13 Aprile 2024
Appunti di Storia

1920: L’anno della minorità fascista (sesto capitolo)

 

11. BURLE ED ANEDDOTI

 

La sera dell’11 gennaio del ’19, in occasione della contestazione a Bissolati, l’arma scelta da Marinetti per canzonare il parlamentare neo rinunciatario, è stata una poderosa serie di “amen” di indubbio effetto. Provocazione nata sulla tradizione delle burle studentesche, che ha qualcosa di goliardico nell’ideazione e nella realizzazione, così come di burle, di scherzi, di racconti più o meno veritieri di burle e di scherzi sarà ricca la stagione squadrista.

Gli esordi sono certamente incruenti e quasi goliardici. Nella campagna elettorale del novembre ’19, particolarmente frequenti i “focherelli” notturni alimentati da cartelloni e manifesti elettorali “graziosamente” concessi dai sovversivi, mentre non si contano le “sparizioni” di bandiere rosse incautamente esposte, invece del tricolore, ai balconi delle Amministrazioni socialiste che vengono audacemente scalati da improvvisati arrampicatori, per poter poi cantare in allegria:

 

“Han detto che i fascisti / ne han fatta una grossa,

si son puliti il naso / con la bandiera rossa.”

 

Si canta anche il 16 aprile del ’20, dopo che al buon Giacinto Menotti Serrati viene imposto da Vecchi, Mazzuccato, Volpi ed altri due Arditi milanesi il taglio della barba. Bolzon immortala su lastra fotografica il memorabile avvenimento, e il coretto nasce spontaneo:

 

“Con la barba di Serrati / farem gli spazzolini

per pulir le scarpe / a Benito Mussolini”

 

Il giorno prima, sempre a Milano, e sempre lo stesso gruppo di Arditi, ha festeggiato l’anniversario della distruzione dell’Avanti con bevute e schiamazzi, nella sede di via Cerva. E non poteva mancare la burla: uno si attacca al telefono e chiede della redazione dell’Avanti; quando l’ha in linea, spacciandosi per socialista, comincia a raccontare preoccupato di minacciosi raduni di Arditi per le vie cittadine, che sembrano voler bissare l’esperienza dell’anno precedente. Ma, dall’altro capo del telefono, non hanno paura, e, anzi, smargiassano, e il dialogo si fa scoppiettante: “Come un anno fa? Ah! Siamo pronti noi…” “Proprio pronti?” “Prontissimi…” e allora l’Ardito, in puro dialetto meneghino: “E allora vegni subit con l’orinari…”, e giù il telefono, con una bella risata”.

E’, questo dei primi tempi, un guasconismo di fatti, oltre che di parole. L’intento dichiarato è quello di non fare veramente del male, ma, piuttosto, di coprire di ridicolo gli avversari, soprattutto se sono dirigenti o burocrati di partito, o, peggio ancora “disonorevoli” che a Roma stanno danneggiando l’Italia. Occorre far vedere alla pubblica opinione ed alle masse principalmente di che pasta sono fatti i capi della rivoluzione minacciata in arrivo.

Nessuna violenza vale più del ridicolo. Con quale faccia di bronzo lo sberleffato di ieri potrà ripresentarsi a far paura o, più semplicemente, a pontificare in pubblico? Né vale osservare che l’eventuale uditorio è, spesso, della stessa tempra dei capi, come quel gruppo di seguaci dello “sbarbato” Serrati che, ancora a Milano, sorpresi mentre sfilano in corteo, vengono “convinti”, da non più di cinque o sei Arditi, a sfilare con un più marziale “passo di parata”, facendo ridere tutto il capoluogo lombardo per il racconto che i vincitori protagonisti fanno dell’episodio, arricchendolo, in verità, ogni volta di particolari nuovi ed inediti.

Il gusto della beffa viene anche da Fiume, e, prima ancora, da alcune imprese arditesche del Carso. A Fiume, Keller, nella sua mania di giocar burle a tutti, non risparmia lo stesso D’Annunzio e, convinto dell’influenza negativa della compagna del poeta, la pianista Luisa Baccara, progetta di rapirla in un modo estremamente fantasioso. Infatti, pensa di organizzare in città una festa di tipo medievale, con travestimenti, musiche, etc., nel corso della quale la Baccara, bella castellana, verrà giocosamente “rapita” dagli Arditi assalitori del suo castello, costruito alla bell’e meglio in riva al mare.

Mentre il brigante progetta di rapire per davvero la pianista, con l’intento di portarla su un’isola deserta, lontana da D’Annunzio, il poeta, però, subdorando forse qualcosa, si oppone all’idea della festa e Keller rimane con un palmo di naso.

Lui e Comisso si rifanno, a fine gennaio ’20, quando un gruppo di legionari, guidati da Host venturi, rientra in Italia e cattura, con un colpo di mano, l’inviso Generale Nigra, che fino allora si è detto avversario irremovibile di D’Annunzio e della sua impresa; l’alto Ufficiale però, condotto a Fiume, si “ravvede” e dichiara il suo pieno appoggio alla causa del poeta, anticipando inconsapevolmente una stagione di “ravvedimenti” che caratterizzerà la dirigenza socialista sotto l’attacco squadrista.

Al gusto della sfida si aggiunge quello dello sfottò nel noto caso del “cavallo dell’Apocalisse”, nell’aprile, quando i legionari riescono a sottrarre alle truppe regolari che assediano la città 46 cavalli ben pasciuti e, di fronte alla reazione dei beffati, che minacciano di bloccare gli invii di grano alla città, restituiscono i 46 ronzini più macilenti che gli riesce di trovare; D’Annunzio dà dell’episodio un memorabile resoconto alla popolazione:

 

“Su compagni, pronti! Tiriamo a riva lo zatterone e mettiamo a posto la passerella. E rifacciamo il carico. E andiamo a sbattere sul muso dei tangheri tutta questa carne di cavallo, che loro faccia mal pro

Abbiamo perpetrato un’aggressione a mano armata verso le truppe fedeli

Abbiamo rubato Quarantasei Quadrupedi. Abbiamo offeso l’Italia

Non sappiamo pensare italianamente. Non siamo italiani

Non meritiamo se non di essere affamati, ammanettati e fucilati. Ci rassegniamo

Ma bisogna che ultimamente io confessi di aver rubato stanotte il Cavallo dell’Apocalisse, per aggiungerlo ai Quarantasei Quadrupedi su lo zatterone incriminato

Ha la sua brava bardatura generalizia; e un fulmine di Dio in ciascuna fonda

Cum timore”

 

Ancora Keller, a novembre, alla vigilia della ratifica del trattato di Rapallo, con un gesto clamoroso, vola su Roma e lascia cadere fiori con simbolici messaggi sul Quirinale e sul Vaticano, mentre su Montecitorio lancia un “arnese” di ferro smaltato con alcune rape legate al manico. Il messaggio di accompagnamento, in questo caso, dice: “Guido Keller. Ala. Azione nello splendore. Dona al Parlamento ed al Governo, che si regge col tempo, con la menzogna e con la paura, la tangibilità allegorica del loro valore”.

Ci sono poi gli “uscocchi”, gli “allegri filibustieri di D’Annunzio”, protagonisti di dirottamenti e abbordaggi per mare, che assicurano spesso alla città isolata gli indispensabili approvvigionamenti.

Con questi precedenti, è naturale che anche in Italia i fascisti non esitino a dare, quando e finché possibile, una vena giocosa, ma anche irriverente verso l’Autorità, alla loro azione. Gli squadristi ferraresi e rovigini, per esempio, di fronte al divieto governativo all’uso di armi proprie ed improprie nella loro provincie, si dotano scherzosamente, al posto del tradizionale manganello “bastone multinodoso”, di… stoccafissi, facendone, però, a quanto si disse, utile arma di offesa e difesa.

Lo stesso ricorso all’olio di ricino nasce dalla volontà di coprire di ridicolo, con un danno tutto sommato limitato, gli avversari. Avversari che, peraltro, non mancano di coprirsi da soli di ridicolo; Bombacci, nel novembre, dopo avere subito un’aggressione fascista a Bologna, non si perita di dichiarare ai giornalisti lui, che è il capo della frazione più estremistica del socialismo nostrano, che ad ogni piè sospinto richiama la sanguinosa esperienza della Russia sovietica per terrorizzare i quieti e vili borghesi italiani: “Ciò che mi capita è veramente curioso! Io, il più mite di tutti i socialisti italiani, circondato e odiato come una belva! E dire che non ho il coraggio di aprire un coltello!

E allora, è proprio vero che può più il ridicolo… La stessa somministrazione dell’olio di ricino può assumere forme burlesche, come ad Empoli, dove “si rende la cura allegra”, facendo prima giocare a carte, in piazza, a quattro sovversivi, un fiasco di olio; toccherà poi ai perdenti bere: per gli altri, per questa volta, è andata bene.

La canzonatura può arrivare anche per lettera: al segretario comunale di Cismon, all’immediata vigilia della marcia su Roma, gli squadristi indirizzeranno pubblicamente una lettera che dice:

 

Chiarissimo signor segretario comunale di Cismon…vuole accettare un nostro consiglio? Faccia fagotto e se ne vada…La cooperativa rossa non si muove, il magazzino comunale sta tirando le gambe come una rana decapitata; insomma, tutto è fallito, persino la sua dorata rivoluzione…la vita è bella, caro amico, è meglio goderla allegramente, specialmente ora che la… luce non viene più dall’Oriente e il sole dell’avvenire è diventato quello del passato, anzi è appassito… E, soprattutto, buon viaggio, senza possibilità di ritorno. Già, se lo ricordi bene…i fascisti cismonesi.”

 

A Pistoia, nel settembre del ’22, per reazione all’aggressione subita da una giovane operaia fascista in una filanda, gli squadristi si appostano all’uscita degli operai e, con pennelli intinti nel nerofumo, “imbellettano” la faccia dei responsabili, tra l’ilarità dei presenti.

Più o meno nello stesso periodo, a Firenze, le squadre, alla “disperata ricerca” di sovversivi, nella città ormai completamente ripulita, ricorrono ad un’ingegnosa trovata: mandano in avanscoperta un paio di inoffensivi fascisti con una chitarra, che se ne vanno per i quartieri una volta “rossi” a cantare “Giovinezza”. Se qualcuno reagisce, intervengono gli altri, che si sono tenuti a distanza precauzionale.

Le potenziali vittime, però, capiscono il trucco, e, dopo esserci cascati le prime volte, adottano la contromanovra di accodarsi, così che al canto di “Giovinezza”, beffano i loro avversari, inscenando una finta manifestazione di filofascismo.

Le beffe sono tante, ma l’aneddotica che nasce intorno a fatti veri supera almeno di tre volte la realtà. Nell’estate del ’22, in occasione della occupazione di Bologna, Balbo fa divertire per ore Nello Quilici, direttore del ”Resto del Carlino” con il racconto di episodi più o meno reali. Circa nello stesso periodo, a Novara, i fascisti che incendiano la Camera del lavoro, avendo trovato all’interno un solo cane, in una città dove non c’è più traccia dei socialisti, gli attaccano un tricolore al collo e lo portano in giro per le vie, somministrando bastonate a quanti sono fatti oggetto di scodinzolii o manifestazioni di simpatia da parte della bestia “neo arruolata”.

In fondo, per la carica di incoscienza che la contraddistingue, per la trovata che la anima, una “burla” si può anche considerare l’episodio di Debba, in provincia di Verona, dove, nel giugno del ’21, quattro fascisti, per vendicare la bastonatura subita da uno di loro, “entrano nella sede della Cooperativa rossa…gremita di una cinquantina di sovversivi, chiudono la porta dietro di sé, spengono la luce e bastonano a rotta di collo..”. Con quali risultati pratici è tutto da vedere, stante l’incertezza sui destinatari dei colpi.

Nei racconti squadristi, anche la morte viene irrisa, smitizzata. Chi l’ha vista tante volte in faccia al fronte, si è abituato a conviverci e a non temerla più. A Firenze, in particolare, la “toscanità” si sbizzarrisce nei racconti: Ugo Banchelli, soprannominato “mago”, ricostruisce la morte di Giuseppe Montemaggi, e racconta che al giovane camerata che lo chiama in soccorso: “Mago, mi ammazzano”, egli ha potuto solo rispondere: “Figliolo, aiutati da te, che io ne ho venti addosso”. Pirro Nenciolini, nel riferire, a sua volta, di uno scontro con sovversivi sul ponte S. Frediano, non tralascia il particolare del “frizzante” dialogo con un altro squadrista: quando gli grida: “O Gigi, tira la bomba!” e quello gli risponde: “Non l’ho, madonna buona”, Nenciolini imperterrito controbatte: “Non fa nulla, te tirala lo stesso!”

Frullini, infine, nel suo libro di memorie, “ufficializza” burlescamente il ricordo di una spedizione a Pisa – conclusasi a sberle – in occasione della riunione del Consiglio provinciale:

“Sono certo che negli archivi della prefettura pisana non esiste il verbale di quella adunanza, poiché potrebbe intitolarsi: “Deputazione provinciale rossa, adunanza del giorno tal dei tali, Presidente: Le Prenda; Consiglieri: Le Prendiamo; Ordine del giorno: Schiaffi”

 

 

12. “SE NON CI CONOSCETE…”

 

Lo scherzo giocato agli avversari, la burla fatta alle forze dell’ordine, la goliardata improvvisata ai danni dei tranquilli borghesi, sono più belli se immortalati in una canzoncina, in una strofetta da intonare per le strade, sui camion, ai raduni.

Al primo congresso regionale pugliese, nell’aprile del ’22, gli squadristi tarantini, noti, peraltro, per la loro audacia, sono particolarmente ammirati, oltre che per l’andamento marziale e disciplinato, per l’abbondante e vario repertorio di canzoncine allegre, appositamente create da alcuni di loro. Queste canzoncine, nel ricordo di Gravelli:

“…le provavamo nella notte, quando ci era possibile aprire le gole per gridare la passione ardita, ed ogni ritornello ed ogni verso nuovo erano l’orgoglio nostro, e li insegnavamo ai pochi camerati, li tenevamo in serbo per le adunate, quando c’erano anche i compagni di altri paesi, onde poter “fare colpo” e bandire le nuove gioiose grida.”

 

Il canto è un elemento essenziale della pratica fascista; le canzoni contribuiscono potentemente a quell’amalgama di sacro e profano che è alla base di questa nuova liturgia basata sulla fusione del tema religioso e di quello politico. Anche D’Annunzio, a Fiume, ha esaltato la funzione della musica, definita, al capo LXIV della Carta del Carnaro: “un’istituzione religiosa e sociale…considerata come linguaggio rituale è l’esaltatrice dell’atto della vita, dell’opera della vita”.

Per fare della musica occorre, però avere degli strumenti. I fascisti milanesi, nel corso dell’assalto alla Camera del lavoro di Sesto San Giovanni, portano via come “preda di guerra” proprio degli strumenti musicali, con i quali equipaggiano la prima banda musicale (e…”d’azione”) squadrista, sotto la guida del maestro Damiani.

Le trombe diventano mezzo di offesa, non foss’altro perché “rompono i timpani agli avversari, come ricorda divertito Asvero Gravelli, giovanissimo segretario politico del Fascio di Sesto, che non manca di sottolineare (probabilmente con sottile allusione al permanere di vivaci tendenze “di sinistra” in un Fascio prevalentemente operaio quale quello del comune alla periferia di Milano) come, però, gli strumenti si vendichino, tanto che, talvolta, cambiano ritmo, e, da “Giovinezza” passano a “Bandiera rossa”.

La prima, e più importante canzone fascista è “Giovinezza”, originariamente inno studentesco, poi canzone di guerra, e, infine, con varie versioni, inno squadrista, che piace da subito, è facile da imparare e cantare, sufficientemente ritmato per accompagnare le sfilate. Gli avversari ne fanno delle parodie e delle trascrizioni per il loro uso, che chiamano “Bolscevismo”, “Delinquenza”, etc…, a dimostrazione che quella delle parodie è una mania. I fascisti, oltre a “Bandiera nera”, rifacimento opportunamente arrangiato di “Bandiera rossa”, non di rado utilizzano anche canzoncine alla moda per adattarvi parole loro, dal richiestissimo “Manganel”, che ha i ritmi di “Abat Jour”, a “Misiano”, che ricorda “Apaches”.

Molto Popolari, perché ancora più facili da intonare, sono le notissime “Allarmi” e “Me ne frego”, poco più che stornelli, simili a quelle strofette ritmate che talvolta, per un’offesa più “cruda” all’avversario se ne infischiano di rime e metrica:

 

“Orsù o comunisti / Occhio alle cantonate

Se voi le avete prese / Noi ve le abbiamo date”

 

“Il naso di don Sturzo / Si è allungato assai

Lo venderanno a fette / I nostri salumai”

 

“L’onorevole Misiano / Sedeva in un caffè

Vennero i fascisti / E gli offersero un frappè”

 

“Sapete chi ha incendiato / La Camera del lavoro

Chiedetelo ai fascisti / Ve lo diranno loro”

 

“Il povero Modiglioni /Gridava a più non posso

Pietà pietà fascista / Me la son fatta addosso”

 

“E quando comandavi / A letto ci mandavi

Ed or che si comanda / A letto vi si manda”

 

“Il sol dell’avvenire / Ormai è tramontato

A furia di aspettare / Al fine si è stancato”

 

C’è, poi, inesauribile, tutta la serie dei “Se non ci conoscete…”:

 

“Se non ci conoscete / O bravi cittadini

Noi siamo delle schiere / Di Benito Mussolini”

 

“Se non ci conoscete / Guardateci la mano

Noi siamo i fascisti / Che vengon da Milano”

 

“Se non ci conoscete / Oh, per la Madonna

Noi siamo i fascisti / Di Peppino Caradonna”

 

“Se non ci conoscete / Guardateci nel viso

Si viene dall’inferno / Vi si manda in paradiso”

 

“Se non ci conoscete / Levatevi il cappello

Noi siamo i distruttori / Della falce e del martello”

 

Nel vasto repertorio, non mancano nemmeno gli sfottò ai dirigenti milanesi, compreso lo stesso Mussolini; dopo l’eccidio di Modena, gli squadristi ferraresi, sulla strada del ritorno a casa, ancora irritati per la posizione moderata del futuro duce, cantano, sull’aria di “No, cara piccina no”:

 

“No, caro Benito no, così non va

Diamo un addio alla pace

Se nella pace c’è infelicità

 

Un dì di aprile venisti anche a Ferrara

E il nostro contadino ti applaudì

Ma la tua sorte d’oggi è ben più amara

Vuoi ch’egli ti fischi, se torni qui?”

 

E, infine, di fronte alla “valanga” di nuove adesioni alla vigilia della marcia su Roma, si canterà, sull’aria di “Giovinezza”:

 

“Oggi son tutti fascisti / Per miracoli divini

I borghesi ed i pussisti / Giuran fede a Mussolini”

 

“Ma fra tanta eletta schiera / Ci siam noi della prima ora

Vecchia guardia retta e fiera / Del fascismo che non muor”

 

“Giovinezza, giovinezza / Primavera di bellezza

Vecchia guardia è la salvezza / Della nostra libertà”

 

Si può ben dire che è possibile ripercorrere la storia dello squadrismo attraverso le sue canzoni. Gli stornelli si succedono agli stornelli, tutti allegri e spensierati, come già in guerra è successo con i canti degli Arditi, che non hanno conosciuto le note malinconiche dei canti alpini e della fanteria, ma che hanno gioiosamente esaltato il combattimento, ricchi di beffarda audacia, di amore per la vita e disprezzo per la morte nello stesso tempo:

 

“L’Ardito va all’assalto / Con venticinque bombe

E venticinque bombe / Son cinquecento tombe”

 

Sono rari, quindi, i casi di canzoni squadriste tristi e lente nella ritmica; in genere ciò avviene solo nel caso esse siano dedicate alla commemorazione di qualche caduto, come il famoso canto in memoria di Giovanni Berta:

 

“Hanno ammazzato Giovanni Berta

Fascista tra i fascisti

Vendetta, sì vendetta

Farem sui comunisti.

Dormi tranquillo Giovanni Berta

Dormi tranquillo il sogno

Ti vendicheremo un giorno

Ti vendicheremo un giorno”

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *