Portava il nome del Faust Goethe, omaggio di papà Luigi al grande letterato tedesco, l’ultimo uomo universale secondo T. Eliot, d’altronde s’ era laureato a Bonn in filologia romanza, ma il primo nome era, per tradizione, del nonno materno, Calogero, perciò tutti, in famiglia, lo chiamavano Lulù. Terzogenito dello scrittore siciliano, aveva un fratello, Stefano, uomo di penna e una sorella, Rosalia (Lietta). Lui era sbocciato in un villino liberty di via Antonio Bosio a Roma, da mamma Maria Antonietta Portolano, era il 17 giugno 1899. L’infanzia la trascorreva, d’ estate, nella Sicilia delle sue radici, la terra di Girgenti, in quella casa paterna della celebre contrada nomata prima u Càusu poi Caos per via che nei pressi c’era un intricato bosco. Poi dopo il 1903, col crollo della miniera di zolfo che dava copioso sostentamento alla famiglia e le impreviste difficoltà economiche della famiglia, l’aria di mare fu quella di Porto Empedocle presso i nonni materni fors’anche per lenire i primi segnali dei disturbi mentali di mammà Antonietta. Colori forti, profumi densi, carnalità e soprattutto quel tempo in sospensione saranno i cromosomi della sua lunga stagione di pittore con l’animo e la memoria vestiti di quei ricordi dell’infanzia. Ci sovvengono alcuni versi della prospettiva Nevsky di Franco Battiato dove si miscelano schegge della sua adolescenza a Catania con le guardie rosse di S. Pietroburgo e Igor Stravinskij. Il suo maestro fu papà Luigi pur nel contorto, burrascoso rapporto genitoriale che il grande drammaturgo ebbe con la propria prole, in particolare con la povera Lietta, aspirante suicida poi addirittura diseredata per via del suo matrimonio, il tutto motivato dalla progressiva follia della moglie ma anche dal suo carattere possessivo ( “io sono la follia di Antonietta” ebbe a dire). Sarà proprio il padre a “trovare l’alba dentro l’imbrunire” per quel ragazzo dalla salute assai malferma sostenendo la vocazione di Lulù per l’arte se non altro perché anche Luigi si dilettava coi pennelli. Lo testimonia la mostra I due Pirandello tenutasi ad Agrigento in occasione dei 150 anni dalla nascita del drammaturgo ed organizzata dalla FAM Gallery nel 2017. Un dialogo interessante, muto, scritto con note di lirismo tra padre e figlio, sul pentagramma comune della pittura, pur nella diversità di stili e soggetti, ma anche con la presenza del genius loci, quell’Anticoli Corrado degli anni ‘30, paese piccino di artisti e modelle, dove Fausto aveva trovato moglie e che Luigi amava frequentare riscoprendo il gusto intimo di valori ancestrali.
Si possono scrivere fiumi di inutili parole sul tema L. Pirandello e i figli, mentre tra le tante congetture psico-pedagogiche, nel 2017 va in scena nella Sala delle colonne della Galleria d’Arte moderna e Contemporanea di Roma: Dialogo immaginario tra Luigi Pirandello e il figlio Fausto scritto da Luciana Grifi con il supporto, anche dell’archivio epistolare, messo a disposizione da Pierluigi Pirandello, ultimo nipote del drammaturgo ( deceduto il 1 marzo del 2018) e sua moglie Giovanna.
Nel dialogo Fausto rivela al padre: “È il mio sogno…che avvenga a me con la pittura come a te con il teatro…che le figure dei miei quadri diventino immortali come i personaggi delle tue commedie, che ciò che abbiamo immaginato e creato resti nel tempo…immutabile”. Il tempo della sua Sicilia aggiungiamo noi, quello della valle dei templi, un tempo sacro, immortale. Timido, introverso Fausto, autoritario, polemico Luigi, apparentemente due mondi tanto distanti tra loro eppure proiettati oltre la realtà sensibile, mostro di ipocrisie e convenienze, viaggio nella metafisica in senso etimologico. Dirà Fausto in un’intervista rilasciata nel 1969: «Veramente io non mi sono mai discostato da un riferimento alla realtà, anche se, anzi proprio perché la realtà è l’invenzione che ciascuno di noi fa del mondo che percepisce» c’è aria di famiglia in queste parole, esplorare la realtà immergendosi in essa per scrostarla dai coralli borghesi cercandone l’essenza come nelle sue nature morte, nelle sue numerose bagnanti.
A Roma frequentò gli studi fino al V Ginnasio presso il Convitto Nazionale poi fu iscritto al Liceo Classico Torquato Tasso senza conquistare la Maturità perché nel 1916 partì per la guerra essendo della classe ’99. Grande fu la contrarietà paterna, avrebbe potuto essere esentato in quanto già suo fratello Stefano era partito volontario sotto le armi, ma Lulù volle rispondere: presente! Non sparò un sol colpo, fu operato per un attacco di appendicite e dalle analisi effettuate scoprirono che i suoi polmoni erano intaccati dalla tisi. Mesi di convalescenza e cure a Firenze fino al congedo nel 1918. A diciannove anni stacca il cartellino per entrare nella diffice strada dell’arte, lui adora la scultura ma le polveri del gesso, del marmo sono letali per i suoi polmoni malandati, allora, su consiglio paterno, si volge alla pittura. Chi ha fatto il Liceo classico di tecniche di disegno ne sa poco e male, necessita di cure robuste, Fausto viene messo a lezione privata da Sigismondo Lipinsky, pittore ma soprattutto incisore erede della Deutsch Römer (“tedeschi romani”), una scuola nata dopo il soggiorno romano di A. Böcklin”.
Il 1919 è un altro anno crack per la famiglia, le ossessioni di mamma Antonietta, consumata dalla gelosia verso suo marito per le femminazze, ma forse causate dalla sua inadeguatezza a svolgere il ruolo di compagna di un grande scrittore, esigono ormai il suo ricovero a Villa Giuseppina a Roma dove resterà ospite fissa fino alla sua morte nel 1959. Di una tenerezza infinita la testimonianza degli operatori della casa di cura, Antonietta era ogni giorno pronta, pettinata, vestita, pronta con la valigia accanto ad aspettare il suo amato Luigi che venisse a prenderla per riportarla nel desco familiare, fu attesa vana purtroppo.
A ventun’anni Fausto esordisce realizzando una xilografia della copertina di Novelle per un anno di papà Luigi, pubblicazione dell’editore fiorentino Bemporad divisa in quindici volumetti.
Nel biennio ’22-’23 frequenta la libera Scuola d’Arte degli Orti Sallustiani fondata da due pittori Orazio Amato e Felice Carena e da uno scultore tosto, triestino irredentista, Attilio Selva ( il padre di mia zia Lucilla), soffia il vento del “ritorno all’ordine”, a Milano sboccia nel salotto di M. Sarfatti il gruppo Novecento, l’arte riscopre l’antico mestiere volgendosi alla grande tradizione del Rinascimento quale porto di imbarco. Lì stringe amicizia con il tonalista pugliese Emanuele Cavalli e Giuseppe Capogrossi esponenti di spicco della “scuola romana” dissoltasi al limitare della guerra, già firmatari nel ’33 del “Manifesto del Primordialismo plastico” con contaminazioni tra pittura e musica, a dire il vero un dejà vu nell’Astrattismo di Vasilij Kandinskij ( infatti Capogrossi nel dopoguerra riempirà di pettini le sue tele ). Intrigante fu quella Scuola d’Arte, vi si narrava d’un paesino arcaico affacciato sulla valle d’Aniene, Anticoli Corrado, un Parnaso agreste di artisti e muse locali, le famose modelle anticolane, ma anche i maschietti, per arrotondare, facevano la loro parte. Nacque per Fausto un idillio eco-artistico ma di più vi trovò moglie-modella Pompilia D’Aprile-
Se la squaglieranno in gran segreto di papà Luigi nel 1928, sbarcando in quel di Parigi con Capogrossi, lei gli darà due figli Pierluigi e Antonio in successione.
Gli esiti della Scuola Sallustiana li possiamo leggere in una Composizione ad olio del 1923 che qui riproduciamo.
Analizzando questi nudi distesi scopriamo gli echi di Valori plastici di Mario Broglio, la carnalità erotica di Egon Schiele, il tratto duro del bagaglio tedesco, la plasticità scultorea del buon Michelangelo in un coktail anticipatore del realismo magico che qui chiameremmo verismo magico. Spogliati degli abiti, prima o ultima maschera indossata, i corpi sono quanto di più autentico si possa mostrare, senza pudori o ipocrisie sociali, senza veli maliziosi ad occultare pube e capezzoli, pura oggettività dell’essere svuotato da introspezioni dell’anima o interpretazioni dell’Uno, nessuno e centomila, teatrino dell’apparire.
La “prima” di Fausto è alla Biennale di Roma del 1925, l’opera esposta è Le bagnanti, un tema ricorrente nella sua produzione ripreso in stagioni successive del suo percorso di artista, un soggetto molto indagato anche dal grande vecchio delle avanguardie Paul Cézanne.
A Parigi Fausto frequenta il cenacolo degli artisti italiani (Campigli, Cavalli, De Chirico, De Pisis, Savinio, Severini, Tozzi ) ma tocca con mano anche l’opera di Cézanne, Braque, Derain e Matisse. Tra le sue frequentazioni c’è anche quella di un circolo teosofico fondato sulle teorie dell’austriaco Rudolf Steiner, forse a questi contatti si deve un’opera tanto bella quanto ricca di simbologia: Donne con salamandra (1928-30) interpretata come il resoconto d’ una seduta medianica. Vi compaiono la madre col volto nella cornice di un quadro ( un inganno alla Magritte), una figura anziana di profilo e una salamandra ferma su un 5 di coppe. A nostro modesto parere il soggetto è la mamma in due momenti diversi della sua vita, un prima del 1919 e un dopo il ricovero coatto, gli anni trascorsi nella casa di cura, il suo stato di alienata dentro un abito liso, la chioma arruffata entra con uno spicchio nella cornice. Il taglio verticale tra le due figure è netto interrotto solo dall’angolo alto della cornice, la doppia identità madre e sposa gelosa prima, malata psichiatrica poi, la salamandra è simbolo di resistenza alle tribolazioni della sua nuova condizione e le annuncia che le è nato un nipotino proprio il 5 di agosto, apre le braccia con stupore. Una riflessione su un dramma familiare, la follia materna tema ripreso dal padre ad es. nell’Enrico IV, l’esistenza ancorata alle tante facce della vita sbriciolata in mille molliche che non possono più rappresentare l’unità del pane, l’impossibilità di ricostruirla mentre la vita si rinnova ripetendo daccapo il destino dell’uomo.
In Composizione del ’28 quasi sfacciate sono le contaminazioni con il surrealismo frullate nella plasticità di Picasso e lo spaesamento di De Chirico., appare il tempo relativo, molle di Bergson
Nel marzo del 1929 inaugura la sua prima personale alla Galerie Vildrac e in novembre la seconda a Vienna. Il pittore accentua lo spessore delle figure, come dei fondali, a nostro avviso attinge molto dal tonalismo di Cavalli più che dal cubismo nelle sue versioni, il colore è lo strumento per fissare l’assoluto, l’idea, la visione immaginifica ben oltre il relativismo della natura. Nasce lo stile Pirandello che lui riassumerà in tre punti scritti su un pacchetto di Giubek nel secondo dopoguerra: Il 1° carattere della mia pittura è la chiarità Il 2° la sintesi delle forme Il 3° è la forza del colore.
“ La fama ha iniziato a volteggiare sul suo capo, anche il padre ne è orgoglioso, lo ha visto crescere di molto dai suoi primo orribili “sgorbi”.
Dopo due anni poco più Fausto rientra in Italia, gli anni Trenta ne consacrano la profondità nel panorama artistico. Si porta dietro il bagaglio del suo rigoroso apprendistato alla scuola di Lipinskij, la frequenza alla Scuola d’Arte degli Orti Sallustiani, la plasticità di Felice Carena, l’esperienza parigina, lo zainetto del mestiere è colmo, è giunto il momento magico: dimostrare dottrina e competenza. (continua)
Emanuele Casalena