23 Aprile 2024
Filosofia della Storia

Dal Medioevo all’avvento della modernità ed oltre – 3^ parte – Umberto Petrongari

(prosegue …)

Con l’appoggio dato dall’altissima finanza (a quanto sembra, anche statunitense) alla Rivoluzione d’Ottobre, la nazione più arretrata economicamente d’Europa, in quanto era la nazione più ‘autocratica’ del tempo (era dunque una ‘potenza assolutistica’), verrà abbattuta. Ora, se i grandissimi banchieri avessero appoggiato i ‘cadetti’ (che erano dei liberali moderati), ne sarebbe venuto fuori un retrivo regime monarchico-costituzionale, in cui la nobiltà sarebbe stata annientata, come forza politica, solo dopo moltissimo tempo (se non, addirittura, mai). Non appoggiarono (perlomeno principalmente) Kerenskij e i suoi Trudovichi (o Laburisti), in quanto in un contesto povero di risorse alimentari (ma non tuttavia di vari altri tipi di risorse) quale era quello della Russia (e lo è, com’è ovvio, tutt’ora), una democrazia liberale e repubblicana a guida socialista non avrebbe ‘retto politicamente’ (non sarebbe – quasi con piena certezza – durata un granché). Non sostennero i social-rivoluzionari in quanto erano utopici e non erano neanche interessati a fare della Russia una potenza industriale (avrebbero mantenuto la Russia un paese agricolo, privo persino di ‘moderne cooperative’: a ogni contadino sarebbe stato assegnato gratuitamente il suo ‘fazzoletto di terra’, da coltivare dunque individualmente o singolarmente). Solo l’autoritarismo di Lenin sarebbe stato in grado di dare compattezza sociale e longevità politica a quell’estesissimo paese. Per cui le grandissime banche decisero di finanziare specialmente costui durante le fasi rivoluzionarie, e di sostenere politicamente solamente i progetti post-rivoluzionari Bolscevichi. La nuova Russia comunista rimase tuttavia un paese (quantomeno) prevalentemente agricolo (anche se, per lo stesso Lenin, doveva esserlo solo provvisoriamente: se il leader bolscevico non fosse scomparso prematuramente, il suo processo di ulteriore e più marcata industrializzazione – con alta probabilità, stando ad alcuni studiosi – avrebbe, prima o poi, ‘preso il via’). Fu allora con Stalin (favorito, a quanto pare, anche costui dalla finanza mondiale) che prese avvio un’imponente opera di industrializzazione e tecnicizzazione del paese (anche della sua agricoltura, con la ‘collettivizzazione delle campagne’).

Ora, checché se ne dica e se ne pensi, non vi era altro modo, in un contesto come quello russo, di industrializzare (e celermente) l’ ‘Unione Sovietica’, se non per mezzo di ogni singolo metodo applicato con estremo rigore, con inflessibilità, e con grande severità, dallo statista georgiano (mi devo limitare ad accennare semplicemente allo ‘stalinismo’, anche se più avanti vedremo in cosa consista il ‘comunismo’, qualora venga considerato nella sua ‘purezza’). E con la vittoria contro il nazifascismo (che era inizialmente servito ai potenti della terra per evitare che il comunismo dilagasse anche in occidente, attecchendovi politicamente), non solo vennero meno le ultime e più moderne (le più avanzate) realtà politiche (pur tuttavia) vetero-imperialistiche (verranno soppiantate dalle più moderne e più congeniali – per il mondo della finanza – repubbliche liberaldemocratiche), ma sarà possibile industrializzare (con la formazione del ‘blocco filo-sovietico’) anche le retrive, dispotiche e agrarie, realtà politiche della (pressoché) intera Europa dell’est. Con il comunismo la finanza globale ha insomma fatto una sorta di investimento ‘a lunghissimo termine’: con il ‘dopo Stalin’ avrà luogo nell’intero blocco sovietico un processo molto lento ma graduale di liberalizzazione della sua economia (e la sua ‘dittatura del proletariato’, la sua ‘dittatura del popolo’, il suo ‘dispotismo popolare’, si alleggerirà sempre più) che condurrà l’Urss allo sfascio completo (e all’attuale situazione della Russia). Il comunismo produsse effettivamente una più equa distribuzione dei beni a livello planetario (e quindi una ben maggiore ‘giustizia sociale’ rispetto a quella attualmente vigente mondialmente). Tantoché, in tutti i paesi ‘a modello occidentale’ (opulenti o meno), le imprese multinazionali e nazionali (grandi, ‘piccole e medie’), persero molto capitale: anche alle banche toccò – di conseguenza – una sorte analoga (‘crescevano’ ugualmente, ma assai meno rispetto al passato). Ebbene, con la fine del comunismo, esse ripresero a crescere monetariamente in modo (vi è da ritenere) esponenziale. Infine, alcuni fatti simili a quelli verificatisi in Russia con lo stalinismo, si verificarono anche nella Cina maoista: ‘collettivizzazione dell’agricoltura’ e crescita industriale esponenziale, le si ebbero, quindi, anche in Cina. E anche in Cina, dopo Mao, l’economia fu liberalizzata (non venendo però meno l’autoritarismo del ‘partito’, anche se esso perderà, perlomeno a mio parere, con il trascorrere del tempo – anche se molto lentamente – ‘di autorità’). Ma le liberalizzazioni, in Cina, ebbero carattere ben più marcato rispetto a quelle (ben più caute, eppure progressive) di ambito sovietico (a partire, quindi, dall’ ‘era Krusciov’).

Giunti a questo punto della disamina, possiamo finalmente occuparci dell’ ‘oggi’. Cerchiamo dunque di stabilire (sia pure con una certa difficoltà) cosa si stia verificando, e (questione ancora più difficile da determinare) cerchiamo di prevedere cosa dovrà ancora verificarsi, a livello globale o planetario. Ma prima di tutto è necessario considerare come, per lo più, l’Africa nera sia politicamente caratterizzata. Ebbene, la maggior parte dei suoi stati sono, politicamente, altamente instabili. Essendo ancora dei ‘paesi in via di sviluppo’, sono paesi ad economia prevalentemente agricola (essendo per giunta caratterizzati da una misera agricoltura di sussistenza). Le loro risorse di altro tipo (di cui spesso abbondano) vengono sfruttate dalle potenze occidentali: e così (facendo un esempio verosimile), una certa multinazionale vessa e schiavizza la poverissima, mite (eppure, ovviamente, sofferente e infelice), nonché politicamente inerte, popolazione africana, magari in una miniera (mettiamo) diamantifera. Il livello di industrializzazione dell’Africa nera è dunque minimo e, conseguentemente, il ceto medio degli stati africani è troppo esiguo e, inoltre, ‘non se la passa benissimo’: ciò è la causa principale dell’instabilità politica dell’Africa nera. Anche, perciò, chi dirige l’industria in Africa (gli sfruttatori, gli oppressori, locali) non può che andare a costituire un ceto esiguo, il quale, pur tuttavia, fa una vita agiata. Al grosso della popolazione nera non resta da far altro che guerreggiare per tentare – in fin dei conti inutilmente – di risollevarsi perlomeno un po’. Tra fazioni politiche in lotta tra loro (per esemplificare, mettiamo che in un’ipotetica nazione africana ve ne siano due), l’una riesce a prevalere sull’altra: và dunque al potere e, per un certo periodo, riesce a ‘sistemare la sua vita’ (i suoi componenti riescono – chi ‘bene’, chi ‘meno bene’ – a ‘sistemarsi’). Godono ora infatti dei benefici che lo stato (dei cui soldi ora dispongono) gli concede. Ma politicamente non cambia nulla: l’economia non si sviluppa e il ceto medio, di conseguenza, resta, numericamente ed economicamente, quello che è sempre stato.

Ebbene, in tale situazione di perenne e incorreggibile instabilità, dopo poco tempo la fazione sconfitta ‘riprende piede’, sconfiggendo la fazione nemica: il leader viene destituito (e magari viene anche ‘fatto fuori’), e il nuovo leader (quello che lo sostituisce), sempre per breve tempo, andrà al potere arrecando (ma dunque solo momentaneamente) beneficio al suo seguito di miliziani (più e meno importanti: i primi andranno ad esempio a ricoprire i ‘ruoli chiave’ dello stato). Ma ecco che, dopo breve tempo, per così dire, ‘il gioco ricomincia daccapo’ (nulla, insomma, viene e verrà davvero risolto). Tale la perenne situazione di stallo (dettato da ‘cecità politica’), in cui per lo più riversano le realtà politiche del terzo mondo africano. Spesso le fazioni in lotta nell’Africa nera rappresentano realtà tribali differenti, pur magari essendo etnicamente omogenee: lo stesso poteva accadere nell’antichità, in cui – mettiamo – due diverse tribù celtiche si scontravano fra loro; con la differenza, tuttavia, che le suddette fazioni tendono – non raramente – al reciproco massacro (non infrequente, infatti, è la ‘pratica del genocidio’ nel continente nero). Ma in modo assai peggiore rispetto ai suoi faziosi combattenti, se la passano i livelli più bassi delle società dell’Africa nera: rassegnati alla loro estremamente miserabile condizione, se sono ‘fortunati’ riescono ‘a tirare a campare’ con quel poco che il loro ‘orticello’ riesce a rendere; gli altri soffrono (ancora di più e massimamente) la fame (vivono mendicando). Della gente africana sfruttata dalle multinazionali, si è già detto. Ma anche lo scenario (astratto e schematico) che ho appena concluso di descrivere è ‘voluto’, è ‘stabilito’ (a tavolino), dall’ ‘alto’ (della società globale, planetaria). Se l’Humanitas non può praticamente venire distrutta da niente e nessuno, le si può comunque conferire una certa forma arcaica, per così dire, ‘barbarizzandola’, rendendo cioè ‘più cieco’ il più esteso grado di coscienza morale-ontologica di cui gli uomini siano capaci (l’umanismo può in altre parole divenire tale da somigliare a quello vigente – ad esempio – presso alcune società dell’Europa antica e arcaica, o anche – come abbiamo visto – presso la società medievale). La mancanza di ciò che per me è una ‘vera istruzione’ (ovvero, che risulti ‘davvero utile’ per il benessere dell’intera comunità umana) produce barbarie e inciviltà, cecità (morale-ontologica dunque), traviamento mentale. Si può dunque ideologicamente, propagandisticamente, fare in modo che i ‘sentimentali’ (non, dunque, i superficiali ‘sentimentalisti’) rivolgano i propri affetti, in modo familistico, innanzitutto ai propri parenti più stretti e secondariamente alla propria tribù di appartenenza. Ma da tutto ciò consegue anche, inevitabilmente, che si abbiano dei nemici (i componenti delle altre tribù).

Ora, si può anche rispettare l’intero ‘creato’ gerarchicamente, per cui (ad esempio e in primo luogo) si sarà un po’ magnanimi persino verso i propri nemici (in una guerra combattuta ‘cavallerescamente’): ma ciò, come si è visto, non è il caso dell’Africa nera (in cui vengono spesso commesse orribili stragi da parte di chi si contende la vittoria in una guerra; anche ciò, come vedremo, è voluto e pianificato dall’ ‘alto’). Un’efficace educazione scolastica dovrebbe invece far comprendere a tali uomini che solo la loro compatta unione (trattasi di ‘solidarietà tra poveri’) potrà produrre una realtà politica stabile e giusta. Ma se venisse qualcuno che infondesse in tali uomini queste idee internazionaliste e terzomondiste, tale sua iniziativa verrebbe pressoché ‘stroncata sul nascere’ (dal momento che, potremmo dire, ‘non si muove foglia che il potere non voglia’). Ma chi paga il maggior prezzo, all’interno delle realtà politiche africane, sono gli ‘ultimissimi’. Il ‘prete’ (non necessariamente cattolico; si pensi alla reazione rabbiosa, furiosa, di Lutero di fronte alle rivolte degli anabattisti: li spronò con severità a rispettare i loro ‘signorotti’ con ‘santa pazienza’) ha loro impartito che non devono ‘opporsi al male’, ma accettare tutto quanto di negativo gli capita (e gli capitano solo cose atroci, raccapriccianti). E, non essendo dei santi, ma uomini comuni, non riescono neanche a godere della ‘serenità della fede’, o anche della ‘mite allegrezza’ sempre legata all’aver fede (su tali idee tornerò anche in seguito). Non possono far altro che lamentarsi angosciosamente e, se maltrattati, piangere e gridare (pur continuando a ‘non muovere un dito’ al fine di risollevarsi). Giunti a questo punto della mia lunga (eppure necessariamente sommaria, nonché ipotetica) indagine storica, svolto ogni preambolo relativo alla situazione socio-politico-economica del terzo mondo, torniamo a parlare della Cina e del suo (probabile) attuale ruolo. Ora, la crescita relativamente recente di realtà, pur ingiustamente capitalistiche, di paesi quali l’India o il Brasile (di Lula), ha un po’ ridotto il livello di benessere di ‘noi occidentali’.

E realtà politiche quali quella cambogiana o vietnamita, oggi sono in grande crescita: imitano politicamente, perfettamente (o quasi), il modello politico (pseudo) comunista cinese, essendo di fatto nazioni capitalistiche e sfruttatrici: eppure sono dotate di uno stato ben funzionante (molto efficiente e pressoché incorrotto). La Cina inizia per di più a penetrare, in modo sempre più dilagante, in Africa (è un fatto dei tempi più attuali). Credo che il suo obbiettivo sia quello di far crescere finalmente il terzo mondo, ma – purtroppo – secondo i suoi ‘canoni politici’ (analogamente a ciò che si è verificato, ad esempio, come abbiamo detto, in Vietnam, piuttosto che in Cambogia). In futuro, dunque, l’Africa cesserà di essere un continente con economie povere e agricole: anch’essa si industrializzerà. Ora, anche tutto ciò è voluto da chi ‘muove i fili del mondo’. Ma perché vuole ciò? Adesso lo andremo a vedere (congetturando, ovviamente; cosa che, del resto, ho fatto fino ad ora).

La crescita tecnologico-capitalistica dell’Africa andrà necessariamente a impoverire il mondo occidentale. Ciò non avverrà ovviamente a partire da subito, ci vorranno (credo) non solo ‘anni’, ma addirittura alcuni secoli (se non qualche millennio). Alla fine del suddetto processo la Cina diverrà la nuova, massima, potenza mondiale, e lo sfruttamento capitalistico in Africa (perlomeno di consistenti minoranze) non cesserà (anche se sarà divenuta più efficiente dell’Occidente). E, forse addirittura l’America – ma soprattutto l’Europa – risulteranno completamente ‘terzomondizzate’. È infatti oggi già in atto, nei paesi ‘a modello occidentale’, ad opera di chi controlla ‘davvero’ ogni possibile ‘strumento ideologico’ (o ‘mezzo di propaganda’ che dir si voglia), un processo di ‘traviamento’ (sia mentale che comportamentale) delle popolazioni dei suddetti paesi: si incita, innanzitutto, ad un egoismo che non conosce alcun limite. Anche fenomeni quali l’aumentare della bisessualità, il dilagare del transessualismo e la tolleranza nei suoi confronti (la sua simpatetica accettazione, l’ ‘accogliere’ tale fenomeno simpatizzando per esso), il ‘permissivismo’ insito nel ‘fare figli in provetta’ piuttosto che nelle ‘adozioni gay’ (verranno forse – magari in un futuro lontano – addirittura sdoganate anche alcune forme di pedofilia), il promuovere l’ ‘aborto facile’, ecc. sono forme di comportamento assunte da persone il cui egoismo sopraffattore conosce – ammesso che ne conosca – non troppi limiti (in più tali fenomeni tendono ad incrementare e ad esasperare l’invidia sociale, dando luogo – con il loro espandersi – ad una sempre più spietata competizione sociale di tutti contro tutti). Sul piano della cultura, si tende a diffondere (‘a destra e a manca’) un pensiero tanto raffinato e intelligente, quanto avulso dalla realtà, e dunque utopico e (proprio per questo) inutile. Ed è per giunta permissivo ed egoistico esso stesso, in quanto le sue ‘critiche’, non sono unicamente rivolte ‘a ciò che non và al mondo’, ma anche alla (sia pure rigida) ‘oggettività valoriale’. Viene addirittura diffuso un patriottismo, un nazionalismo, egoista (e, ritengo, più o meno velatamente, razzista) e anche molto superficiale (e dunque, in fondo, insincero), ovvero ‘sentimentalista’: tale (per così dire) ‘sottocultura’ non è neanche in grado di avvertire, di ‘provare dentro di sé’, degli ‘empatici sentimenti’. Oltretutto, se da un lato le persone vengono incitate all’ ‘egoismo più sfrenato’, si pretende poi da esse che attuino comportamenti di tipo ‘volontaristico’ (comportamenti i quali, se attuati da questo ‘genere di persone’, risulteranno addirittura, per così dire, ‘torbidi’ e ‘contorti’). E così, si tende a diffondere un filantropismo ipocrita e frivolo, ‘sfacciatamente istrionico’ (nel migliore dei casi potrà tutt’al’più essere, addirittura, ‘isterico’), in cui ‘si dà poco’ (nonché lo si dà pressoché inutilmente) e ci si tiene per sé ‘più del dovuto’ (quasi si finge di non rendersi conto che, per porre fine alla ‘fame del mondo’, ‘non servono chiacchiere’ ed ‘elemosine’, ma investimenti estremamente dispendiosi).

Ogni conquista sociale ‘di sinistra’ (ad esempio di matrice, di origine, sindacale) tende a venire smantellata, in vista di un ritorno al più selvaggio ed egoistico, ‘iniziale’, capitalismo. Nessuno, poi, vuole più fare del ‘lavoro utile’ (socialmente, ossia per la società intera, per ogni suo singolo componente). Ma – perlomeno a mio parere – di artisti, scrittori, opinionisti, psicologi, sociologi, di manager o dirigenti, di politici ecc., ve ne sono fin troppi (l’utilità di molti di costoro mi sembra dubbia). In ambito legislativo vengono varate leggi ‘ultragarantiste’ le quali, non solo deresponsabilizzano anche i peggiori criminali, ma sono anche qualcosa che serve subdolamente a fare in modo che essi non paghino il loro giusto, duro, conto alla giustizia. E successivamente tenterò di spiegare per quale motivo il garantismo non si limita semplicemente a difendere i ‘potenti’, ma privilegia anche ogni altro tipo di ‘cattiva’, di ‘spregevole’, persona (non necessariamente, dunque, ‘ricca’).   Ma poi – guarda caso – verso i ‘poveri cristi’ (ma anche verso i ‘poveri diavoli’) i nostri sistemi giudiziari e i nostri giudici paiono mostrare poca pietà (si pensi all’odiosa legge contro la ‘clandestinità’, e alla disagevole condizione dei clandestini, dopo che viene loro imposto di andare a riempire un carcere sovraffollato). In conclusione, questi ed altri ancora sono i fenomeni negativi che, chi è in grado di influenzare l’operato degli stati, sta introducendo in ogni nazione del mondo occidentale (e specialmente nel nostro paese). Se in passato, quindi, leggi quali la divisione dei poteri o il suffragio universale si sono dimostrati (quantomeno) abbastanza utili per le società, al giorno d’oggi essi non servono praticamente più a nulla. Chi infatti controlla ogni strumento ideologico e ogni luogo in cui si fa propaganda, è in grado di depravare le menti di giudici e politici. Per cui, mi sembra stia quasi venendo meno la necessità stessa di corromperli, favorendoli in una qualsiasi maniera (dandogli del denaro ecc.). Riassumiamo cosa dovrà verificarsi in futuro (in un futuro anche molto lontano, dunque). La situazione mondiale si sarà completamente ribaltata, rovesciata: Europa e Stati Uniti diventeranno come il terzo mondo (così come lo si è politicamente, socialmente ed economicamente descritto in precedenza). Il capitalismo vigerà in Africa (e nel terzo mondo in genere), ma ricalcherà ovunque il modello di sviluppo cinese. La Cina diverrà quindi la massima potenza mondiale. Quali saranno allora gli ‘ultimi passi’ da far compiere all’umanità? Terzomondizzare nuovamente l’Africa e, contemporaneamente, dar luogo ad un processo di terzomondizzazione anche in Cina. I suddetti fenomeni negativi promossi, favoriti, dalla ‘propaganda’, dovranno allora attecchire sia nei continenti ora industrializzati (vale a dire nell’ex terzo mondo) che in Cina. Anche tale processo non sarà breve, ma condurrà ad una terzomondizzazione di dimensioni globali (che sarà definitiva o immodificabile).   I posteri, le generazioni future, vivranno insomma in un mondo che sarà, quantomeno, altamente invivibile.

Quel mondo sarà tale da ricalcare – se non altro il più possibile – un originario ‘stato di natura’ (espresso dalle formule: ‘homo homini lupus’ e ‘bellum omnium contra omnes’). Anzi, per i ‘padroni del mondo’, tale situazione sarà addirittura preferibile all’animalesco stato di natura delle origini (capiremo i motivi di ciò più avanti).   Ma lo scenario globale che si andrà definitivamente a produrre, non andrà anche contro gli interessi della finanza internazionale (in quanto l’economia capitalistica, che pure si perpetuerà, fonte per la finanza di sproporzionati guadagni di denaro, risulterà, per così dire, ‘ridotta all’osso’)? Per il momento mi limito ad affermare che essa continuerà ad essere (e lo sarà dunque definitivamente) la padrona del mondo intero.    Ebbene, è giunto il momento di scandagliare meticolosamente, accuratamente, l’ ‘animo umano’, in modo tale da fornire una giustificazione filosofica (ritenendo personalmente che sia incontestabile) del perché il diabolico, il ‘luciferino’ (e non per metafora!), piano dei ‘burattinai che tirano i fili di tutti noi burattini’ (ovvero della restante, intera, umanità) dovrà necessariamente (prima o poi) realizzarsi. È necessario primariamente considerare l’ ‘uomo delle origini’ (l’ ‘uomo’ così come è quindi originariamente caratterizzato) per poter successivamente comprendere le sue future o successive modificazioni. Ora, nulla esiste, tutto è rappresentazione, eppure il mondo ci trae necessariamente in inganno, per cui ‘siamo tutti in assoluta buona fede’ nel considerarlo come reale, come concreto.

È in primo luogo il dolore caratterizzante ogni nostra esperienza esteriore a farci credere incrollabilmente nell’esistenza della totalità delle cose che sperimentiamo nel corso del nostro intero vivere. Si crede di conseguenza nella necessità di tutto quanto ci accade, nel senso che siamo convinti dell’obbligatorietà di tutto ciò che (pertanto a nostro parere) ‘passivamente’ facciamo. Tale necessità la chiamiamo ‘fato’ o ‘destino’, essendo dunque qualcosa di ineluttabile: un’ ‘entità a noi superiore’, un vero e proprio ‘demone’, riteniamo (sbagliando) ci procuri costantemente dolore. Ora, il dolore in generale, lo respingiamo sempre, non in quanto tale, ma in quanto lo interpretiamo come la volontà malevola nei nostri confronti di un essere (dunque) a noi superiore che vuole continuamente oltraggiarci, vilipenderci (la morte la consideriamo come un atto estremamente ingiuriante nei riguardi della nostra persona: ecco perché non la vogliamo, ecco perché la temiamo quasi più di ogni altra cosa che ci possa capitare, ripugnandola dunque, detestandola, oltremodo). E così, se qualcuno ci spintona per sbaglio, ‘per svista’, ‘facendoci male’, noi ‘ci restiamo male’. Ma se quel qualcuno ci chiede poi immediatamente scusa, dicendoci inoltre di ‘non averlo fatto apposta’, è come se il dolore che ci ha provocato cessasse: ebbene, non è che il dolore cessi realmente; tuttavia lo accettiamo (lo accogliamo).

Concludendo, si potrebbe dire che il dolore non sia, non costituisca, un incrollabile, un (per così dire) ‘monolitico’, ‘granitico’, ‘male in sé’. Poniamo dunque che l’uomo possa agire in base al libero arbitrio. Ora, dal momento che non può cessare di credere incrollabilmente nella necessità, qualora decidesse di non obbedire (in modo contingente, gratuito, immotivato) ad un suo impulso, qualora in altre parole decidesse di non assecondare una sua pulsione, non potrebbe prendere atto della sua libertà (ciò non potrà quindi mai accadere, avvenire). Attribuirebbe dunque alla sua ‘disobbedienza’ i caratteri del ‘Sollen’ (ossia del ‘dovere’) kantiano e fichtiano, in base al quale il ‘disobbedire’, è sì ‘fine a se stesso’, ma è comunque motivato (e dunque ‘necessario’). Al mondo vige dunque la più assoluta contingenza dell’agire umano: ovvero, tutto ciò che un uomo fa (o si astiene dal fare), è stupido o incomprensibile che dir si voglia. Ma l’uomo non potrà mai prendere atto della contingenza, della gratuità, del suo agire (e proprio perché non potrà mai prendere atto che ‘il mondo è rappresentazione’): ‘arbitrarietà e rappresentazione’ non possono dunque che costituire il suo ‘assolutamente inaccessibile inconscio’; e ‘ancora più inconscio’ (mi si passi l’espressione) è – ma ciò dovrebbe essere ovvio – il ‘nulla’ (e ‘nulla esiste’, proprio poiché ‘tutto è rappresentazione’). Tutt’al’più un uomo può convincersi della contingenza del comportamento degli ‘enti inanimati’, avendo osservato ad esempio fenomeni subatomici – per così dire – ‘soggetti all’indeterminismo’. Ma per quel che riguarda ogni forma di vita senziente, egli non può che ritenere che essa agisca (sempre e soltanto) ‘motivatamente’ o (utilizzando un’espressione analoga) ‘causalmente’. Eppure (stando all’esempio del ‘Sollen’), allo stesso tempo, si ritiene che, se si agisce per dovere, ciò venga a dipendere da un’effettiva ‘differenza qualitativa’ tra chi segue i propri doveri e chi invece asseconda sempre i propri egoistici impulsi. Tale ‘contraddirsi’ (per cui, nel credere ciò, si sarà – stavolta, in questo caso – ‘in malafede’), è tuttavia ‘necessario’ (ovvero, non possiamo assolutamente evitare di mentire a noi stessi, sapendo dunque, in fondo, di mentire).

Ma in base alla logica del Sollen kantiano (o fichtiano quindi), la differenza tra ‘il doveroso’ e ‘l’egoista’ sarà (per così dire) meramente ‘quantitativa’, e non ‘qualitativa’; ossia, se l’egoista ‘scopre’, secondo causalità, secondo necessità, attraverso la conoscenza (‘scoperta’ necessariamente o causalmente condizionata a sua volta dal suo complesso cervello umano) la sua più autentica natura, ovvero la ‘libertà’, da egoista non potrà che trasformarsi in un moralista (la logica precisa di tale ‘trasformazione’ sarebbe la seguente: dal momento che amiamo necessariamente ‘il modo in cui siamo fatti’, ‘se ci scopriamo liberi’ per essenza, non potremo che essere, che diventare, ‘liberi’). Ma dal momento che il ragionamento che compare tra parentesi non può corrispondere  all’ ‘effettività’ (essendo avulso da quest’ultima), essendo, insomma, ‘un ragionare astratto’, di conseguenza si sarà doverosi (o viceversa egoisti) secondo contingenza. Si continuerà in altre parole, in alcuni casi, a non conformarsi ad un’eticità fine a se stessa, assecondando il proprio egoismo. E motiveremo le nostre egoistiche scelte dicendo a noi stessi che, di fronte a una certa irresistibile, trascinante, pulsione, fatalmente più forte del nostro ‘amore per noi stessi in quanto esseri liberi’, abbiamo dovuto necessariamente cedere ad essa (dunque ‘per cause di forza maggiore’): l’impulso cui abbiamo obbedito ci ha, insomma, resi necessariamente, fatalmente, passivi. È come se, un impeccabile e umanissimo moralista (dalla condotta quindi ineccepibile), venisse costretto da un ricattatore ad uccidere un uomo innocente, affinché non venga ‘fatto fuori’ un (dunque ancor più innocente) bambino.  Quindi l’uomo si auto-mistifica, si auto-copre, si misconosce, per ben quattro volte: per le prime due volte, come si è visto, lo fa ‘in buona fede’, per le due restanti volte lo fa ‘in malafede’ eppure (anche ciò lo si è visto) non può assolutamente evitarlo; dapprima finge dunque di credere nella ‘causalità’, poi finge di credere nelle ‘qualità’ (nelle ‘differenze qualitative’ fra uomini e, più in generale, tra ogni essere del ‘creato’). Ma l’ ‘uomo’, per ‘interamente spirituale’ essenza, è in realtà, è effettivamente, libero nel modo più assoluto, ed è (di conseguenza) assolutamente privo di ogni paura, di ogni timore (non temendo neanche la morte, oltreché – addirittura – i più atroci e inimmaginabili dolori): essendo già morto, deceduto, anzi, ‘non essendo mai nato’, non può che essere (inoltre) assolutamente felice (e la felicità è unica e assoluta).

Inoltre, non solo ‘non è’ in quanto è una mera rappresentazione; ‘non è’, anche perché (in aggiunta, per giunta) è assolutamente individuale (o singolare) e (dunque) irripetibile, ‘unico’. Se dunque ci si dice (fra sé e sé) – e magari con auto-vanto – che siamo dei ‘commendatori’, degli ‘onorevoli’, dei ‘dottori’, degli ‘ingegneri’, degli ‘italiani’, degli ‘ugandesi’ (ecc.), ci diciamo il falso, in quanto non possiamo essere alcunché: ma, dal momento che ‘non siamo’ (‘non esistiamo’, essendo quindi ‘sogni o allucinazioni inesistenti’), tale nostro ‘non essere’, lungi dal rappresentare per noi un problema, è (al contrario) quanto ci pone ‘al di sopra di tutto e tutti’; l’ ‘esser nulla’ è cioè ‘al di sopra’, è (infinitamente) più vasto, è (infinitamente) più grande, di ogni (pseudo) ruolo sociale, angusto e (sempre) ‘relativamente importante’, in quanto sempre ‘finito’, ‘definito’, ‘determinato’ (da chi lo limita ‘dal di sopra’ della gerarchia sociale). Anche il patriottismo sarà allora un’idea non-effettiva (o non-effettuale), in quanto, oltretutto, non lo si può neanche definire in base ad una vicinanza geografica tra uomini (appartenenti dunque ad una stessa – dunque presunta – nazione): se, infatti, ogni cosa è composta da un numero infinito di parti, la distanza fra due cose separate da un terzo elemento, sarà infinita. Oltretutto l’uomo (perlomeno a mio parere) ha scelto liberamente di assecondare sempre, solo e soltanto, i suoi impulsi. E ha scelto, altrettanto liberamente, che il ‘mondo della rappresentazione’ non sia mai ‘caotico’ (vigendo – praticamente – sempre e ovunque in esso, il principio di causa-effetto).

Per cui, la differenza (ad esempio e in primo luogo) tra l’ ‘eroe’ e il ‘codardo’, sarà, a maggior ragione meramente ‘quantitativa’; nel senso che, posta quell’oggettiva condizione che fa di un uomo un eroe, per così dire, ‘a contatto con il codardo’, essa farà di quest’ultimo (dunque necessariamente) un eroe (viceversa, sempre in presenza di condizioni oggettive, il valoroso, il coraggioso, si tramuta in un pusillanime). Ma, come si è detto, ognuno di noi è completamente ‘senza paura’, è oltremisura impavido: solo che di ciò non ne prenderemo (non se ne prenderà) mai atto (‘prenderne atto’, come si è visto, è assolutamente impossibile). Espongo adesso il modo in cui io stesso ‘vedo’, considero, l’uomo (anche riassumendo quanto di importante è stato detto fino ad’ora). Ebbene, l’uomo ha scelto liberamente che al mondo (in certo qual senso, in una certa qual maniera) viga la causalità (e non la ‘casualità’, il ‘caos’). Esclusa dunque la possibilità del Sollen (così come lo concepirono Kant e Fichte), non si può mai agire ‘disinteressatamente in modo puro’ (per cui, oltre al vigere della causalità, vigerà anche – sempre praticamente – il pansessualismo; su ciò tornerò in seguito). Ma il carattere ‘reale’ (sia pure ‘apparentemente’ reale, concreto) delle cose, non può che indurci – quindi in assoluta buona fede – a credere nella ‘necessità’ (negando l’ ‘uomo in generale’, in tal modo, di essere ‘assolutamente libero’). L’uomo crederà allora incrollabilmente in un ‘fato’ (al quale, come minimo, perlomeno l’agire di ogni essere animato, sarà sempre e inevitabilmente soggetto).

Correggendo, a questo punto, un’affermazione da me svolta in precedenza, non è vero che l’uomo sia in malafede con se stesso per due volte, ma mente a se stesso (sapendo dunque in fondo di mentire), una volta sola: quando cioè nega la (chiamiamola pure) ‘necessità scientifica’ (praticamente – anche se non teoricamente – vigente a mio parere a livello cosmico), credendo, di conseguenza, nelle varie ‘differenze qualitative’; e così (tanto per fare un esempio), sa benissimo che ogni uomo è – in linea teorica – intelligente come ogni altro uomo, in quanto il suo cervello è pressoché identico a quello di ogni altro uomo (anche, quindi – e in tutto e per tutto – nel suo modo di funzionare). Se dunque uno stupido viene sottoposto a imprecisate (non le preciserò) ‘condizioni scientifiche’, non può che – inevitabilmente – diventare intelligente. Ma, è proprio a questo punto, che, anche per quell’uomo, ‘scatta il meccanismo dell’autoinganno’: crederà, riterrà, che, nel suo essere intelligente, sia qualitativamente differente, diverso, dagli stupidi (come si è visto, tale contraddirsi, tale autoinganno, tale essere in malafede, è, risulta, una inevitabile e ineluttabile necessità).

Chi è dunque ‘l’uomo originario’, ovvero il nichilista-relativista (che, come diremo, è il tipo d’uomo ‘più puramente aristocratico’)? Ora, un ‘vero, autentico, effettivo, nichilista’, non può assolutamente ‘darsi’: l’uomo infatti, come si disse, dispone di un (oserei dire) ‘doppio inconscio’, in entrambi i casi assolutamente, necessariamente, inaccessibile (per cui ‘copre’ se stesso – misconoscendo quindi irrimediabilmente la sua più autentica essenza – per ben due volte, e facendo ciò, inoltre, ‘in piena buonafede’). Al ‘nulla’ non può infatti (per definizione) ‘accedervi’ (in quanto si può essere coscienti unicamente di immagini; reali, rappresentative, sensibili o fantastiche che siano); secondariamente, si disse, anche della ‘contingenza del cosmo’ (del suo caos, della sua gratuità, della sua casualità, della sua stupidità, della sua incomprensibilità, della sua immotivatezza) non ne potrà mai sapere nulla.

In che senso, allora, l’uomo più originario potrà essere definito un nichilista-relativista? Potrà essere definito tale se, pur credendo nelle ‘diversità’ qualitative (o sostanziali, ma ipostatiche), conferisce ad esse il minor ‘peso’, il minor valore, il ‘minor grado ontologico’, che gli si possa attribuire, essendo dunque, quasi del tutto indifferente nei confronti dell’intera esperienza (ossia di tutto e tutti, e persino, come ora vedremo, di se stesso). Insomma, il nichilista-relativista (a voler usare una formula molto ‘cruda’), ‘se ne fotte altamente di tutto e tutti’; e che sia stupido o intelligente, che sia un prode o un vigliacco, che sia ‘socialmente qualcuno’ o che non lo sia (ecc.), poco gli interessa (tali cose non lo ‘coinvolgono’, non lo ‘turbano’, quindi, ‘più di tanto’). E che il mondo sia popolato da gente buona o cattiva, da gente perversa, da gente ipocrita, da transessuali (ecc.), è per costui qualcosa che (analogamente) lo lascia quasi del tutto indifferente: il nichilista-relativista (e anche in ciò è un ‘relativista’) ‘tollera’, in tal modo (e in linea di principio), il mondo intero (qualunque ne sia la configurazione socio-politica): la ‘tolleranza’ (almeno nella sua purezza) è difatti ‘indifferenza’ (così come l’ ‘amore’ è ‘odio’: le due cose – non mi dilungherò ulteriormente su ciò, almeno per il momento – coincidono infatti perfettamente).

Il nichilista è in grado di ignorare se stesso, gli altri, ogni altra cosa, in quanto la sua mente è massimamente lucida (per quanto un essere umano possa essere lucido): non sperimenta nessuno stato patologico, positivo o negativo che sia, piacevole o spiacevole che sia (complessi di ogni tipo, depressione, noia o spleen, compassione, simpatia ecc.). Calato all’interno di un’originaria (di età arcaica, protostorica) società monarchico-feudale, qualora avesse ricoperto un ruolo subalterno rispetto al monarca di detta ipotetica società, ecco come si sarebbe comportato. Da feudatario di un cinico, spietato e ingiusto sovrano, non lo avrebbe mai tradito: ma semplicemente per (sia pure meramente apparente) paura. Nel caso infatti in cui fosse stato assolutamente certo che il re avrebbe ucciso chiunque lo avesse tradito, e se fosse stato altrettanto certo del fatto che ogni vassallo del re avrebbe denunciato a quest’ultimo ogni tentativo di complotto nei suoi riguardi (onde evitare di venire ucciso per ‘omessa denuncia’), non si sarebbe mai messo contro il suo sovrano (in quanto, dunque, ‘messo alle strette’). Ma se il suo re fosse divenuto (per un motivo o per un altro) più indulgente, non avrebbe avuto scrupolo alcuno nello scalzarlo (magari spodestandolo per sostituirsi ad esso, per giunta uccidendolo).

Ora, il nichilista in questione, non solo è incurante nei confronti della sua infamia, ma si serve addirittura di essa (la quale, del resto, lo caratterizza spontaneamente, naturalmente) quale strumento di ascesa sociale. Ogni possibile bassezza, abiezione, depravazione, meschinità, viltà, spregevolezza (e ogni altro sinonimo del termine ‘immoralità’), in una gamma che và dal servilismo alla prepotenza, corrisponde, quindi, alla negazione di quell’ ‘oggettività’ cui si è fatto più volte riferimento, nel contrapporsi completamente ad essa. Se infatti ontologia e valorialità ‘fanno tutt’uno’, il nichilista – per definizione, per come lo si definisce – le andrà a minare in modo totale, totalizzante. Se si è mantenuto ‘puro’ sin dalla nascita, ciò gli risulterà estremamente facile: si comporterà sempre in modo, per così dire, ‘agilmente immorale’.

Ma perché ciò può verificarsi? Ma proprio perché l’ ‘essere’ non esiste, motivo per cui non può assolutamente credervi. Anzi, non lo prende neanche in considerazione, poiché non è addirittura in grado di concepirlo. Nichilismo e relativismo sono connaturati in lui. Tale, dunque, la nostra autentica natura o essenza (tale, dunque, l’essenza del mondo intero, ‘del mondo della rappresentazione’): di conseguenza (necessariamente) l’attuare ogni tipo di atteggiamento nichilistico-relativistico rende un uomo praticamente ‘irresistibile’ (‘virilmente’ per gli uomini – con cui dunque stringerà amicizie anche e soprattutto convenienti – sessualmente per le donne, con le quali intratterrà altri, piacevoli, tipi di relazione); il nichilista potrà, in tal modo, ascendere socialmente in modo irrefrenabile, ma soprattutto laddove tutto è mal funzionante, laddove, addirittura, ‘lo stato è allo sfascio’, in un contesto, insomma, in cui la ‘meritocrazia’ è assente, vigendo solo il ‘clientelismo’. Stabilendo convenzionalmente che possa darsi coscienza sensibile pressoché istantanea di qualcosa che permane identico a se stesso in un lasso di tempo brevissimo, fulmineo, diremo che tale qualcosa è (dunque impropriamente) nel presente (più precisamente, essendo presente). Nell’istante che viene subito dopo si farà esperienza sensibile di qualcosa di completamente diverso rispetto a quanto riempiva l’istante precedente (o, per meglio dire, a quanto era sensibilmente presente un attimo prima). Tuttavia il flusso della nostra coscienza è continuo, ossia ininterrotto, incessante, per cui essa permarrà identica a se stessa nel primo così come nel secondo istante. Pertanto tale (minima) serie di (mettiamo) due semplicissime impressioni sensibili (del tipo kantiano, ovvero ‘presenti alla coscienza’ ma contraddittoriamente non-estese; ricorro al pensiero kantiano per facilitare ciò che sto ora esponendo) non potrò che ricondurla interamente (ossia tutta) alla mia interiorità (inaccessibile ovviamente a chiunque, tranne che a me stesso). Ora, è grazie alla memoria che, nel secondo dei due istanti, riesco a ricordarmi dell’istante ad esso precedente: è in tal modo che si insinua in me l’dea di un’unica coscienza (‘la mia’), la quale accompagna ogni possibile rappresentazione che andrò ad esperire a partire dalla ‘venuta alla luce’ della mia coscienza, fino a quanto giungerà il mio decesso, il mio trapasso. Non potrò dunque far altro che credere nell’unità del mio ‘io’, della mia ‘coscienza empirica’ (se però essa coincide con il ‘soggetto empirico’, affine, per via di alcuni aspetti, al ‘cogito’). Tale credenza in buona fede è dunque in realtà erronea. Ora, ‘per facilitarci le cose’, ignoriamo che la comune esperienza si edifichi man mano secondo quanto (magari pressappoco) ha sostenuto Kant. Immaginiamo dunque di porre il nostro intero corpo di fronte ad uno specchio, per poterlo contemplare in due istanti (che si susseguono l’uno dopo l’altro).

Ora, ciò che vediamo nel primo istante, sarà tale da differire, in tutto e per tutto (nonostante l’estrema somiglianza), da ciò che vediamo nell’istante successivo (e di ciò ce ne dobbiamo pur rendere conto, da momento che il mondo è una ‘nostra’ rappresentazione, dunque inesistente in sé). E, in realtà, si ha a che fare con due coscienze assolutamente separate. Insomma, senza che possiamo (e ciò necessariamente) rendercene conto, stando all’ ‘esempio dello specchio’, nel secondo istante è completamente ‘venuto meno’ ciò che era presente nell’istante immediatamente precedente. Ora, il nostro più originario modo d’essere sarà tale (ciò ‘và da sé’) da avvicinarsi (perlomeno il più possibile, per quanto ciò sia possibile) alla verità e all’effettività nichilistiche. Ed, effettivamente, si danno innumerevoli ‘percezioni’ (in senso kantiano, ovvero moltissime ‘coscienze empiriche’, quindi nella loro accezione più propria) tra loro assolutamente separate, e non un’ ‘io penso’ (che in Kant corrisponderebbe quindi al ‘soggetto empirico’). Di conseguenza, l’usare la memoria (nonché l’immaginazione del futuro), costituisce un modo d’essere derivato dell’uomo, uomo che, in origine, vivrà dunque (e ‘in via naturale’) solo nel presente (utilizzando, cioè, la sola facoltà della ‘percezione’), sperimenterà unicamente ciò che è sensibilmente presente.

Proprio per questo il nichilista sarà naturalmente portato ad assecondare le sole sue pulsioni, i soli suoi impulsi: in base alla particolare tensione d’animo che lo caratterizza in un certo momento, potrà voler filosofare, dedicarsi allo studio delle scienze empiriche (ma farà entrambe le cose non in vista di uno scopo pratico futuro, ‘conoscendo’ dunque ‘disinteressatamente’, ovvero in modo ‘fine a se stesso’), potrà voler conversare, vedere una partita o un quadro, praticare uno sport, suonare, dipingere, fare sesso, scazzottare, addirittura uccidere (e – forse – potrebbe anche voler porre fine – in particolarissimi frangenti della sua vita – alla sua stessa esistenza). Potrebbe addirittura voler lavorare in catena di montaggio (attività che alla lunga può stressare, ma che difficilmente ‘affatica’), ma non solo: potrebbe anche voler faticare (ad esempio, all’interno di una palestra o di una piscina, oppure ‘facendo ciclismo’). Insomma, non c’è attività, o meglio, non c’è ‘possibilità esistenziale’ o ‘scelta esistenziale’ che dir si voglia, che il nichilista non possa assumere (purché ‘lo desideri’ – ad un certo istante – ‘davvero’, ‘pienamente’, per così dire, ‘con tutta la sua volontà’). Usano invece, sia la memoria che l’immaginazione del futuro, sia il ‘borghese’ che il ‘popolano’            (l’ ‘uomo del volgo’).

Il primo, in base al ricordo delle sue esperienze trascorse, può anticipare il futuro: si dedica però unicamente alla conoscenza tecnico-scientifica in generale (e anche nel senso più esteso o ampio, ‘in senso lato’), e soltanto per soddisfare il suo strettissimo egoismo (essendo inoltre incurante di ogni contraccolpo negativo che tale sua attività potrà produrre). Il secondo, atavicamente ignorante (è la borghesia che gli insegna ogni sua attività lavorativa, operativa, anche intellettuale), è tuttavia ‘uomo etico’. Coltiva, ad esempio, la ‘memoria storica’ per non ripeterete in futuro gli sbagli del passato. Più in generale, ha appreso dall’esperienza tutto ciò che non deve fare affinché, in futuro, non noccia, né a se stesso, né agli altri, né alla restante natura. E anche nella dimensione del presente non obbedisce a (perlomeno) alcuni dei suoi impulsi, in quanto potrebbe (ancora una volta) danneggiare sia sé che l’ ‘Altro’ (l’intera ‘alterità’, ossia la ‘Natura’ nella sua interezza o totalità, prescindendo quindi da lui).

Ma torniamo a parlare del nichilista. I suoi gesti (o i suoi modi) sono sempre (per così dire) ‘animaleschi’ (qui, non nel senso di ‘aggressivi’) e, più in genere, alienati (inoltre, ad esempio, nel vestire si omologa sempre alla massa). La disalienazione è difatti, in ogni sua forma, qualcosa che connota l’ ‘umano’ (l’ ‘umanità’ di contro all’ ‘animalità’), per cui rientra (più o meno) a pieno titolo all’interno di quell’ ‘oggettività valoriale’ cui si è più volte fatto riferimento. Ma, dal momento che l’ ‘essere in generale’ non esiste, chi assume atteggiamenti disalienati, millanterà meramente il suo (dunque soltanto presunto, ovvero non-effettivo) ‘valore’ (il suo ‘valere’ più degli altri, ‘in e per’ qualcosa): il nichilista non potrà allora far altro che ‘prenderlo per un buffone’, in quanto quel qualcuno sa (in fondo) benissimo di fingere di essere qualcuno (o qualcosa) che non è – e che non potrà mai essere – ovvero un’ ‘ente’ (gerarchicamente più o meno importante); il nichilista dispone – e per necessità – di un certo suo tipo di ‘umiltà’ (o di ‘modestia’).

In generale, si può affermare, che la ‘positività’ (che è sempre e solo – ossia in ogni caso – ‘ontologica’), a questo mondo, ‘non può offrirsi neanche minimamente’: si possono rivestire unicamente caratteristiche ‘negative’ (ossia, anti-valoriali, ‘immorali’ in senso lato, secondo cioè un’accezione estesa). Chi è sincero con se stesso, sa che non si può valere di più rispetto alla massa alienata, omologata, e persino stupida (o comunque ‘mediocremente intelligente’; e anche l’intelligenza è un ‘valore ontologico’, per cui nessuno, in fondo, gli attribuisce valore, rilevanza, ‘peso’).

Questo è il ‘regno della quantità’, per cui le ‘qualità’ non valgono, nel fondo di ogni animo, un bel niente. E anche se ‘a questo mondo’ tutto ha, per così dire, ‘un peso relativo’, in esso ‘si terrà un poco’ – tutt’al’più – a chi è agile, corpulento (imponente) e muscoloso (che attrarrà – perlomeno un po’ più di ogni altro uomo che non sia fisicamente come lui – virilmente gli uomini e sessualmente le donne, se entrambi, ovviamente, eterosessuali). Un uomo simile ‘andrà a genio’ a chiunque (‘universalmente’), che lo si ammetta a se stessi o meno (una tale persona la si potrà cioè ammirare sia apertamente che non). Ciò dipende dal fatto che, più grande è la massa, la mole, di un corpo (compatto, solido, per definizione), più la sua forza (danneggiante) sarà soverchiante: ma essa è anche condizionata dalla rapidità, dalla sveltezza, dalla celerità; e così, utilizzando un sasso per provocare un danno, quest’ultimo sarà tanto maggiore (sarà tanto più grave) quanto più grande sarà il sasso, e quanto più si sarà in grado di scagliarlo velocemente.

(continua…)

 

Umberto Petrongari

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