21 Aprile 2024
Società

Sisifo liberato – Livio Cadè

 «…c’è niente di più stupido che il voler portare continuamente un fardello che si può gettare?»

(Voltaire)

V’è ancora chi crede di poter migliorare il mondo col fare qualcosa. Più pessimista, Voltaire pensava che, per quanto facciamo, morendo lasceremo questo mondo tanto cattivo e stupido quanto l’abbiamo trovato nascendo. E forse dovremmo dire lo stesso di chi s’illude, leggendo, di poter migliorare sé stesso.

In genere, più che una salutare abitudine, leggere è infatti un vizio, come il mangiar troppo, l’ubriacarsi, il prender farmaci ecc. Non rinforza lo spirito, ma lo ingrassa. Come l’alcol, compromette la nostra percezione della realtà, provoca allucinazioni. Come i farmaci, sopprime i sintomi di una vita squilibrata senza curarne il male alla radice.

Se al corpo giovano una dieta frugale e la sobrietà, all’anima conviene legger poco, scegliendo con cura le proprie letture e masticandole a lungo, ossia meditando e soppesando le parole. Si dice infatti che leggere senza riflettere, senza capire, senza ricordare, è come mangiare senza digerire. Questo legger troppo e male, con frettolosa superficialità, ottunde ogni sano istinto, annebbia l’intuito, corrompe le nostre naturali facoltà di giudizio.

Il mondo moderno rappresenta la barbarie della lettura. Quanti camminano con la testa china su aggeggi elettronici, detti ironicamente intelligenti, come vecchi preti immersi nella lettura del breviario? Sonnambuli, persi in un mondo parallelo, fittizio, che sfogliano il loro monitor come certe popolazioni masticano foglie di coca. Leggono forse per alleviare una fame interiore, trovar sollievo alla stanchezza del vivere, alla noia, alla solitudine.

Ma vivere è un male che non guarisce leggendo. Leggere non insegna ad amare, né a a godere della bellezza. Non ci rende più intelligenti, più umili o coraggiosi. Si dirà che leggendo impariamo, cioè acquisiamo conoscenza. Ma io son dell’idea di Chamfort, che “si conosce bene solo ciò che non si è imparato”. Il leggere ci riempie di concetti, di nozioni. Saggezza è svuotarsene.

Fortunatamente, nei primi anni della vita la nostra ignoranza ci lascia liberi di usare i sensi e l’intelligenza in modo naturale. Questo deposita in noi un intimo sedimento d’umanità senza il quale saremmo da tempo automi disumani. Non dobbiamo perciò aver fretta di insegnare ai bambini a leggere e scrivere, corrompendone precocemente lo sviluppo. «Gesù vide alcuni neonati che poppavano. Disse ai suoi discepoli, “questi neonati che poppano sono come quelli che entrano nel Regno”». Ne consegue che condizione per ereditare il Regno di Dio è tornare analfabeti.

In realtà, ogni bambino – e ogni animale – legge il mondo mutevole di segni che ha intorno a sé, lo interpreta, ne trae dei giudizi e delle decisioni. Ma solo l’uomo s’è inventato questo artificioso espediente, la scrittura, che gli consente di incidere i suoi pensieri nel tempo, immortalando le proprie idee ma anche, diceva Montaigne, le proprie sciocchezze.

Beati i tempi dei rapsodi e degli aedi, quando la parola correva libera come il vento, sospinta da soffi vitali, dalle risonanze musicali della voce! Ci bastava allora prender le cose e dar loro un nome. Ma quel discorso aurorale conteneva già in sé il seme della fissità, la volontà di opporsi al fluire e al cambiamento.

Scopo essenziale dello scrivere è infatti bloccare l’essere e il suo divenire in segni statici e noti. Col tempo, abbiamo tenuto i segni e buttato i significati. Abbiamo sostituito lo spirito con la lettera, la realtà con il feticcio delle nostre nomenclature. Abbiamo immobilizzato i nomi sulla roccia, sul legno, su cera, foglie, papiri e pergamene, pietrificando e incartapecorendo i raggi della coscienza divina.

Così, a mano a mano che scalpelli, penne d’oca, inchiostro di fuliggine o di china, salvavano il pensiero dall’oblio, costruendo ferme fondamenta alla cultura, l’uomo si è separato dalla natura. Scribi, amanuensi, monaci laboriosi, con pazienza e fatica, hanno scritto, copiato, rilegato, chiuso il genio dell’uomo in un libro come in una magica lampada. Ma quei testi erano preziosità riservate ai chierici, a un’élite.

Fu Gutenberg, coi suoi incunaboli, a rendere la lettura un male laico e democratico. Quale invenzione fu più esiziale per il genere umano? Forse solo il denaro ha fatto più danni dei libri. Alla stampa dobbiamo quelle aberrazioni cui ormai abbiam fatto il callo: l’istruzione generale o addirittura obbligatoria, giornalisti, critici, burocrati, cretini laureati.

E mi pare ingenuo denunciare il pericolo che l’intelligenza artificiale sostituisca quella naturale. Il nostro pensiero è infatti artificiale fin dal giorno in cui l’uomo inventò la scrittura. Un filo continuo e invisibile corre dagli antichi Teutoni e le loro rune ai manoscritti medievali, ai caratteri mobili della Bibbia di Gutenberg, ai gialli tascabili, ai quotidiani, alle riviste, fino alla scrittura digitale, alle mail, agli SMS, agli assistenti virtuali.

Di fronte alla vertiginosa proliferazione di scritti che affligge il mondo contemporaneo si resta attoniti e atterriti. Libri che son solo le foglie di fico di una civiltà dissoluta. Giornali che potevano svolgere un’utile funzione sociale quando ancora si usavano per involtolare cibi, pulire finestre, e persino come accessorio igienico là dove, come disse qualcuno, la fisiologia dell’uomo ha uno schiacciante sopravvento sulla sua psicologia. Ma cosa c’è oggi di più inservibile di un giornale?

E a che giova un tale surplus di saggi, articoli, post, forum, blog, messaggi? Siamo inondati da notizie e informazioni non necessarie, sepolti sotto una marmellata di discorsi, di deiezioni cerebrali, di detriti letterari. Ogni anno, con vergognosa incontinenza, si pubblicano milioni di titoli nuovi. Libri, come diceva Lichtenberg, spesso stampati da chi non li capisce, venduti, criticati, letti da chi non li capisce, e perfino scritti da chi non li capisce.

Non c’è il tempo di capire, siamo ondivaghi, distratti, impazienti. Ci fermiamo alla scorza delle cose senza curarci della polpa e del nocciolo. «Sii breve» mi esorta un amico «perché il lettore medio alla terza riga ha già smarrito la concentrazione, e dopo un minuto non ricorda più cosa ha letto».

Del resto, per cervelli sfibrati da orge di dibattiti, rammolliti dalla lussuria dell’informazione, dimenticare è una necessità fisiologica. Il mondo è diventato la Sodoma e Gomorra delle parole. Venissero gli angeli del Signore per por fine a tanta depravazione, direbbero al novello Lot: prendi i pochi libri buoni e mettili in salvo, perché gli altri saranno distrutti dal fuoco. E per portare tale prezioso carico basterebbe il dorso d’un mulo.

Vedere i propri pensieri stampati, esibirli alla pubblica dis-attenzione, seduce la vanità anche di coloro cui le Muse non han concesso né l’ispirazione né il dono di una penna felice. Sempre più son quelli che, pur sterili nell’ingegno, si trasformano in prolifici cacalibri. Se non hanno idee scrivono citando, commentando i commenti, riportando l’opinione di Tizio sull’opinione di Caio, tentando di spiegare agli altri quello che loro stessi non hanno capito.

La libido scribendi non conosce pudore, provoca una continua evacuazione editoriale. L’incontenibile polluzione feconda ogni campo dello scibile, va dall’irrinunciabile ricettario di cucina all’imprescindibile denuncia sociale, dalla divulgazione scientifica al manualetto mistico-ascetico. Copre ogni campo della storia e della profezia. Passa disinvoltamente dalla confessione autobiografica all’impegno per la salvezza dell’umanità. Tutti sembrano avere informazioni vitali,  verità sconosciute o sofferte emozioni da trasmettere al mondo.

Secondo la nostra mitologia culturale più l’uomo legge, più diviene consapevole, e quindi più libero. La libertà di stampa sarebbe quindi essenziale per gli ‘equilibri democratici’. Ma basta osservare quanti intellettuali, scienziati, uomini colti, diano esempio di incoscienza e di abietto servilismo. E come la stampa sia in realtà uno strumento usato dal Potere per manovrare le coscienze, determinare umori e comportamenti.

Se un tempo sembrava opportuno censurare libri e metterli all’indice, oggi s’è capito che è piuttosto l’eccesso di libertà, questa informe poltiglia di messaggi che scola quotidianamente nei cervelli della gente, a indurre il conformismo, infiacchire gli animi, togliere velleità ribelli. Leggendo l’uomo non esprime più la sua dignità di essere razionale. Leggere è diventato per lui una forma di auto-censura, una pastoia interiore, un meccanico impedimento al vedere.

È un leggere che cancella ogni interiorità. Il pensiero si esteriorizza, vive di notizie e di opinioni, si nutre di comuni pregiudizi morali o culturali. Cediamo la nostra autonomia intellettuale, ci abituiamo a dipendere dall’autorità più che da una reale comprensione. Ci poniamo sotto la tutela di qualche nume della cultura o di una veneranda tradizione, e il prestigio dei nostri Mentori compensa la mancanza di fiducia in noi stessi.

Ma ancor più essenzialmente, leggere è una sorta di formula magica per esorcizzare il Mistero. La vita fa meno paura quando si impiglia nelle maglie di un testo. La parola scritta, nella sua persistenza, ci consola dell’esser contingenti, provvisori. Ci salva dall’effimero, ci innalza al regno immateriale ed eterno delle idee. Ci protegge dall’imprevedibile, dai rischi della libertà, mette ordine nel mondo.

Perciò pretendiamo che persino la volontà di Dio sia rinchiusa in un libro, ferma, immutabile. Cerchiamo nei testi qualche salvifico segreto, le impronte rassicuranti dei Maestri. Ma Buddha e Cristo non scrissero una sola parola. L’autore dell’edificante De Imitatione Christi sarebbe stato dunque più coerente se, sull’esempio del Maestro, non avesse scritto nulla.

Ma scrivere è una colpa collettiva cui ormai non possiamo più sottrarci. Elaborare e ingerire testi è il pasto totemico cui ogni uomo partecipa. Uccidiamo il Padre, il Logos, lo facciamo a pezzi e lo divoriamo, credendo di assorbirne il mana, la forza magica, l’onniscienza. Poi ci nascondiamo l’un l’altro la nostra colpa. Scrivere – e leggere – è dunque insieme la congiura di una società contro il Mistero, cui si vuol sostituire il Sapere, e l’espressione di una violenza rituale, intoccabile tabù su cui si basa la nostra civiltà.

Rito sacro e osceno, che rende il cuore pesante. La nostra coscienza diviene una concrezione di cose, fatti, opinioni che, come il masso di Sisifo, faticosamente spingiamo davanti a noi. Peso che si fa ogni giorno più schiacciante, che trascina con sé quintali di memoria, di pensiero, di conoscenza.

Ma tale punizione non viene da Giove. È una pena auto-inflitta. Sisifo può abbandonare il suo supplizio, se vuole. Può danzare, respirare il profumo dei fiori, ascoltare il canto degli uccelli, contemplare oziosamente le nuvole; può sollevare gli occhi dagli immobili segni scavati nella pietra, severi custodi di leggi invariabili, di destini già scritti, di vie già tracciate, e guardare la vita che fugge; può rispecchiarsi in quel mistero di libertà, immagine di ciò che non si può né leggere né scrivere.

12 Comments

  • Giovanni 11 Febbraio 2024

    Le voglio bene.

  • Michele Franceschini 12 Febbraio 2024

    >Si dice infatti che leggere senza riflettere, senza capire, senza ricordare, è come mangiare senza digerire.
    > Questo legger troppo e male, con frettolosa superficialità, ottunde ogni sano istinto, annebbia l’intuito, corrompe le nostre naturali facoltà di giudizio.
    Approvo questa frase che richiede la partecipazione in tutto quello che leggiamo altrimenti resta una digestione mancata con conseguenze devastanti per l’intero organismo.

  • Paola 12 Febbraio 2024

    Forse non è pertinente, ma il Suo eccellente articolo mi ha fatto riflettere su un tema. Figure come quelle di Bernadette Soubirous, e non solo ( pastorelli di Fatima etc…), dovrebbero far riflettere anche chi non ha Fede, valutando il fenomeno in modo più ampio. Quando ero ragazzina, tormentando polemicamente mia madre, le chiedevo perché le persone “acculturate” non fossero oggetto di apparizioni…potremmo quindi fare l’azzardo di considerare il Suo “Sisifo liberato” un paradigma pagano vagamente (e rispettosamente) accostabile ai “Poveri di spirito”?

    P. S. Non sono una vera credente, semmai una speranzosa angosciata.

  • Paola 12 Febbraio 2024

    * Ovviamente la Sua frase su Gesù è stata stimolo per la riflessione.

    • Livio Cadè 12 Febbraio 2024

      Pertinentissimo. Sì, abbiamo bisogno di poveri di spirito. La frase: “è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago” ecc., andrebbe estesa anche ai “ricchi di spirito”.

  • Elena 13 Febbraio 2024

    “I giornali sono i cimiteri delle idee” (Proudhon)

  • Paola 13 Febbraio 2024

    …e pensiamo anche ai testi di storia su cui, per anni, giovanissimi, abbiamo perso diottrie, neuroni, parziale o totale capacità di giudizio..oggi mi prenderei a martellate. Non vado oltre.

  • Dame Haibun 22 Febbraio 2024

    “Rigetta il sapere e non avrai inquietudini” (Tao Te Ching, cap. 20)

  • Elena 22 Febbraio 2024

    Incontro ‘per caso’ questa poesia di Wordsworth….
    “I libri, lotta dura e senza fine!/Vieni ad ascoltare il cardellino del bosco/e la sua musica soave: in fede mia/ c’é più saggezza in questa.(…) Basta con le arti e le scienze, / chiudi queste pagine avvizzite, / esci fuori e porta con te un cuore/ che osserva e percepisce.”

  • Paola 23 Febbraio 2024

    Splendida. Due giorni fa ho visto un piccolo video in cui un uccellino, mi pare fosse uno scricciolo, si esibiva fiero in un canto vario e prolungato. Faceva dimenticare tutto il resto a chi lo ascoltava. Voglio credere che l’incontro con la poesia e quello con il video non siano un “caso”. Grazie, Elena, dei Suoi contributi. Amabili e preziosi.

  • Piero 24 Febbraio 2024

    Dapprima ho letto e poi, ammetto, ho scorso rapidamente fino a soffermarmi sull’ultimo periodo. L’impressione è di un incontinente effluvio di parole per stigmatizzare gli altrui incontinenti effluvi di parole. Del resto anch’io potevo evitare di ampliare l’effluvio con questo commento….

    • Livio Cadè 24 Febbraio 2024

      Non si preoccupi. Effluvi pure. Io non ho nulla a priori contro gli effluvi di parole. Siamo tutti immersi nello stesso fiume.

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