana (opere dedicate a come praticare il rito sacrificale) è detta Karma-Kanda, letteralmente “sezione del Karma”. In epoca vedica per karman si intendeva l’atto rituale, la parola sanscrita infatti deriva dalla radice KRI (presente anche nel latino creare) che designa l’atto, ma per antonomasia, e per l’India vedica l’atto per antonomasia è quello rituale.

         Questa prima parte della Śruti è distinta dalla seconda, detta Jnana-Kanda, “sezione della conoscenza”, la quale è la porzione più recente della rivelazione vedica (Aranyaka, Upanishad). Vi troviamo un cambiamento di temperie spirituale e teologica. I Veda infatti si distendono in un arco temporale lunghissimo: i primi inni del Rig-Veda datano al XV secolo a.C., mentre le Upanishad più recenti datano ai primi secoli d.C.

         Il rito liturgico tipico della prima sezione si trasfigura nella seconda sezione in una essenza interiore e gnostica. Ricordiamo che nel periodo post-vedico le Upanishad diventano un genere letterario, quindi se ne sono prodotte molte altre e ancora oggi se ne producono, ma le Upanishad veramente vediche sono meno di venti.

         Nel Karma-Kanda attraverso la ripetizione rituale delle formule sacre (mantra) si crea un corpo fatto di parole, è il corpo manifesto del Brahman, formato anche da membra e organi. Attraverso questa realizzazione del Brahman si otteneva la propria immortalità beata. “Diventato un essere fatto di strofe e di melodie dei Veda, un essere fatto di immortalità, colui che così sapendo sacrifica alle divinità, arriva fino alle divinità” (Aitareya Brahmana). Invece nel Jnana-Kanda il rito si trasfigura in un processo interiore di conoscenza, per cui per ottenere la immortalità beata non bisogna officiare i riti e pronunciare i mantra ma avere la conoscenza del proprio Atman. Dissipando la mente inferiore, mediante la conoscenza di sé stesso, l’adepto riesce a ricongiungersi con il proprio Atman, che coincide con il Brahman, fino al completo raggiungimento dell’ananda, le felicità suprema.

          Nel tantrismo, sebbene sia un induismo non ortodosso, si riscontra un analogo passaggio dal rito esteriore alla conoscenza di sé ma in una sola pratica. Ci riferiamo a quel tipo di meditazione            tantrica per la quale dapprima si fa un rito esteriore (si meditano gli attributi della immagine della divinità alla quale vengono fatte offerte e recitati mantra) poi si giunge al rito interiore, nel quale l’adepto, abbandonando i supporti materiali, imparerà a meditare su di sé fino a che non comparirà la conoscenza assoluta di sé stesso.

        Le Upanishad sono dette anche Vedanta, cioè “fine (anta, in inglese abbiamo end) dei Veda”, in quanto la parte finale della Śruti ma anche culmine di tutta la rivelazione vedica. Si dice spesso nei manuali che Upanishad significa etimologicamente “sedere (sad, da cui il nostro “sedersi”) presso e in basso (upa-ni)”, cioè sedere vicino a un maestro per ascoltare il suo insegnamento. In realtà il più probabile significato etimologico è dal sanscrito “venerazione”, come sosteneva Oldenberg nel 1923, nel senso di ossequio all’essenza di tutto quanto esiste, oppure dal sanscrito “equivalenza” o “corrispondenza”, come argomentava magistralmente nel 1947 un sommo orientalista, Renou. Equivalenza tra piani della realtà: microcosmo e macrocosmo. Le Upanishad sviluppano tutta una serie di speculazioni tra uomo (microcosmo) e universo (macrocosmo).

         Queste equivalenze indagate dalle Upanishad sono varie, ma le più celebri in Occidente sono quelle tra Atman (anima individuale) e Brahman (Assoluto). Tat tvam asi, “Tu sei il Tat, il Principio Supremo”, e Aham Brahmasmi: “Io sono il Brahman”.

        Brahman deriva da una radice verbale sanscrita con il senso di “rendere vero” ciò che si dà: è una potenza impersonale divina che pone in essere la realtà. Del Brahman nulla si può predicare in quanto esso è “totalmente altro”, anyad eva, come dice una Upanishad, anche se è un principio immanente. Atman deriva dalla radice indoeuropea AN, “respirare”, da cui il latino anima. Atman è in sanscrito un pronome riflessivo che significa Sé, cioè la cifra più profonda di cui è costituito un essere, la sua “essenza”.

         Secondo una interpretazione, il linguaggio dei Veda sarebbe volutamente criptico: sotto la storia delle divinità e dei primi abitanti dell’India si nasconderebbero verità esoteriche che solo l’iniziato sarebbe in grado di decifrare. Per esempio le diverse divinità sarebbero allusioni a caratteristiche psicologiche dell’uomo.

         Tuttavia oggi gli studiosi propendono per una interpretazione storica della civiltà vedica. Gli ariani che penetrarono nel subcontinente indiano dove trovarono i dasyu, cioè gli autoctoni, sarebbero gli indoeuropei che dalle steppe dell’Est raggiunsero l’India portando la loro civiltà. La società vedica presentata da queste antiche scritture era composta da diverse etnie dall’autonomia politica (jana), suddivise a loro volta in popolazioni (vis). I capi erano ricchi allevatori e ricchi agricoltori i quali ingraziavano il popolo mediante luculliane feste nelle quali si consumavano gli animali uccisi nei sacrifici.

        Il sacrificio vedico (yajna) si basa sul gettare nel fuoco sacrificale la vittima, che prima sarà uccisa per soffocamento, senza spargimento di sangue, cosa che contaminerebbe l’area sacra. Il sacrificio si propone di “cuocere il mondo”, cioè di rendere il mondo – di per sé crudo, cioè indigesto, ostile all’uomo – qualcosa di cotto, cioè favorevole all’uomo. In buona sostanza il sacrificio vedico regge l’universo, senza il sacrificio l’universo intero perirebbe. Questa teologia si basa sul concetto di trasferibilità. Nel sacrificio vedico vi sono infatti tre sostituzioni:

 

  • Chi commissiona il sacrificio ai brahmani e procura la vittima sacrificale oltre a tutto l’occorrente per il sacrificio, offre sé stesso come vittima sacrificale, quindi l’animale simboleggia il committente; mediante questa sostituzione il committente commissiona il sacrificio ma al tempo stesso sopravvive; l’antecedente di questa pratica è il dio Prajapati il quale offre sé stesso in sacrificio per dare origine all’universo;
  • I meriti del sacrificio vengono trasferiti dai sacerdoti, che dovrebbero lucrarli in quanto compiono in prima persona il sacrificio, al committente;
  • La terza sostituzione avviene quando il sacrificatore mentre offre la vittima al fuoco dice che il sacrificio non è per lui ma per il dio Agni. Quindi i frutti del sacrificio non sono applicati per la intenzione del committente (come la nascita di un figlio o altro) ma vanno alle divinità, che in questa maniera, grate della offerta, tengono in piedi l’intero cosmo.

 

         Facciamo adesso alcune precisazioni. Ciò che noi chiamiamo “induismo” è una etichetta posta in passato dagli inglesi in riferimento alle credenze religiose indiane più antiche. La parola Hindu indicava all’origine il fiume Indo e la regione circostante, per estensione il termine passa ad indicare le terre che si estendono al di là dell’Indo. In seguito la parola “hindu” inizia a indicare una realtà antropologica per opposizione ad altre realtà: nel XV-XVI sec. gli hindu erano considerati diversi da mleccha/yavana (musulmani). Il termine hindu riuniva le persone che seguono determinate pratiche culturali come la cremazione dei defunti e lo stile alimentare. Infine nel XVIII-XIX sec. i colonizzatori inglesi e i missionari aggiungono “-ismo” al termine “hindu” e nasce l’induismo come religione quale la intendono erroneamente ancora oggi gli occidentali.

           In realtà l’induismo non esiste quale religione unitaria, come invece può essere il cristianesimo. Il cosiddetto induismo, infatti, è composto di sette molto diverse, con un credo proprio e pratiche proprie. Queste sette possono avere dei punti in comune, come a volte la credenza nella ispirazione divina dei Veda, ma non si tratta affatto di esperienze religiose assimilabili tra di loro.

        Secondo una sorta di vulgata filosofica cara agli occidentali, per gli induisti la nostra natura più vera (Atman) e l’universo sono una cosa sola, tutto il resto è illusione. Ma si tratta solo di un indirizzo, tra i tanti, entro la variegata filosofia indiana: è il cosiddetto monismo vedantico (quello propugnato da Sankara, il più illustre esponente, però pensiamo anche a Vallabhacarya). Ma in India ebbe molto successo anche l’indirizzo in qualche modo opposto, quello non monistico, che vede nell’universo elementi non omogenei tra di loro (pensiamo a titolo di esempio a Ramanuja, a Nimbarka, a Madhva).

        Inoltre, spesso noi occidentali pensiamo all’India come terra di forte spiritualità. Questo è senz’altro vero per la maggioranza degli indirizzi filosofici, che spesso hanno in ultima istanza un carattere religioso. Terra di grande fede religiosa (anche se non in senso occidentale, infatti l’induismo non conosce dogmi), l’India è considerata la dimora degli dei. Ma c’è stato anche qualche pensatore materialista e ateo: per esempio quelli della scuola Carvaka.

         Nondimeno, se vogliamo rifarci al monismo, la materia che ci circonda, il nostro corpo, i nostri pensieri e le emozioni non sono veramente reali poiché cambiano inesorabilmente nel tempo. Una pietra monumentale si sgretola, invecchiamo, cambiamo idee anche quelle che ci sembravano più vere per noi, siamo volubili, quello che prima ci emozionava adesso forse non ci fa più effetto o viceversa. Per questo l’induismo ritiene che tutta questa serie di cose non è in sé stabile, pertanto non è la vera realtà. E la chiama Maya, Illusione. Ma la Maya non è del semplice fumo che si disperde, essa infatti è per certi versi reale. Per capire questo concetto pensiamo ad un sogno. Quando dormiamo a Terni e la notte sogniamo di stare a Bologna, non è veramente reale la nostra visione interiore di stare in un’altra città ma non è completamente falsa, in quanto il sogno è una attività cerebrale e psicologica che può essere vissuta e quantificata secondo certi parametri. Insomma la Maya ha degli effetti, così come il sogno può far battere forte il nostro cuore quando ci emozioniamo alla visione interiore. L’esempio del sogno è imperfetto ma è utile per chiarire il concetto.

          Tuttavia gli induisti dicono che ci sia qualcosa di veramente reale: la Realtà. Questa Realtà, detta anche Assoluto, non cambia, non è soggetta alle leggi del tempo, quindi è eterna. Allora da una parte abbiamo tutto ciò che muta nel tempo, dall’altra la vera Realtà che non si trasforma mai. Essa è l’Atman, cioè la parte più vera di noi stessi, insomma il principium individuationis di cui parlava Jung. Oltre la sfera corporea e quella dei pensieri e delle emozioni, che mutano in continuazione (in sanscrito citta, “mente”), esiste qualcosa di stabile e di eterno. Questo Atman (microcosmo) coincide con il Brahman (macrocosmo), l’Assoluto nel senso di una entità divina intesa erroneamente fuori di noi. Atman e Brahman sono la stessa identica cosa ed è “ignoranza” (avidya) credere sia che noi siamo i nostri pensieri che cambiano sia credere che il nostro principium individuationis, ciò che siamo realmente, sia qualcosa di separato dal resto dell’universo. Pertanto per l’induismo la realizzazione sta nel liberarci dalla Illusione e dal riconoscerci Atman, un tutt’uno con l’Assoluto eterno.

          Nel VI secolo a.C., nel nord del subcontinente indiano, visse il Gautama Buddha, del quale non sappiamo il vero nome. Egli era un induista appartenente alla casta dei guerrieri, ma si risvegliò spiritualmente e abbandonò la vecchia religione fondando il buddhismo. Egli lo fece in diretta opposizione all’induismo. Il Buddha negava categoricamente l’Atman (almeno come lo considerano gli induisti). Per il Buddha ogni cosa muta, quindi non è reale, non è veramente vera. A questo cambiamento sottostà anche il nostro principium individuationis, pertanto anche l’Assoluto nell’universo. Perciò per il buddhismo la realizzazione sta non nel riconoscerci Assoluto, ma nel suo esatto contrario, nel perderci o estinguerci nel nulla che permea ogni cosa che esiste.

          Il Buddha parlava dei 5 skandha, gli aggregati, i costituenti della persona empirica. È un termine sanscrito, in pali si dice khandha. Sono rimasti solo tre canoni buddhisti: quello in pali, quello in tibetano e quello in cinese. Ma nei manuali sul buddhismo incontriamo spesso anche la traduzione delle parole del Buddha in sanscrito. Questo per via della importanza di questa lingua nella storia del buddhismo: molti bramani induisti si convertirono al buddhismo e scrissero opere molto importanti in lingua sanscrita, che conoscevano bene per via del retaggio culturale nella religione precedente.

          I 5 skandha sono quelle entità non reali che però ci fanno credere di avere una realtà stabile. Attraverso gli skandha noi crediamo di non mutare, quindi di essere veri, di avere anche un Atman, ma si tratta semplicemente di una falsa credenza (“ignoranza”, avidya).

         Gli skandha sono:

 

  • Forma (rūpa)
  • Sensazione (vedanā)
  • Percezione (saññā)
  • Coefficienti (sankhāra)
  • Coscienza (viññāna).

 

           Abbiamo innanzitutto una forma, un involucro corporeo, attraverso il quale crediamo di avere delle sensazioni. Le sensazioni sono il contatto tra l’organo di senso corporeo con un oggetto (occhio/colore). Dalle sensazioni derivano le percezioni, che sono il giudizio che ci facciamo riguardo le prime. I coefficienti sono tutti quegli elementi che si sedimentano in noi a causa delle sensazioni e delle percezioni (è insomma quella personalità, quel principium individuationis formato da preferenze, giudizi, pensieri, emozioni, memorie). Infine la coscienza è tale perché siamo consapevoli di quello che percepiamo.

         Per il buddhismo i sensi non sono 5 ma 6. Ogni senso ha oggetti di senso (l’occhio ha i colori) e ogni senso, percependo, conosce in parte la realtà. Se le cose stanno in questa maniera, anche la mente è un senso in quanto ha oggetti di senso (pensieri) e sentendoli conosce la realtà.

         La coscienza è cosa diversa dal pensiero che è un coefficiente. Non basta avere pensieri per avene coscienza. Nella pratica meditativa si focalizza l’attenzione, infatti, sul fatto che abbiamo moltissimi pensieri ma ne abbiamo coscienza solo di pochi.

          Attraverso i 5 skandha abbiamo l’illusione di avere qualcosa di stabile. In realtà corpo, sensazioni, percezioni, pensieri, emozioni e quant’altro cambiano in continuazione (come vuole anche l’induismo), mentre la coscienza, che anch’essa darebbe allo sguardo superficiale una illusione di stabilità della nostra interiorità, si attiva a momenti. Per il buddhismo la coscienza è sempre coscienza di qualcosa (come voleva anche Husserl). Non esiste una coscienza vuota! Si attiva solo quando siamo consapevoli di qualche cosa, quando non lo siamo la coscienza non c’è. Pertanto in noi e fuori di noi non c’è nulla di stabile e di eterno. È tutto nulla, vuoto.

          Questo è il concetto di anatta (che deriva da a + Atman, cioè “non Atman”), parola non usata dal Buddha storico ma ideata dalle prime generazioni successive.

          Nel secondo discorso del Buddha (Anattalakkhana Sutta: “Discorso sulla spiegazione dell’anatta”) egli espone il concetto di non Atman. Nel titolo di questo Sutta (“discorso” in pali) vi è la parola anatta, ma il titolo non è stato dato dal Buddha bensì dalle generazioni successive. È un discorso breve.

        Quasi tutti i discorsi del Buddha iniziano con l’espressione evaṃ me sutaṃ (in pali, mentre in sanscrito è: evaṃ mayā śrūtaṃ), “così ho udito”: indica l’autenticità di quel discorso, cioè c’è qualcuno, in questo caso uno dei più importanti monaci che fu in diretto contatto con il Buddha, il quale affermava di aver sentito queste parole del Buddha. Tali parole venivano tramandate oralmente da monaco a monaco, ma ad un certo punto i monaci non erano più d’accordo sulla interpretazione dei discorsi, quindi sorse l’esigenza di mettere per iscritto le parole del Buddha.

         Il Buddha era un asceta, come tanti che ce ne erano in India, il quale, dopo aver capito che due maestri non lo soddisfacevano, prima praticò da solo e poi incontrò cinque asceti con i quali fece gruppo. Si diedero alle pratiche più estreme fino a quando il Buddha stava defecando nella posizione classica degli indiani, alla turca, accovacciato con i piedi a terra, ma per la sua estrema debolezza causata dalle pratiche ascetiche cadde sulle proprie feci e a quel punto disse qualcosa che denuncia la provenienza del Buddha, dalla casta dei guerrieri (rango elevato): “Non è nobile per un essere umano cadere sulle proprie feci”. Egli quindi capisce che un ascetismo estremo non è appropriato. C’è nelle vicinanze una donna che stava lavorando i campi, essa lo aiuta a sollevarsi e gli offre un piatto di riso. Egli mangia e i cinque asceti vedono che lui mangia e dicono tra di loro: “Questo è un falso asceta perché ha rotto il digiuno e allora lo abbandoneremo”. Allora il Buddha rimane ancora da solo e continua con le sue pratiche, ma che non saranno più estreme. Ad un certo punto siede sotto un albero e dice a sé stesso: “Io non mi alzerò più da questo albero fino a che non raggiungerò la verità completa, cioè l’illuminazione”. E quindi la raggiunse, per questo si propose di predicare la sua verità. Andò a cercare il primo maestro, ma era morto; il secondo nel frattempo era morto anche lui; quindi si ricordò dei cinque asceti che lo avevano abbandonato. Gli asceti lo vedono arrivare da lontano, lo riconoscono ma non si alzano per onorare la sua presenza, come era regola. Egli avanza e riconoscono bene i tratti del suo viso, quindi capiscono che qualcosa in lui è cambiato, la illuminazione cambia l’aspetto della persona, allora capiscono che hanno a che fare con un realizzato e a questi cinque asceti il Buddha fa il primo discorso. Ne rimangono convinti e chiedono di entrare a far parte della sua scuola: questi sono i suoi cinque monaci.

          In questo secondo discorso il Buddha parla ancora ai cinque monaci. Il primo discorso li ha convertiti, invece il secondo ha procurato loro nientemeno che la liberazione. Il Buddha dice che il corpo non è l’Atman in quanto muta nel tempo. Non dice che non c’è l’Atman, ma dice solo che il corpo non è Atman! Egli poi usa le stesse parole per dire che anche la sensazione non è Atman.

         Il Buddha ripete le stesse frasi per via di una esigenza mnemonica, ma non solo, anche perché il ritornare più volte sullo stesso testo serve per far sì che la verità contenuta nelle parole possa entrare più profondamente nel discepolo (pratica di interiorizzazione della verità).

         Ricordiamo che nel metodo dialettico dei Dialoghi di Platone, Socrate non è detentore della verità, ma aiuta l’uditorio a pervenire alla verità mediante un processo logico. Così sono strutturati anche i discorsi del Buddha. Abbiamo anche qui una sorta di metodologia dialettica, non impositiva ma propositiva, nella quale il Buddha accompagna l’uditorio alla scoperta della verità, o meglio della “sua” verità.

         Così è anche per la percezione, per le formazioni mentali e per la coscienza. Quindi per ora il Buddha dice che nessuno degli skandha è l’Atman.

          Egli continua. La forma (corpo) è impermanente, quindi ciò che è impermanente è doloroso (in quanto soggetto al cambiamento), allora la forma non può essere l’Atman. Per la filosofia induista la Realtà vera è qualcosa che non muta, che è permanente, pertanto ciò che è impermanente non solo non è vera Realtà ma non può dare la totale garanzia della felicità in quanto passerà con il tempo, ritornerà nel non essere. Quindi, conclude il Buddha, una cosa impermanente come il corpo non può dare la felicità, allora non può essere l’Atman, che coinciderebbe per gli induisti con ananda, la perfetta felicità.

         Per il buddhismo c’è una sola cosa che non muta: esso è il nirvana, cioè la liberazione, l’illuminazione, la realizzazione. Solo il nirvana è l’unica cosa stabile. Ma c’è una differenza fondamentale tra Brahman/Atman induista e nirvana buddhista: il primo è eterno, il secondo no. Eterno vuole dire che non è nato e non morirà, non si origina. Invece il nirvana non è eterno in quanto si origina, il Buddha stesso ad un certo punto raggiunge il nirvana, che prima non c’era. Allora il nirvana ha un inizio, pur non avendo una fine. Dal nirvana non se ne esce più!

           Dato che il corpo è impermanente e luogo di dolore, allora il corpo così considerato “secondo la retta conoscenza” (alla quale perviene una mente che ha accettato la dottrina buddhista) farà dire all’uomo: “Io non sono il mio corpo”, quindi il corpo non è l’Atman. Il corpo non è il Sé dell’uomo, non costituisce l’essere umano. Stesso discorso anche per gli altri skandha. Il Buddha non dice che Atman non esiste, ma Atman non è mai uno dei cinque skandha.

           Nel momento in cui si riconosce che i fenomeni che costituiscono l’uomo, sono così fatti, cioè non sono il Sé, allora l’uomo si distacca, si dis-identifica dai vari skandha che prima riteneva essere ciò che lo definivano metafisicamente. Dal momento che l’uomo si distacca dagli skandha, si allontana anche dal desiderio.

         La fine del desiderio non coincide con la fine degli skandha: il Buddha non si liberò dai suoi skandha quando raggiunse la illuminazione, gli skandha non erano tornati al non essere, ma il Buddha si era liberato da essi (si era dis-identificato). Il Buddha, liberato dal desiderio, raggiunse in questa maniera la verità e la liberazione. La libertà dal desiderio non è la soppressione del desiderio né la lotta contro il desiderio, ma è qualcosa che naturalmente emerge nel momento in cui l’uomo raggiunge un mutamento di rapporto con gli skandha.

          Non è detto che nel buddhismo la sola via per la liberazione è la meditazione, che pure è importantissima per questa via. Lo stesso Buddha la raggiunse con la meditazione. Ma la liberazione non è qualcosa di causato da una pratica, ma è un processo naturale, che sorge spontaneamente dalle più disparate situazioni (come emerge chiaramente in molta novellistica Zen).

          Bisogna fare una precisazione riguardo anatta. La questione è complessa e molto dibattuta. Ci rifacciamo quindi solamente a una teoria. Per alcuni, anatta non è assenza di Atman ma assenza di una soggettività psicologica all’insegna dell’Io sostanziale, cioè metafisicamente esistente. Infatti nel buddhismo qualcosa di legato all’Atman è la cosiddetta “natura del Buddha”. Il Buddha non dice che non esista un Atman (Sé) in quanto tale, ma un Io legato ai sensi e a una coscienza soggettiva. La natura del Buddha è la nostra vera natura, che non coincide con una identità precisa (cioè un Io stabile) ma con una specie di sostrato impersonale senza fenomeni.

          Il fenomeno è impermanenza (aniccia), quindi l’Io che si basa sui fenomeni è anatta, cioè non c’è in quanto muta costantemente con il mutare dei fenomeni. Allora nulla può essere garanzia di felicità. Infatti la impermanenza dei fenomeni e un Io legato ai fenomeni che muta, sono causa di sofferenza (dukkha).

           Aniccia, anatta e dukkha riguardano non solo l’uomo ma tutto il mondo. Un carro ha un Io? Se c’è dove sta? Non c’è un Io del carro in quanto il carro è fatto di pezzi. Ogni pezzo di cui è costituito non ha un Io, non c’è una essenza-carro, un Sé metafisico del carro, per cui si possa dire che un carro in quanto carro esista.

           Questo ci porta a dire cosa sia il nulla, il vuoto per il Buddha storico. Il nulla è l’anatta: dietro ad ogni realtà non c’è qualcosa di personale (nelle cose e nell’uomo). L’essere umano è composto di skandha: egli è nulla in quanto non ha un Io stabile ma è fatto di skandha, di pezzi. Questi singoli skandha ci sono o no? Gli skandha esistono così come i pezzi del carro.

           In seguito il buddhismo dirà che ogni cosa non esiste, ma nel Buddha storico non c’è la teoria del nulla assoluto. Il Buddha storico dice solamente che ogni cosa non ha una identità, egli nega l’Io nelle persone e la essenza delle cose, ma non è detto che non esistano in sé.

          Per il Buddha storico c’è una realtà, impersonale, che esiste in tutte le cose, uomo compreso: questa è la cosiddetta “natura del Buddha”, che il Buddha storico non ha indagato dettagliatamente ma che sarà enormemente sviluppata dalla dottrina buddhista successiva.

          Le parti di cui sono costituite le cose sono dette dal Buddha dharma: sono gli elementi che pur costituendo la realtà, NON possono essere suddivisi ulteriormente, secondo una teoria analoga a quella di Democrito. Nella tradizione buddhista la parola dharma significa anche la legge, la regola, l’insegnamento del Buddha.

Bibliografia

 

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Fonte immagini: Wikipedia

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