13 Aprile 2024
Appunti di Storia

1920: L’anno della minorità fascista – Secondo capitolo

 

  1. FUTURISTI, ADDIO?

 

Nello stesso periodo, fra il 23 e il 25 maggio, si svolge a Milano il secondo Congresso dei Fasci di combattimento. I dati riferiti all’assemblea da Pasella testimoniano un generale stato di crisi e sbandamento, ai quali, però, fa da contrappunto la ripresa iniziata a primavera e che si va già delineando, sia pure circoscritta, per ora, solo ad alcune zone del Paese.

118 sono i Fasci esistenti, con 22 Avanguardie, per un totale di 27.430 iscritti ai primi e 3.700 alle seconde. Il fatto nuovo sembra essere proprio questo sviluppo del movimento giovanile: in alcune località l’Avanguardia arriva ad avere un numero di iscritti quasi eguale, se non superiore a quello del Fascio.

Resta, ciò nonostante, il dato di un arretramento rispetto a Firenze, e non basta a giustificarlo la considerazione che molti Fasci si vanno “mettendo in linea” proprio in questi mesi. Piuttosto, sul calo numerico degli iscritti incide il fatto che molti dei dirigenti locali più attivi ed entusiasti hanno messo in atto una vera e propria diaspora verso Fiume, attratti dall’irresistibile fascino del poeta, dalla convinzione che lì “si fa la storia” e dalle molte voci che circolano sul “clima” che regna in città.

Tutti partono per Fiume, in maniera più o meno avventurosa, portandosi nell’animo la pena per la contraddittorietà di una situazione che li porta a difendere i diritti dell’Italia, che sono poi i diritti dei combattenti e della vittoria, lì sul confine, addirittura fronteggiati da truppe italiane, mentre all’interno del Paese, nei loro borghi e nelle loro città trionfa l’antiItalia dei sovversivi, contro la quale non riescono ad agire ancora in maniera efficace.

Mussolini, nel suo discorso di inaugurazione del congresso, affronta proprio il problema delle agitazioni in corso:

“Non intendiamo osteggiare il movimento delle masse lavoratrici, ma intendiamo smascherare la ignobile turlupinatura che, ai danni della massa lavoratrice, fa un’accozzaglia di borghesi, semi borghesi e pseudo borghesi che, per il solo fatto di avere la tessera, credono di essere diventati salvatori dell’umanità. Non contro il proletariato, ma contro il Partito socialista, fino a quando continuerà ad essere antiitaliano… Noi non possiamo, però, andare contro il popolo, perché è il popolo quello che ha fatto la guerra. I contadini che oggi si agitano per risolvere il problema terriero non possono essere da noi guardati con antipatia. Commetteranno degli eccessi, ma vi prego di considerare che il nerbo delle fanterie era composto da contadini, che coloro che hanno fatto la guerra sono stati i contadini.”

 

Protagonisti del congresso sono Cesare Rossi, Angiolini e De Ambris: il primo legge la relazione sul programma, alla quale dà un tono sostanzialmente moderato e possibilista; Angiolini affronta il problema delle prossime elezioni amministrative, per le quali suggerisce di seguire il criterio del “caso per caso” nella scelta degli alleati; De Ambris, assente perché impegnato a Fiume al fianco di D’Annunzio, invia una relazione sul problema agricolo, che viene letta in sala.

Si può dire che il congresso è sostanzialmente interlocutorio, “di transizione” e di passaggio, così come di transizione di passaggio è la fase che sta vivendo l’intero movimento fascista. Chi non ama questi momenti “di transizione”, e, più in generale, le posizioni “sfumate” e possibiliste, viene perciò in primo piano, con un dissenso che coinvolge Vecchi e Martinetti, spiriti troppo irrequieti per accettare il protrarsi di una situazione di stallo che nessuno sa ancora bene dove porterà. Ufficialmente il motivo –che però non convince del tutto- del loro dissenso è la mancata accettazione della pregiudiziale antirepubblicana ed antivaticana; Marinetti lo ha anticipato già nel suo diario:

“20 maggio (1920): penso alla necessità di uscire, con Carli e Nannetti, dai fasci di combattimento, con questa dichiarazione:

“Avendo visto accentuarsi le divergenze tra noi e i fasci di combattimento circa:

  1. la simpatia attiva che meritano secondo noi gli scioperi economici onesti;
  2. la pregiudiziale antimonarchica che noi crediamo ormai indispensabile;
  3. l’insufficiente anticlericalismo dei fasci di combattimento.

diamo le nostre dimissioni da membri del Comitato Centrale e da soci dei fasci di combattimento”

…….

Noi veniamo dal Carso. Ma non andremo verso la reazione”

 

Nei fatti, l’allontanamento di qualche testa calda anarchicheggiante, in evidenza soprattutto nell’Associazione Arditi, non dispiace a qualcuno, mentre, ad altri, non è mai andata giù, per una più sofisticata incompatibilità con i contenuti artistici del movimento, la convivenza con i futuristi, come non mancherà di far notare, già nei primi tempi di governo fascista, Prezzolini:

“Quanto al futurismo, bisogna riconoscere che esso si è logicamente trovato al suo posto in un solo Stato: la Russia. Colà bolscevismo e futurismo hanno fatta alleanza. L’arte ufficiale del bolscevismo è stata il futurismo… Ma come possa l’arte futurista andare d’accordo con il fascismo italiano, non si vede. C’è un equivoco, nato da una vicinanza di persone, da un’accidentalità di incontri, da un ribollire di forze, che ha portato Marinetti accanto a Mussolini. Ciò andava bene durante il periodo della rivoluzione. Ciò stona in un periodo di governo… Ho la convinzione che futurismo e fascismo non possano andare d’accordo. Se il fascismo vuole segnare una traccia in Italia, deve ormai espellere tutto ciò che vi rimane di futurista, ossia di indisciplinato e di anticlassico

Certo, fa la sua prima apparizione, in coincidenza con il congresso di Milano, un po’ di “sano realismo”, sollecitato forse anche dal fatto che ormai, la situazione generale nel Paese sembra precipitare verso un inevitabile sbocco insurrezionale, contro il quale bisogna fare fronte comune, sacrificando, se necessario, qualche rigidezza ideologica.

L’aria di rivolta sembra interessare anche le Forze Armate: a fine giugno, ad Ancona, alcuni Reparti di Bersaglieri, pronti a partire per l’Albania, si ammutinano, e a loro si aggiungono anarchici e socialisti locali, facendo estendere l’insurrezione alle città vicine.

Reparti militari si contrappongono a Reparti militari, con automitragliatrici e bombe; in un assalto ad un treno regolarmente circolante, si lamentano sei vittime innocenti, falciate da una raffica sparata dai rivoltosi, finché, per sedare i tumulti, deve muovere da Roma un intero treno carico di truppe; alla fine, i morti sono ventidue e i feriti centinaia.

Ovunque la crisi sociale è al colmo; lo rileva Mussolini che, in una lettera a Polverelli, parla di: “…tale cupa e feroce esasperazione che, se non si provvede, scoppierà fra poco una guerra civile”.

In tale ottica, a luglio, il Comitato centrale fascista dispone che i responsabili locali prendano cautamente contatto con i Comandi militari delle maggiori città, per assicurare la disponibilità ad intervenire in caso di insurrezione socialista.

 

 

4. IL BATTESIMO DELLO SQUADRISMO

 

L’11 luglio, a Spalato, nel corso di violenti incidenti con la popolazione locale, vengono uccisi un Ufficiale e un marinaio italiano. Per protesta, il Fascio di Trieste, che è particolarmente sensibile a tutto ciò che avviene nelle terre del confine orientale, organizza, per il giorno 14, un comizio in piazza dell’Unità, durante il quale è pugnalato a morte da comunisti slavi un italiano, simpatizzante fascista, il cuoco Giovanni Nini.

Immediata la reazione dei compagni di fede dell’ucciso, che attaccano la sede cittadina delle organizzazioni slave, all’hotel Balkan, incontrando, però la dura reazione degli occupanti, che si difendono dall’interno, con fucilate e lanci di bombe. Deve intervenire la truppa con le mitragliatrici, e solo così si riesce ad aver ragione degli assediati.

Lo scontro a fuoco dura, ininterrottamente, per oltre venti minuti, dopo di che, sul Balkan muovono tre colonne fasciste, da diverse provenienze, via Roma, via S.Spiridione, via Dante, seguite dalla gran massa della popolazione triestina. Al termine dell’azione, con una ritualità destinata diventare abituale e già sperimentata nell’assalto all’Avanti del 15 aprile dell’anno precedente, viene dato fuoco all’edificio. Le fiamme irradieranno i loro bagliori sulla città per diversi giorni, alimentate probabilmente anche dagli esplosivi ancora all’interno dello stabile, e senza che sia consentito ai vigili del fuoco di intervenire.

Alla guida del fascismo triestino vi è Francesco Giunta, dallo “stupendo coraggio”, instancabile animatore di un Fascio che si è inserito a pieno titolo in una realtà locale difficile, per la forte presenza slava e sovversiva, in funzione antiitaliana.

Egli, “lungo, smilzo Tenente dei Granatieri, con gli occhi grifagni e il naso adunco, un vero fiorentino nel profilo e nel linguaggio”, nonostante le difficoltà, ha saputo fare del fascismo triestino, con il suo spericolato attivismo e le sue capacità organizzative, un sicuro punto di riferimento per tutto il movimento. Infatti, proprio a Trieste, vengono costituite ufficialmente, a metà maggio, le prime squadre d’azione, che fanno loro il motto coniato da D’Annunzio per il gagliardetto di un Reparto di mitraglieri legionari a Fiume: “me ne frego”.

La costituzione delle squadre avviene il 12 maggio, in occasione dell’assemblea generale del Fascio triestino. Ogni squadra è formata da 30 a 50 elementi, è guidata da un ex Ufficiale ed ha assegnata la sorveglianza e la difesa di una zona della città, che è stata divisa in distretti, con criteri militari. L’armamento individuale è il più vario: dal bastone alla sciabola, dalla pistola alla bomba a mano, e nelle occasioni di mobilitazione, la riunione è fissata nelle palestre di alcune scuole cittadine, da dove poi gli squadristi muoveranno sugli obiettivi assegnati.

La suggestione dell’esperienza bellica è forte all’interno delle squadre. Vengono, infatti, prese precauzioni sussidiarie, come l’uso di un codice speciale per comunicare, e l’adozione di una parola d’ordine che varia di mese in mese. Anche la tessera del Fascio, per evitare contraffazioni ed infiltrazioni, è contrassegnata sul retro con una stella a cinque punte, non riproducibile. I fascisti vogliono così evitare di restare vittime dello stesso scherzetto che sono soliti organizzare per i loro avversari, allorché, nelle giornate di maggiore agitazione sociale, arrivano da Fiume degli Arditi non conosciuti in città che si infiltrano, con vistosi garofani rossi all’occhiello, nei cortei e vanno su e giù per i quartieri rossi, in modo da tenere sotto controllo la situazione.

L’importanza dell’episodio del 14 luglio è rilevantissima, tanto da farlo giudicare “vero battesimo dello squadrismo organizzato”; nei fatti, esso ripropone, a più di un anno di distanza da quel fatidico 15 aprile, la validità e l’efficacia risolutiva di un’azione diretta contro i sovversivi che, a Trieste, sono anche “stranieri”.

La distruzione del Balkan, peraltro, dimostra ancora una volta che gli unici in grado di contrastare e sconfiggere i socialisti sullo stesso terreno sul quale essi sono stati fino adesso incontrastati dominatori, quello della violenza di piazza, sono i fascisti. Prende corpo così il mito dell’invincibilità fascista (non più necessariamente “ardita”), al quale fa da contrappunto il declino dell’altra assoluta convinzione postbellica, quella dell’invincibilità e dell’imbattibilità socialista.

Mussolini, sul Popolo d’Italia parla di “capolavoro del fascismo triestino”, e veramente, le fiamme del Balkan danno una boccata di ossigeno ed un anelito di speranza ad un ambiente compresso e da troppo tempo sulla difensiva.

Una settimana dopo Trieste, a Roma si registra un altro episodio di reazione antisocialista: qui la rivolta esasperata di cittadini stanchi degli scioperi e delle prepotenze sovversive sfocia, dopo la morte di un nazionalista, nella distruzione della tipografia dell’Avanti.

Tutto comincia quando la città, al termine di un lungo sciopero dei tranvieri, è percorsa da vetture che, in segno di vittoria, inalberano bandierine rosse. Proprio a seguito dello scontro di uno di questi tram, in piazza di Santa Maria Maggiore con un’altra vettura, che, presidiata dai nazionalisti, inalbera invece il tricolore e la successiva morte di un nazionalista, nasce la reazione che si estende a tutta la città.

A scendere in piazza sono in gran parte cittadini comuni, stanchi per il lungo sciopero ed irritati per l’imbandieramento a rosso delle vetture su cui devono per necessità salire. A muoversi è, quindi, una : “…massa di pubblico che, a causa di questo sciopero ha dovuto fare delle lunghe camminate a piedi con un calore torrido è esasperata: si monta sulle vetture, si strappano le bandiere, si percuotono i conducenti”.

Anche in questo caso, probabilmente, come già avvenuto in episodi consimili di incidenti tra scioperanti ed utenti esasperati, tutto si risolverebbe in zuffe circoscritte, se non ci scappasse il morto, che porta alle stelle una tensione troppo repressa, destinata a durare per alcuni giorni in città, con altri episodi di intolleranza, come la bastonatura dei parlamentari socialisti Modigliani e Della Seta e l’assalto alla tipografia di Epoca, dove si stampa provvisoriamente l’Avanti.

A Roma, quindi, come a Trieste l’azione dei primi squadristi si svolge fra il consenso e l’incitamento quasi della pubblica opinione, di quei privati cittadini che, quando il livello dello scontro sale, “passano la mano” ai più esperti e decisi elementi, in prevalenza ex combattenti, fascisti a Trieste e nazionalisti a Roma.

Nella capitale, infatti, le camicie azzurre di Federzoni sono, per il momento, più forti numericamente ed organizzativamente degli amici-rivali mussoliniani. Il fascismo romano si colloca molti gradini più giù di quello milanese, in una babele di linguaggi ed intendimenti che non lascia ben sperare e viene fuori in ogni pubblica manifestazione, come ben testimonia Mario Carli, presente ad una delle prime riunioni:

“Aver presieduto un simile convegno di energumeni è stata per me una delle più aspre battaglie della mia vita. Si trattava di mettere d’accordo repubblicani e nazionalisti, sindacalisti e liberali: un vero caos di tendenze e passioni politiche, nel quale il comune denominatore di combattenti andava dissolvendosi per ricostituire le antiche posizioni e fazioni dell’anteguerra…C’è troppa gente che non aveva capito niente e che voleva a tutti i costi tirare la fune verso la repubblica più o meno sociale, mentre altri, per reazione, tentavano tirarla verso l’imperialismo più o meno retorico o tradizionalista.”

Come esponente di spicco si va affermando Giuseppe Bottai, Ardito e futurista, letterato e uomo d’azione, che non ha davvero, per i rivali nazionalisti, troppa simpatia:

“…Nel complesso, sono quindi della brava gente: invadenti, scocciatori, rompiscatole, ingenui e grossolani nelle loro astuzie elettorali, patriottardi più che patrioti, sensibilità acutissima alle glandole lacrimali, quando si tratta di strappare applausi creando un cerchio di commozione alle spalle dei morti, in tutta la loro aria di sufficienza contegnosa una tinta di antiquato e di muffito. Sono i provinciali del mondo politico, scarpe grosse e cervello fino; ma è quella finezza sorniona che ha più a che fare col raggiro e con l’intrigo che con l’intelligenza… Non abbiamo rancore per loro. E’ vero che da più giorni vanno dicendo peste e vituperio di noi, è vero che i loro “giovani” hanno una lingua da donne di servizio alla spesa, ma tutto ciò non ci interessa. Ci secca. E li preghiamo di farla finita. Si ricordino che noi siamo come quel monsignore che, dopo avere cristianamente sopportato il secondo schiaffo sacramentale, caricava senza pietà il suo manesco interlocutore.”

Eguali, se non maggiori, sono e rimarranno le diffidenze nazionaliste verso i fascisti; diffidenze fatte di piccole rivalità, di malcelato snobismo, di sottili distinguo ideologici ed intellettuali, che verranno fuori anche nei momenti caldi dell’offensiva squadrista, e saranno efficacemente sintetizzati da Balbino Giuliano:

“(il fascismo)…è naturale quindi che abbia in sè, esasperati nella più nitida evidenza, i difetti ed i pregi dell’anima italiana, che rappresenti le energie sane della nostra stirpe e della nostra tradizione, ringagliardite dall’esperienza di guerra e dal sentimento della vittoria, ma rappresenti anche le deficienze della nostra cultura politica, non eliminate ancora nemmeno nell’urto contro la realtà più aspra ed angosciosa. Però, bisogna anche dire francamente che non è riuscito ancora a conquistarla e dominarla con perfetta sicurezza. E la ragione è che non ancora del tutto è dissipata nella coscienza italiana la nuvolaglia di quell’astrattismo pseudofilosofico, che come si diceva avanti, pone gli ideali umani, fuori dall’umana coscienza, in vuote forme estranee alla realtà viva e concreta della storia. Fra noi succede ancora questo fatto strano che un uomo, per dimostrare di avere la sua parte di intelligenza, non ha sempre l’obbligo di avere delle idee, ma ha però sempre l’obbligo di essere un poco ribelle. E questa ribellione deve consistere in una certa condiscendenza ai luoghi comuni socialistoidi e all’illusione miracolistica di poterli attuare da un momento all’altro con provvide disposizioni legislative o anche con una energica infusione di moralità… Noi ricordiamo ancora il penoso programma dei fascisti nelle elezioni del ’19, quando proponevano la Costituente, la riforma degli organi dello Stato, la falcidia dei capitali, l’eliminazione degli incapaci, la valorizzazione dei migliori, un’Italia nuova, con la giustizia per il proletariato e l’immancabile crociata contro i pescecani… Però, diciamo francamente agli amici nostri che, per compiere tutta la loro missione, bisogna saper contenere l’uso della forza entro i limiti della necessità imposta dalla difesa del diritto; e purtroppo ben sovente la loro intemperanza ha varcato questo limite. Orbene, anche l’intemperanza nell’uso della forza ha, secondo me, la sua lontana radice nei difetti che ho dianzi enunciato, e più precisamente nell’idea miracolista del progresso.”

Il rapporto tra nazionalisti e fascisti, laddove come a Roma le due realtà sono destinate a convivere, è molto sui generis, fatto di convergenze e diffidenze reciproche, di solidarietà ed attriti, di simpatie ed antipatie personali Alla base c’è un senso di fastidio da parte dei nazionalisti verso i nuovi arrivati che, nel giro di pochi mesi, riusciranno là dove essi hanno fallito o non hanno avuto nemmeno il coraggio di cimentarsi: battere sul campo l’intolleranza leninista ed attrarre masse di autentici contadini ed operai.

All’elitismo ed al rigore ideologico dei nazionalisti, i fascisti contrapporranno un sincero populismo ed un fattivo pragmatismo, che costituiranno la chiave di volta del loro successo. “Cafoni” pronti a rimboccarsi le maniche per raggiungere un obiettivo, animati forse anche da quella “miracolistica del progresso” che non fa parte del bagaglio di convinzioni nazionaliste.

Nella prospettiva delle camicie azzurre, inoltre, il ricorso alla violenza è generalmente escluso, e, se tollerato, lo è solo in funzione temporanea, per un ristabilimento dell’ordine costituito ed un ritorno alla legalità. Nei programmi fascisti, invece, – della base fascista e squadrista – la pratica dell’illegalità è invece “rivoluzionaria”, giustificata da un progetto ideale e politico che tende a realizzare una nuova legalità ed un nuovo ordine.

Rumorosi, spesso sguaiati nelle loro manifestazioni, disordinati ed improvvisatori anche nelle divise, i fascisti non possono andare d’accordo, soprattutto sul piano umano con i “cugini”. Piazzesi è irridente:

“Oggi sono usciti fuori i “paini”, i nazionalisti, in una prima esibizione ufficiale. Puliti puliti, lindi lindi, sculettanti come sartine, con una camicia azzurra color del cielo: gambali gialli, guanti bianchi. Sembravano di zucchero filato, proprio come quei santini che si vendono sui banchi delle fiere. Saranno stati una trentina, ma, con tutto quell’azzurro, riempivano la strada. Prima qualche frizzo, poi una foresta di pernacchie; infine, dopo un battibecco con quelli della “Giglio rosso” – noi non li degnammo neppure di uno sguardo rimediarono qualche pedatone nel sedere e se ne andarono, così, mesti mesti, con il loro stendardo, che venne restituito da quel mascalzone di Bocca, ma con le punte del tridente storte all’ingiù, perché “non è opportuno lasciare andare in giro i ragazzini con degli arnesi pericolosi”.

 

Naturalmente, le insofferenze caratteriali passano in secondo piano di fronte alle diversità programmatiche che pure vi sono e vengono superate solo dal comune riferimento all’esperienza di guerra non rinnegata ed ai diritti della vittoria a gran voce rivendicati. Sotto il profilo istituzionale, i nazionalisti sono rigidamente monarchici, mentre i fascisti continuano ad essere in gran parte agnostici, quando non dichiaratamente repubblicani; in materia di socialità, i primi sono convinti difensori della borghesia, anche come categoria economica, mentre i secondi sono dichiaratamente antiborghesi. Per ciò che concerne la politica interna, infine, i nazionalisti sono per la difesa comunque e innanzitutto dell’ordine costituito, mentre gli squadristi si muovono in una prospettiva “rivoluzionaria” che prevede lo scontro fra tre “contendenti”: i sovversivi, lo Stato liberaldemocratico ed essi stessi.

In qualche caso, soprattutto nel Mezzogiorno, dove tradizionalmente le camicie azzurre hanno le loro roccaforti, le rivalità sfoceranno anche in conflitti armati (a Taranto e nel Napoletano, in particolare). Più in generale, laddove sono presenti con proprie sezioni, essi predicheranno l’inutilità della costituzione di un Fascio “concorrente” e cercheranno, finché possibile, di assorbire e mettere la sordina agli entusiasmi dei giovani, irrequieti mussoliniani.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *