20 Aprile 2024
Geopolitica

Alcune considerazioni su geografia sacra e geopolitica – Daniele Perra

Uno degli aspetti che il metafisico francese René Guénon, nella sua opera Il regno della quantità e i segni dei tempi, identifica come manifestazione di quello che chiama il processo di “solidificazione del mondo” è il passaggio dalla sfera (simbolo universale dell’“uovo del mondo”, del “grembo della divinità” o delle sfere celesti) al cubo (espressione di materialità prettamente terrena)[1].  Tale idea si ritrova nelle tradizioni dell’Estremo Oriente. Qui, i simboli sferici sono sempre stati ricondotti al cielo (Tien), mentre le forme cubiche alla terra (Ti). Due termini che nella tradizione indù corrispondono a purusha (essenza – cielo) e prakriti (sostanza – terra). Una tradizione, quella indù, che lo stesso Guénon considerava come la più vicina alla realtà primordiale [2], ma che a partire dal XX secolo è stata a più riprese volgarmente inquinata dai germi del “piccolo-nazionalismo”. Nella prospettiva di Guénon, l’aspetto più evidente del “passaggio dalla sfera al cubo”, dunque del processo di solidificazione del mondo, è rappresentato dagli sforzi per ridurre i popoli nomadi alla vita sedentaria. Essi non hanno più spazio nel mondo e, di conseguenza, vengono costretti all’interno dei confini dello Stato moderno.  Questi popoli, lontani dal lusso e dagli eccessi della vita sedentaria, come sottolineò il grande pensatore arabo Ibn Khaldun nei Prolegomeni (al-Muqaddimah) alla sua monumentale opera Libro degli esempi storici (Kitab al-Ibar), sarebbero inevitabilmente più vicini al divino. La verità di tale intuizione, secondo il metafisico francese, si renderebbe particolarmente evidente nello stesso testo biblico; quando Caino (agricoltore), geloso della benevolenza che Dio mostra nei confronti del fratello Abele (pastore), lo uccide e, come inevitabile conseguenza, viene maledetto dal Creatore. L’analisi guenoniana sul tema prosegue citando espressamente i progetti sionisti nei riguardi degli Ebrei come uno dei più chiari esempi di sedentarizzazione/solidificazione. A tale proposito, però, è bene sottolineare che la prima sedentarizzazione del popolo ebraico, quella rappresentata nella Bibbia ed indissolubilmente legata alla costruzione del Tempio di Gerusalemme, fu voluta da Dio stesso. E questa rimase valida solo fintanto che Dio mantenne intatta la sua presenza all’interno del Tempio. Quando Dio abbandonò il Tempio, venne meno anche la sedentarizzazione ed il nomadismo si ripresentò sotto forma di dispersione. Da questo ne deriva inevitabilmente che la nuova sedentarizzazione altro non è che una forzatura contro Dio. E, in quanto tale, è puramente un prodotto della modernità che rientra nel processo di “occidentalizzazione” della Terra Santa.  In questo caso per “occidentalizzazione” si intende un processo volto all’imposizione della modernità occidentale su scala globale. L’Occidente è il luogo in cui la modernità (concetto “culturale” e non temporale) ha trionfato sul “mito”. Quella “occidentale” è la dimensione spaziale in cui si è compiuta la “de-mitizzazione” dell’Esser-ci. La modernità, privando l’uomo del “mito”, lo ha inesorabilmente privato del principale strumento attraverso il quale esso si auto-interpreta. E, così facendo, ha condannato l’Essere all’oblio e all’inautenticità. L’Occidente, dunque, si è autoprivato del “mondo intermedio”: di quello spazio mistico-immaginale della geografia sacra in cui hanno luogo le visioni dei profeti e gli accadimenti simbolici che innalzano l’anima umana. Questo “luogo” è stato degradato a mera “fantasia” che emana dell’irreale, quando, al contrario, da esso prorope la “Realtà vera”. Con la perdita di questo mundus imaginalis, dove l’uomo (sospeso tra l’intelligibile e il sensibile) incontra la Sophia (il santo elemento da cui si percepisce la presenza divina nel nostro mondo), si sono prodotti il nichilismo e l’ateismo come espressione più “alta” della dimenticanza dell’Essere.

Detto ciò, si rende necessaria una riflessione non del tutto in linea con quanto affermato da Guénon. Egli, infatti, riguardo al processo di solidificazione delle realtà umane nomadiche, si dimentica di citare quella che fu la condanna imposta da Dio a Caino. Questa, recita così: “e ora tu sia più maledetto della terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo esso non ti darà più i suoi prodotti, e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra” (Genesi 4:11-12). Dio, di fatto, condanna Caino al nomadismo. Di conseguenza, la sedentarizzazione non può essere esclusivamente espressione di depotenziamento spirituale o di progressiva caduta nell’abisso materialista. Tale pensiero deriva da una estremizzazione dell’idea del demonismo ctonio che ha portato a considerare la Terra, ed il suo ventre, unicamente come generatrice di mostri e titani. In questo senso, un esempio differente di concettualizzazione della Terra è rappresentato dalla Tradizione e dal mondo iranico in cui parte dei popoli indoeuropei si sono sedentarizzati ed hanno costruito una specifica gerarchia incentrata sul rapporto diretto con la terra. Come è noto, Iran (o Airyana) deriva dal termine “arya”, che significa “aratore”. Questo, derivato a sua volta dalla radice “ar”, presente anche in diversi termini latini dal medesimo significato, designa un particolare titolo onorifico legato indissolubilmente alla Terra come espressione di stabilità, fissità e di spazio sacralizzato.  Questa idea, puramente tradizionale, ha il suo fondamento nell’angelologia mazdea. Nella dottrina e pratica dell’Avesta, infatti, nel rituale del ventottesimo giorno del mese, si legge: “Noi celebriamo questa liturgia in onore della Terra che è un Angelo” [3]. Questo Angelo è Spenta Armaiti (la figlia prediletta di Ahura Mazda) che “ha per ieurgia propria la Terra quale forma di esistenza avente come Immagine la Sapienza”[4]. La terra viene dunque percepita nella persona del suo Angelo che “impersonifica” la Sophia del mazdeismo. E la percezione del mistero sofianico della Terra (dunque, della geosofia) non può compiersi nel quadro di una geografia “positiva”. Essa presuppone una geografia “visionaria”. Su questa geografia visionaria (che trasmuta le piante, le acque e le montagne nella loro forma immaginale) si è fondato quel procedimento cartografico degli antichi iranici che, sovrapponendo la geografia metafisica a quella fisica, ne determinava in modo diretto e fondamentale le localizzazioni spaziali.

Alla Terra, intesa nel suddetto senso di espressione di stabilità, si oppone inevitabilmente l’acqua come simbolo di mobilità e dinamicità. Terra e acqua, dunque, sono il fondamento di ogni rappresentazione umana dello spazio terrestre.  In termini geopolitici, terra e acqua (intesa più propriamente come “mare”) hanno dato vita alle categorie antitetiche di tellurocrazia e talassocrazia. Se il marxismo concepisce la storia del mondo come storia del conflitto di classe; per la geopolitica la storia del mondo si interpreta attraverso la lotta tra potenze talassocratiche e tellurocratiche: Atene e Sparta, Cartagine e Roma, Gran Bretagna e Russia, Gran Bretagna e Germania, Stati Uniti e URSS, Stati Uniti e Cina.  La terra, secondo una nota espressione di Carl Schmitt, è la “madre del diritto”[5]. Essa è pregna di “localizzazioni sacrali” che rappresentano la più pura espressione degli ordinamenti umani tradizionali.  Il concetto schmittiano di nomos è di fondamentale importanza per comprendere questa realtà. Esso indica la prima misurazione da cui derivano tutti gli altri criteri di misura. È la norma: ovvero, la legge[6]. E tale concetto ha un’origine prettamente teologica. Nomos, infatti, è il dio che da Eusebia ha generato Dike (la giustizia). L’essenza teologica di questo concetto risulta evidente anche dalle definizioni che ad essa vengono attribuite da diversi autori greci. Eraclito definisce il nomos come “divino”; Pindaro lo definisce come “sovrano”; mentre i platonici e gli stoici lo definiscono addirittura come “dio”. In particolar modo, Pindaro proclama l’assoluto predominio del nomos, ossia della legge divina, sulla totalità degli esseri esistenti. Il nomos è re su tutti gli esseri: norma e principio guida. È ciò che Zeus, secondo Esiodo, ha disposto per gli uomini. Allo stesso tempo, secondo gli stoici, è la legge razionale secondo la quale tutto nel mondo viene predisposto dalla Provvidenza.

È bene altresì ricordare che la giustizia, come veniva interpretata alle origini della civiltà europea, era un concetto metafisico e non morale. La giustizia era l’insieme delle leggi che disponevano dell’essere dell’ente. Dunque, essa era la filosofia intesa nel senso reale del termine: come sapere essenziale e fondamento portante di tutto l’essere politico e, di conseguenza, geopolitico.  La geopolitica, infatti, discende direttamente dalle suddette “localizzazioni sacrali”. É sulla terra che si è stabilito il nesso tra sovranità, diritto, cultura/religione e territorio. Questo nesso è comprovato dalla parentale semantica che sussiste tra i termini rex (il detentore dell’autorità necessaria per delimitare i confini) e regio (lo spazio regionale). I due vocaboli discenderebbero infatti da una medesima radice indoeuropea. Il rex latino ed il raj-(an) sanscrito rimanderebbero ad un antico reg che il linguista Benveniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee collega al greco orégo (stendere in linea retta)[7]. Questo significato sarebbe ravvisabile proprio nel termine latino regio che, originariamente, non indicava una regione fisicamente definita quanto il punto raggiunto da una linea retta tracciata per terra o in cielo e, in seguito, lo spazio compreso tra linee tracciate in sensi diversi.  L’espressione “regere fines”, che letteralmente sta per tracciare frontiere in linea retta, indicava, dunque, l’operazione di carattere magico-rituale, precedente la costruzione di un tempio o di una città, da parte del rex o sacerdote (colui il quale era investito del massimo potere) al fine di indicare sul terreno lo spazio consacrato delimitando l’interno e l’esterno, il regno del sacro dallo spazio profano, il territorio “nazionale” nel quale era possibile abitare dal territorio straniero. Ogni espressione del costruire, così, comportava un rituale ed un simbolismo provenienti da un passato antichissimo. Le città erano costruite ad immagine del loro archetipo celeste. Ed ognuna di essa era a suo modo centro del mondo: un territorio sacro nel quale si rendeva possibile la comunicazione diretta tra il cielo e la terra.

Il confine stesso, il limes, aveva un valore sacrale. Esso, in epoca romana, era protetto dal Dio Terminus che secondo Ovidio segnava i confini dei popoli, delle città e dei grandi regni. Ed il suo ruolo, secondo George Dumézil, corrispondeva ad una precipua caratteristica del dio sovrano adorato dagli indoeuropei. Solo in seguito, con lo sviluppo imperiale di Roma, tale caratteristica venne applicata ad una divinità autonoma [8].  Il concetto di limes, inteso come insieme di fortificazioni distese lungo i confini là dove questi non erano segnati dal mare o da un fiume (ripa), rimanda inevitabilmente al concetto di “Impero”. L’Impero, pur rappresentando (in termini heideggeriani) una deviazione dall’essenza iniziale della grecità (avendo in qualche modo imposto il primato dell’azione sul pensiero scindendo l’originale co-appartenenza dei due termini), costituisce comunque il culmine per eccellenza della vita associata dell’uomo. All’idea di Impero è estraneo il concetto dell’individuo proprio dell’età moderna e forgiato attraverso il Rinascimento, la Riforma protestante e le rivoluzioni borghesi di fine XVIII secolo. L’Impero, per sua natura, tende ad un fine che assume significato solo attraverso forme di condivisione comunitaria della vita umana. In questo contesto, l’individuo riscopre il proprio valore attraverso il senso di appartenenza attiva ad una comunità al contempo politica e spirituale. Questa vita associata si esprime in una precisa divisione del lavoro su scala gerarchica in cui ogni livello gode comunque, al contrario di quanto imposto dal regresso modernista, del medesimo grado di dignità. Esso assume la funzione di regolatore supremo delle relazioni tra i diversi popoli (ethnos) che lo compongono. La pacifica convivenza è sancita dalla volontà unica di governo che è espressione diretta della volontà divina. L’Impero è infatti lo strumento attraverso il quale il diritto divino diventa realtà. La sovranità, dunque, si fonda sul rispetto e sulla fedeltà ad un principio di ordine superiore.  L’Impero, come istituzione che riunisce in sé il potere temporale e spirituale, è l’unico sistema politico atto a realizzare la missione terrena e celeste dell’uomo. Esso, inoltre, in una prospettiva prettamente cristiana (che già ne rappresenta in qualche modo un suo inquinamento), è strumento della liberazione dell’uomo dalle conseguenze del peccato. Tale peccato consiste in quell’allontanamento dell’uomo da Dio che ha originato la violenza degli istinti predatori ed egoistici.

Il riscatto da questa situazione non può che avvenire per elezione divina. I principi della terra, eletti da Dio a tale scopo, hanno il compito di tenere a freno le pulsioni umane delittuose e di restaurare l’ordine distrutto dal peccato. Infatti, l’Impero, secondo la tradizione paolina, è il Katéchon: il potere che frena l’avanzare del male. Questa “figura” compare nella Seconda Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi. In questa lettera, l’apostolo affermava che il secondo avvento del Cristo non è imminente e che prima della nuova parusia del Signore dovrà avvenire la grande apostasia ad opera di colui che viene descritto come “l’uomo dell’iniquità”. Tuttavia, il mistero dell’inquità, secondo San Paolo, era in atto già al momento in cui scriveva la lettera; ma l’apostasia finale è temporaneamente impedita da “ciò che trattiene” (tò katèchon). Un potere frenante venne identificato da Tertulliano ed altri nell’Impero romano. Esso era ciò che tratteneva l’eone, determinando il rinvio della fine. In tempi più recenti Carl Schmitt utilizzò il termine katéchon per indicare una forza frenante che tenta di opporsi alla distruzione di un ordinamento politico [9]. Ora, è inevitabile porsi la seguente domanda: in cosa può essere identificato il male in epoca moderna? Esso consiste nella perdita/cancellazione del suddetto nesso tra sovranità, diritto, cultura/religione e territorio. È il distacco dalla radice. É perdendo il contatto con la terra consacrata che l’uomo perde il suo essere nel mondo. Il male è l’uniformazione di questo mondo: la sua privazione delle distinzioni spaziali per mezzo del potere talassocratico che non conosce confini ma solo “fasce di sicurezza”. Di conseguenza, i confini, privati da tempo del loro valore sacrale, vengono annullati e ridefiniti a seconda delle esigenze della potenza egemone di turno.  L’Impero, così, si trasforma in imperialismo, e l’estensione spaziale diventa mera accumulazione quantitativa di spazio. L’impero talassocratico è un contenente senza contenuto o il cui contenuto è contraffatto. Ovvero, è spazio omologato: una pura virtualità che esiste solo nell’ambito della contraffazione geografico-ideologica. L’uniformità omologante non è mai “unità”. L’uomo, atomo individuale, è sì separato dagli altri per necessità “sociale”, ma deve comunque essere uniformato sul piano ideologico-culturale. Questa uniformità è una caricatura dell’unità: un ideale alla rovescia, un mero inganno, la negazione stessa dell’unità. Ed in questo consiste l’imperialismo anglo-americano, il quale, conscio del fatto che un orientamento geopolitico è sempre in primo luogo un orientamento spirituale, ha visto bene di costruirsene uno a sua immagine e somiglianza. In questo preciso istante storico/temporale si rende necessario combattere tale “uniformità”. Ma è palese che non si può combatterla sostituendola con un genere diverso di uniformità che rifiuti o limiti ai minimi termini l’approccio ideologico precedente ma che, al contempo, riproduca il medesimo apparato di dominio tecnico-militare-finanziario sotto le mentite spoglie di una presunta “molteplicità” di Stati falsamente indipendenti. E l’approccio da mantenere per combattere tale uniformità deve essere prettamente geopolitico nella precisa consapevolezza che il futuro ordine globale è destinato a svilupparsi nel senso di un pluriversum di grandi spazi e che l’Impero, come costruzione politico-spirituale realmente unitaria, ha una possibilità perenne che trascende ogni contingenza storica.

Note:

[1] R. Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Adelphi Edizioni, Milano 1982, p. 63. Tale inversione è particolarmente evidente nell’architettura delle chiese moderne, private della cupola e spogliate di qualsivolgia simbologia tradizionale.

[2] Si veda R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi Edizioni, Milano 1989.

[3] H. Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi Edizioni, Milano 1986, p. 35.

[4] Ibidem, p. 39.

[5] C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi Edizioni, Milano 1991, p. 59.

[6] Ibidem.

[7] E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (Vol. II). Potere, diritto, religione, Einaudi, Torino 2001, p. 79.

[8] C. Mutti, La geopolitica tra il sacro e il profano, www.eurasia-rivista.com.

[9] A questo proposito si veda C. Mutti, I concetti teologici secolarizzati della geopolitica, www.eurasia-rivista.com.

Daniele Perra

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