10 Aprile 2024
Filosofia

Alla ricerca del peccato perduto – Livio Cadè

Diceva Guicciardini: «a salvarsi da un tiranno bestiale e crudele non è regola o medicina che vaglia, eccetto quella che si dà alla peste: fuggire da lui el più discosto, ed el più presto che si può». Di questa massima dovremmo far tesoro per scampare al flagello della nostra grottesca post-democrazia, ancella delle ruberie e dei soprusi di pochi, onnipotenti tiranni.

Non dovremmo cercar contravveleni a questo male ma accontentarci di poterlo fuggire. Del resto, lo stesso Guicciardini ricorda che non si tiene uno Stato secondo coscienza ma con la violenza e la dissimulatio. Il ricordo delle passate soperchierie dovrebbe farci avveduti e proteggerci. Ma i vaccini della storia, come tanti altri, non sembrano efficaci.

Questo male, che eternamente si ripropone in forme nuove, ha bisogno per esistere di un colpevole e di una vittima. Se però guardiamo le cose da un piano metafisico, vedremo che non vi può essere una vittima, solo un colpevole, perché nessuno può soffrire un danno metafisico senza il proprio consenso e la propria partecipazione.

In tale prospettiva la colpa diventa peccato e il danno dannazione, termini che dovremo rivalutare nonostante il loro carattere obsoleto e così poco scientifico. L’uomo moderno ha perso il senso del peccato e lo deve ritrovare. Per esser felice non deve liberarsi dai sensi di colpa, come vorrebbe una facile psicologia, ma dalla colpa.

Occorre riconoscere onestamente la propria responsabilità, rifiutando tanto concezioni superomistiche al di là del bene e del male, quanto quelle che se ne stanno al di qua in una sorta di determinismo probabilista e irresponsabile.

Non ci si libera dalla colpa aderendo a visioni scientifiche per cui l’uomo sarebbe solo una macchina complessa, che pensa e sceglie non diversamente da come digerisce e defeca, per necessità meccanica. Com’è assurdo rimproverare una macchina per quello che fa, altrettanto irrazionale sarebbe accusare un essere umano!

Tuttavia, se pensiamo che esistono solo eventi stocastici, processi governati dal caso e da meccanismi involontari e che l’uomo è creta plasmata non da dita divine ma da casuali rotazioni di atomi, dovremo pur ammettere che questa stessa idea è aleatoria, frutto di automatismi nervosi. Non può ambire dunque ad alcuna pretesa di verità stabile.

Per altri la colpa va addebitata alla società, l’educazione, l’ambiente. I cattivi educatori assolvono così l’innocente educando e anche sé stessi, vittime di altri educatori. La colpa, ripartita tra generazioni infinite, scompare. Solo che, di fronte all’assassino che si dichiara innocente perché costretto a uccidere da condizionamenti sociali, il giudice potrebbe addurre la stessa ragione per mandarlo alla forca.

(In questo paradosso c’è tuttavia una verità. L’uomo non è generato dagli atomi che lo compongono ma dall’idea di Uomo. In modo analogo, non gli uomini formano la civiltà ma la civiltà, che è realtà spirituale, precede gli uomini e li plasma).

La colpa e il peccato non rientrano neppure in quelle psicologie deterministiche che vedono nei comportamenti umani gli esiti fatali di processi inconsci, spezzando arbitrariamente l’unità dell’essere umano in entità mitologiche come l’Es, l’Io o il Super-Io.

Le teorie fin qui accennate bastano a rendere insensato ogni sistema giuridico o morale in cui sia necessario giudicare una colpa personale. Sembrano invece legittimare il bisogno di incolpare gli altri, ricorrendo ad ambigue demonologie dove, ai tradizionali demoni, si sostituiscono elementi corruttivi di natura biologica, sociale, pulsionale ecc.

Queste concezioni hanno due limiti. Il primo è la riduzione dell’uomo alla sua dimensione psicosomatica. Ne scorgono solo il divenire attraverso processi storici e naturali e non vedono l’Essere che sottende quei processi. Secondo, conseguente al primo, è l’incapacità di distinguere tra causa e colpa. ‘Causa’ indica una necessità di ordine fisico o psichico, ‘colpa’ attiene invece alla libertà della persona. Ma la nostra mente scientifica è talmente assuefatta a ragionare per cause che tende ad assorbire anche l’idea della colpa in quello di una catena causale.

Il senso comune percepisce invece la presenza in noi di una libera facoltà morale. Ci dice che l’uomo risponde delle sue azioni. Se un uomo mente, ruba, uccide, sentiamo che commette un atto colpevole in misura più o meno grave. Su questo si fondano le nostre leggi e il nostro sistema di sanzioni.

In una dimensione più radicale, la responsabilità dell’uomo eccede però gli aspetti puramente morali e del diritto per porsi sul piano metafisico del peccato. Si sa che questa parola suscita nella sensibilità moderna reazioni di disagio o insofferenza intellettuale. È di fatto impossibile coglierne il senso se non si accetta l’idea di una libertà umana radicata nella libertà divina.

Questa libertà non consiste nella possibilità di fare ciò che si vuole ma di volere ciò che è bene. L’uomo non inclina al male per amore del male. Ogni volontà è naturalmente indirizzata al bene. Questa volontà non nasce da condizioni storiche contingenti ma dalla realtà sorgiva dell’essere umano.

Nella giurisdizione dello spirito, la punizione è il simbolo di un universo retto da leggi morali, karmiche si potrebbe dire, dove il male attira il male. Ma la pena, il dolore, non ha solo natura di correzione pedagogico-terapeutica. È anche il riconoscimento della dignità del colpevole. L’espiazione esprime il rispetto della sua libertà -e quindi responsabilità- come Persona.

Fare il male pare una possibilità che si offre alla libera volontà Tuttavia, la libertà è il potere di realizzare sé stessi, non di negarsi. Questa realizzazione, che è piena espressione delle proprie potenzialità spirituali, è un bene. Quindi non vi può essere una vera libertà di fare il male. In caso contrario, Dio stesso, che è libertà assoluta, sarebbe libero di non essere Dio, di abdicare alla sua divinità in favore di Satana, di annichilirsi ecc.

L’odierna società sembra incoraggiare l’uomo a godere di una libertà fittizia e immanente, sradicata dal suo vincolo con la trascendenza.  Ma se osserviamo quanto in realtà la scienza, l’economia, la filosofia moderne facciano di lui un predestinato, gettato nel mondo, piccola rotella stritolata tra ingranaggi inflessibili, capiamo che tale libertà è un artificio retorico, miraggio utile a evitargli la disperazione.

Il nostro pensiero, dominato dal linguaggio scientifico-razionale, non può comprendere l’anima, e senza anima non esiste libertà. Perciò il mondo moderno non può parlare di libertà senza ipocrisia e senza cadere in contraddizioni insanabili. Ma senza l’anima non esiste neppure il peccato, perché peccare significa allontanarsi dall’anima e dalla sua libertà, ovvero tradire sé stessi.

Sintomo di questa menomazione metafisica è la presunzione di autosufficienza tipica dell’uomo moderno. Centro del suo essere non è più Dio ma l’Io. Dio viene emarginato in una periferia di analisi intellettuali, dove manca ogni calore. L’uomo non osa più abbracciare Dio eroticamente, perdendosi in Lui. Non sa più vedere Dio in ogni cosa.

Agostino fa un’affermazione scandalosa: “È Dio che determina in noi il bene e il male; sono le Sue buone opere che Egli ricompensa in noi e sono le Sue cattive azioni che Egli punisce in noi”. Dottrina di cui Erasmo condannò l’empietà e le funeste conseguenze. Ma Erasmo procedeva razionalmente e, da umanista, non poteva vedere l’unità umano-divina dell’uomo, l’abbraccio erotico che stringe le due nature. Una filosofia solo umana non può conciliare le antinomie e le contraddizioni di una realtà dove libertà e legame coincidono e si fondono, come nell’amore.

La cultura moderna è di fatto una congiura contro il fondamento metafisico. Questa perdita di un primigenio sentimento religioso priva l’uomo della sua integrità e lo sradica da sé stesso, provocando in lui un vuoto che si riempie di energie demoniche. La sua libertà si perverte in un sistema compulsivo di appropriazione e godimento del mondo. Ma poiché lascia inappagata la sua metà ultramondana, il risultato del suo arbitrio è una radicale frustrazione.

Peccare non è dunque espressione di libertà, ma di schiavitù, di una volontà contratta e involuta, che aliena l’uomo dalla sua relazione ontologica con Dio e gli impedisce una vera realizzazione di sé. L’uomo buono non è libero di peccare, come un uomo intelligente non è libero di essere idiota. Per citare ancora Agostino: “magna libertas est posse non peccare, sed maxima libertas non posse peccare”, grande libertà è poter non peccare, ma la suprema libertà è non poter peccare.

Credo che in tal senso la società moderna rappresenti il livello più basso di libertà mai toccato dall’uomo. Società che inventa grevi artifici per nascondere il peccato, per giustificare la perversione metafisica e, strappandolo alle radici, condanna l’uomo al non-essere.

Società che celebra il fantasma liberale delle sue istituzioni, fa l’apologia del bene apparente, incoraggia una libertà caotica e ribelle. Società che si mobilita e si dichiara paladina di un’illusoria salute per nascondere il fatto che è lei stessa la malattia e l’infezione.

Come primo passo, lungo una via di guarigione, dovremo tagliare i ponti con quel pensiero che sempre trova cause esterne al male, ne incolpa gli altri, la natura, la storia, il destino. Visione irresponsabile che infine ci induce a osservare le nostre difficoltà con le lenti dell’odio e del risentimento e a pretendere dalla vita dei risarcimenti.

V’è un solo modo per superare il male ed è il pentimento. Occorre sentire in sé la colpa di aver deformato la propria libertà e il proprio essere. Ciò implica rendere a sé stessi una piena e sincera confessione. Non si tratta di produrre un elenco dei propri atti illeciti ma di illuminare la propria esistenza, passando dall’auto-giustificazione, o dal senso di colpa psicologico, a una visione metafisica del peccato. La libertà non si mostra più come un arbitrium indifferentiae, concetto vuoto che possiamo riempire ad libitum con ogni genere di desiderio, ma coincide con la necessità di creare e proteggere l’armonia del mondo.

Fare il male non è un atto libero ma una coazione patologica, che forgia catene per noi e per gli altri. Solo liberandoci da una falsa libertà ritroviamo il senso originario del peccato: caduta, trasgressione di un Ordine che non è coercizione ma libera costruzione di senso e di bellezza, opera d’arte. È un’illuminazione che nasce dalle profondità del nostro essere spirituale. È un ritorno al cuore, al centro di noi stessi. Allora, nella sincerità, troviamo una verità con cui curare l’insensatezza del male.

È però una guarigione che si prospetta oggi più ardua e dolorosa che in passato. Siamo quotidianamente aggrediti da una menzogna radicale sulla natura e sul destino dell’uomo. La Chiesa stessa si fa complice di un progetto di dissacrazione del reale, diventa meretrice, “mezzana ai Signori dell’inferno”.

Nihil sub sole novum, si dirà. Ma il male non viaggia più a dorso di mulo, come nel medioevo. Oggi dispone di mezzi straordinari, in grado di distruggere in poco tempo un intero sistema di valori tradizionali e di trasformare ogni città del mondo in una moderna Babilonia.

3 Comments

  • Kami 9 Maggio 2021

    Dopo aver letto il suo articolo mi sono messa a fare delle ricerche su, appunto, il significato della parola “peccato” (che ho sempre, per educazione cattolica, associato alle fiamme dell’inferno e al lago di zolfo), ed ho trovato una riflessione molto interessante sul tema. Le lascio il link se le interessasse leggerla.
    https://cappellania.wixsite.com/home/post/il-peccato
    Un saluto!

    • Livio Cadè 9 Maggio 2021

      Gentile Kami, La ringrazio della segnalazione. Alcune cose le sapevo (per esempio, mi è sempre piaciuta l’idea che ‘peccare’ sia sbagliar mira), altre no. Per esempio, mi ha un po’ inquietato l’assonanza del ‘kedè’ biblico (peccato) col mio cognome. Ma, fortunatamente, dalle mie parti il mio cognome significa ‘ca’ Dei’ cioè casa di Dio. Questo dovrebbe rassicurarmi.
      Mah, io non ho mai creduto ai laghi di zolfo. Però ci sono cascato dentro spesso. Anche tra le fiamme. Quindi esistono.
      Il problema è che quelli della mia età fanno fatica a dimenticare quei confessionali bui e bisbiglianti dove, da ragazzini, si andava per non disubbidire ai genitori. E quelle penitenze (meccanica recita di tot pater, ave, gloria) da liquidare nel più breve tempo possibile. Efficace propedeutica all’agnosticismo o all’ateismo…
      È così che si perde il senso vero del peccato. Però, attenzione: non facciamo del peccato una questione culturale, di parole. Sarebbe un altro modo per dimenticarsene.

  • roberto 14 Maggio 2021

    Articolo bellissimo, ma non é una novità, ed ispirato/ante
    Inquietante, altresi!
    Il male, é vero come non mai, “dispone di mezzi straordinari” e, oltretutto, seducenti e pervasivi. Grazie alle (o meglio, a causa delle) moderne tecnologie siamo continuativamente esposti al suo assedio ed esposti ai venefici attacchi dei suoi viscidi tentacoli… La volontà vacilla… L’auto-giustificazione è pronta, come pure la interessata, complice solidarietà…. Si vola bassi o, più spesso, si é impantanato nella fetida palude della mediocrità e del conformismo al ribasso, nel migliore dei casi!
    C’è una coraggiosa, disinteressata élite in grado di tirarci fuori da questo inferno in terra? C’è ancora tempo? O le ceneri della Civiltà Occidentale sono oramai definitivamente sepolte, sotto le macerie?

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