Ti scioglievi sulla sedia
dove ti avevo lasciata
durante la tempesta
quella volta, l’ultima!Diventavi dura come legno
spigolosa come la sedia
su cui eri seduta
quando ti sei squagliata.Ed io … divenni un tarlo
ghiotto del tuo legno
passavo il tempo
a roderti dentro.(Il tarlo di Gian Emilio Malerba)
Il cappello nero è un olio su tela datato 1912, fu acquistato da Re Vittorio Emanuele III nel 1914 ed entrò a far parte della Pinacoteca di Casa Savoia (ora è al Quirinale), fu l’imprimatur ufficiale al lavoro di questo grande artista dimenticato. Aggiungerei che i versi della poesia da me riportata accanto, sono in sintonia con SAR, si sa che “sciaboletta” con la sua amata Yela di Montenegro era proprio un tarlo a letto.
Bene, in questo dipinto “vivente” si coglie la radice del naturalismo lombardo a partire dal milanese M. Merisi detto il Caravaggio, vediamo un ritratto con accanto una natura morta, un fondale bruno, la sagoma del cappello la si percepisce appena, è la luce che crea il soggetto ma, in questo caso, lo avvolge maternamente non lo abbaglia. Vi scorgiamo il veneziano F. Hayez di Pensiero malinconico, ma qui la fanciulla ci ammicca sorridente, le rose nel vaso traboccano barocche, nella figura del veneziano tutto invece appassisce sciogliendosi nel brodo del tempo, Emilio al contrario coglie l’Eros eterno, motore della vita. C’è il Piccio della Scapigliatura con la lirica del chiaroscuro che arretra il segno dei contorni fino ad annullarlo nella sfumatura. C’è soprattutto la lezione di Leonardo nella resa dei “moti dell’animo” oltre che nella costruzione della figura con un leggero contrapposto delle masse, il busto ruota un poco rispetto alle gambe, così il capo riguardo al grande fiocco che lo incornicia.
Quelle grasse rose nel vaso sono schiuse come le labbra della fanciulla, le loro corolle profumano di voluttà. Il corpo rilasciato di lei senti che freme, si aspetta ghiotto la prima carezza, si squaglia alla ricercata tenerezza dei sensi. Sessualità intrigante d’ un momento magico, atteso, che ci afferra, ci trascina tra le sue braccia, vinti dal suo magnetismo femminile. Il corteggiamento ha fatto breccia, la femme fatale si apre all’amore senza porre condizioni, il resto, sembra dirci con sfida e fiducia, tocca a noi. L’unico legno della poesia è rimasto nella spalla destra, il resto è solo linea curva, dolce, continua e quel gran fiocco di chiffon messosi di sghembo, disegna due ali bianche che le fanno volare il viso come una farfalla. Fiamminga la sua figura riflessa sulla pancia del vaso d’argento, ricordo forse dell’armatura di Federico da Montefeltro nella Sacra conversazione di Piero conservata a Brera e che di certo Malerba s’era studiata.
“Dopo l’amore. Per continuare a sognare “ chiude il testo di una romantica canzone di C. Aznavour, sembrano parole adatte alla stessa fanciulla appoggiata alla sua toeletta, volutamente discinta. Il tarlo ha bucato il legno, superfluo chiedersi con Gaber se ha provato il piacere dell’amore, rinverdisce a memoria il volo dei suoi sensi, la via umida d’una conoscenza dionisiaca alla quale volentieri si abbandona con una posa manierista. Il vero abito è la sua pelle chiara, d’ambra, il busto si piega dolcemente formando una S sinuosa, i seni sono coppe di champagne, i capezzoli turgidi inseguono il piacere che in lei si rinnova. Il rossastro dei fiori allude ala passione amorosa, il resto è candido bianco striato dal bruno delle pieghe, la vestaglia un utile drappo per celare il pube, ma volutamente disinvolta nell’aprire al desiderio il corpo.
Sensualità della Belle epoque colta da un artista raffinato, in certo senso figlio d’arte vista la professione del papà Maurizio, antiquario. Meneghino purosangue Emilio Giuseppe Giovanni era nato un anno prima di mio nonno, nel 1878. Forse l’atmosfera del negozio paterno ricco di robe antiche che ti trasportano nel tempo aumentando di fascino e rarefatta bellezza, forse l’intuito del genitore nel cogliere nel figlio il moto della sua vocazione, spinsero il ragazzo ad intraprendere il tortuoso sentiero delle arti. Studi alla prestigiosa Accademia di Brera dove fu allievo del ferrarese Giuseppe Mentessi amico di Gaetano Previati e del savonese Cesare Tallone ottimo ritrattista, maestro di Giuseppe Pelizza da Volpedo e, pensate un po’, dell’inquieto Carlo Carrà. A Brera la pittura seguiva tecnica e soggetti dell’antico naturalismo lombardo sul quale s’era innestata la Scapigliatura di Daniele Ranzoni, Tranquillo Cremona, Giuseppe Carnovali (detto il Piccio) e di Giuseppe Grandi nella scultura. Come già detto la Scapigliatura è un vernacolo arruffato del naturalismo della Bassa che godeva di radici profonde nel fare arte quanto i pioppi. Pochi ricordano che il genere ritratto fu il punto forte della nobile cremonese Sofonisba Anguissola, forse la prima grande pittrice europea a cavallo tra tarda Rinascenza e Manierismo. Accanto ai ritrattisti come Giulio Campi, si sviluppò il genere del paesaggio già nel ‘600 seguendo quel realismo che aveva in Leonardo il grande padre. La prospettiva aerea ne era un caposaldo, lo studio minuzioso, empirico dell’aria, delle pulviscolari brume lombarde che cangiano i colori naturali della scena, furono applicazione pignola del pingitor cortese di Lodovico il Moro. C’è un forte retaggio di realismo in quella pittura come testimoniano i Foppa, Borgognone, Moretto, Savoldo, ecc.. padri nobili di Caravaggio, come arguì il critico Roberto Longhi a proposito del DNA artistico del Merisi. Pittura del concreto, dei sensi, espressione d’un popolo industrioso composto più da tessitori e mugnai che astratti filosofi, dentro una religione delle opere seguendo il cardinal Borromeo o per chi lo ricorda il manzoniano fra’ Cristoforo.
Detto questo si comprende meglio lo stile del nostro Gian Emilio quando poggia il pennello sulla tela ma anche il suo lavoro continuo nel campo della pubblicità dove cura i manifesti delle industrie milanesi, dalla Stucchi biciclette alla famose Officine grafiche Ricordi che accanto agli spartiti musicali affiancava la stampa calcografica di manifesti per conto d’ una vasta committenza nazionale. Lui stesso ama e compone brani musicali. L’attività di grafico gli dava di che vivere ed essere indipendente economicamente per curare la sua passione vera per la pittura, con la quale esordì a 28 anni nel 1906 alla I Mostra nazionale di belle arti di Milano, esponendo due opere: Convalescente e La signorina Anna Maria Malerba che era sua sorella. Nel frattempo nel 1906 aveva messo su famiglia convolando a nozze con la signorina Amalia Diani di buona famiglia.
Certo i suoi soggiorni parigini lo stimolano a trasformare il mestiere di cartellonista ed illustratore in un vero, nuovo settore dell’arte, un po’ come la fotografia e il cinema. Le figure dei suoi manifesti risentono del buon disegno rinascimentale, corpi sinuosi, perfetti che vestono abiti pastello scintillanti capaci di colpire come frecce il pubblico a cui sono indirizzati. La bellezza frivola, champagne, gioiosa della Belle Epoque vi si respira ed annuisce agli avventori di una borghesia rampante amante del lusso e del progresso dentro un sottile refrain di magico erotismo. Continua la sua collaborazione grafica con la Ditta napoletana Mele per la quale disegna manifesti pubblicitari ma dal 1908 collabora come illustratore alle edizioni della rivista mensile del Touring Club Italiano, alle campagne pubblicitarie della Società petroli Italia, la Società anonima Pellicce, la Campari ecc. In parallelo è presente annualmente alle mostre di belle arti milanesi dalle quali riceve riconoscimenti importanti per l’opera Il cappello nero della quale abbiamo già parlato ma anche per Mezza figura di donna alla toeletta con la quale vince il Premio Cremona nel 1913. Il Futurismo aveva già pubblicato su Le Figaro parigino il suo Manifesto, in quel 20 febbraio del 1909 era sbocciata con fracasso la prima ed unica avanguardia artistica italiana, capace di attraversare più generazioni di artisti, il nostro Malerba non l’accolse, non era nelle sue corde di pittore realista, amante del buon disegno e del colore ben steso, c’erano in lui i germi del gruppo Novecento. E’ del 1916 la medaglia d’oro assegnatagli dal Ministero della Pubblica Istruzione per l’opera La Pietà all’Esposizione nazionale di Belle Arti, c’è molta differenza con La madonna con bambino del 1900, quasi un santino votivo dono nuziale ad una coppia di amici. Questa Pietà è molto più solida nella costruzione concedendo meno alla retorica emotiva del fatto in luogo del realismo.
Anche Autoritratto è del 1916: occhio tondo deflesso, quasi stanco, da aristocratico annoiato con due pennelli lunghi nella mano destra che sembrano prestati, quasi fossero un impiccio della posa più che protesi del mestiere, alle sue spalle scorgiamo una grande tela vergine in paziente attesa. Le gote d’un rosato fanciullo, alla Parmigianino, colorano di buona salute il suo ovale, bianca di bucato la camicia stirata, blu la cravatta, con su una giacca da lavoro o da camera con la spalla sinistra calata come le palpebre, a riposo. Capelli ben pettinati, incollati, dritta la riga, baffi curati a misura sovrastano come un timpano con la bocca. Sembra un piccolo borghese in posa, catturato per caso dal suo nulla ozioso. Un artista è un’artista anche per la fisiognomica, che ci azzecca Malerba con l’apollineo Bucci, il severo Sironi, il gigolò Oppi, il dandy Funi e così via. C’è un uomo che respira piano, parla poco, dipinge da lombardo la realtà senza sconti con un velo di crepuscolo nel soggetto che si scioglie nei colori pastello. Il suo autoritratto è il Dasein di Martin Heidegger, l’esser-ci qui, ora, nell’esistenza quotidiana con la coscienza della morte nella luce dello sguardo. Fine prematura quel taglio delle Parche, fu nel ’26 quando Gian Emilio lavorava alla I mostra del Novecento Italiano presso il Palazzo della Permanente di Milano. Ci torna quel disincanto dell’espressione, inconsapevole premonizione di un destino breve a cui sembra dare il piegato consenso.
Le sue figure salde, ben disegnate, silenti e trasognate oramai mescolano atmosfere metafisiche e Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) teutonica in una miscela che sarà nominata “Realismo magico” termine coniato dallo studioso tedesco Franz Roh nel 1925. Lo stile è cambiato, la Scapigliatura è alle spalle, Malerba è approdato sulle sponde del ritorno all’ordine, la tavolozza si semplifica, la campitura dei colori è ben stesa entro i confini disegnati, si torna al mestiere come ebbe a sostenere Giorgio De Chirico con un occhio fisso alla grande tradizione del Rinascimento. Nel ’20 partecipa alla sua prima Biennale veneziana e nello stesso anno a Brera espone l’olio Femmina volgo quasi una fotografia di questa donna grassoccia e sgraziata in contrasto col divano damascato e l’aggraziato bouquet di fiori. E’ del 1922 l’olio enigmatico Maschere, quattro i personaggi colti dietro le quinte brune di un teatro, attori in relax dopo una pièce, Arlecchino è l’unico maschietto piuttosto serioso sotto il copricapo che ne cela gli occhi che immaginiamo chiusi. Le donne al contrario sono ben vive e allegre, sfoggiano sorrisi, forse per una battuta, la più discinta è la stessa modella di Femmina volgo ed una Colombina sorregge un bel mazzo di fiori forse dono di un ammiratore. La figura in piedi avvolta in un lucente soprabito scuro sembra un frammento del simbolismo raccolto da A. Böcklin o F. von Stuck, però il tutto ha un taglio fotografico, un fermo immagine frontale d’ un attimo di vita solo in apparenza fresco, immediato, nella realtà assai studiato seguendo il metodo del secondo Degas.
Che differenza tra l’eros della signorina con il cappello nero o della stessa alla toeletta, con il lindo dipinto La collegiale datato 1923 . si dice assorba il vento di Valori Plastici, accostandosi al romano Antonio Donghi, io ci vedo gli ovali e le posture del triestino Pietro Marussig, osservate il confronto, ma non è detto affatto che non sia il secondo a prendere spunti dal primo.
I due si conoscevano complice il salotto milanese di Margherita Sarfatti dove sbocciò una sera del 1922 il gruppo Novecento composto da sette artisti quanto le braccia della Menorah ebraica, in ordine Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi.
Scrive la Sarfatti:“Era un atto di orgoglio. Certo, era un atto di fede in quei primi anni grigi e bui del dopoguerra (…) Così sorse in Milano il gruppo del Novecento Italiano, con quel nome come parola d’ordine (…) In realtà, quegli artisti volevano soltanto proclamarsi italiani, tradizionalisti, moderni. Affermavano fieramente di voler fermare nel tempo qualche aspetto nuovo della tradizione”. E ancora:“Quattrocento’ e ‘Cinquecento’ designano periodi dell’egemonia italiana nel mondo del pensiero. Disse allora qualcuno, a questo proposito, a Milano, nel 1920, in quel crocchio di amici: ‘Il nostro secolo sento che vedrà ancora il primato della pittura italiana. Sento che ancora si dirà nel mondo e nel tempo: Novecento italiano”.
E così fu anche se il piccolo gruppo non era omogeneo per molte ragioni sia tecniche che programmatiche, erano un sommatoria di individualità anche gelose del proprio percorso di ricerca come sacerdoti di diversa religione. Il credente più acceso restò Mario Sironi, il migliore tra loro, almeno finché Novecento restò in piedi poi si volse alla riscoperta della pittura murale firmandone il Manifesto nel dicembre del’33.
Comunque il gruppo aveva due traguardi da tagliare: creare una sintesi tra la grande tradizione artistica del Rinascimento e l’arte contemporanea di italica radice, riportare l’universo artistico dell’Italia al primo posto nel mondo, partendo da un centro vitale come Milano. A dire il vero c’era anche un terzo nastro da spezzare, quello di dare un’arte al passo con la rivoluzione fascista, testimone raccolto fino alla fine solo da Sironi. C’era di che far tremare i polsi per i compiti assunti dal programma di Novecento, in fondo quegli artisti erano quasi tutti legati al lavoro di studio, alla pittura di genere incentrata sulla scelta del soggetto, chiusi tra tele e barattoli nel loro egocentrismo che mal si coniugava con la visione morale dell’ artista militante. Da subito Malerba dimostrò titubanze già dopo la prima mostra collettiva del gruppo “Sette pittori del Novecento” alla Galleria Pesaro nel marzo del’23. L’anno seguente i “sette” moschettieri sono invitati alla XIV Biennale d’Arte di Venezia, vengono esposte tre opere di Malerba: Nudo, Mezza figura e Bambine che ottengono lusinghieri commenti critici dalla Vergine rossa M. Sarfatti in merito allo smalto dei colori, alla volumetria solida dei soggetti, al rigore geometrico della composizione. Ma i dissapori nel gruppo produssero lacerazioni, per Emilio insanabili, ed a maggio del ’24 decise di dimettersi da Novecento insieme ad A. Bucci e L. Dudreville pur partecipando alla mostra di “Venti artisti italiani” presentata da Ojetti alla galleria di Lino Pesaro di Milano. Due anni più tardi, nel ’26, da il suo assenso ad esporre sue opere alla “Prima Mostra del Novecento Italiano” da tenersi presso la Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano, ma durante i preparativi per la vernssage, il suo cuore cede, l’artista si spegne alla giovine età di 46 anni. Fu un uomo quieto, diremmo borghese, dedito al suo lavoro efficace di illustratore di riviste alla moda, pubblicitario per grandi nomi della produzione industriale, pittore monastico da studio, avulso dai fermenti politici rivoluzionari di Sironi e Achille Funi, ma fu un grande artista purtroppo “scordato”.
Emanuele Casalena
Bibliografia:
Bucarelli Palma, Novecento da Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1934.
Francesca Franco, Dizionario Biografico degli Italiani,volume 68 (2007), Enciclopedia Treccani.
Dalmazio Frau, Eclettico Novecento, Gian Emilio Malerba tra Rinascimento, Realismo magico e Novecento, Il Giornale, 2016.
- Pontiggia, Il Novecento italiano, in Carte d’artisti, n. 33, Milano 2005.
- Pirovano, in La pittura in Italia. Il Novecento/1, Milano 1992.