13 Aprile 2024
Giustizia Simeone

Oltre il novecento verso Verita’ e Giustizia


 “Ducunt volentem fata,

nolentem trahunt”
di Marina Simeone
In nessuna epoca come nel Novecento la contraddizione e il “conflitto” tra le varie e diverse forme culturali con il fluire della vita si è manifestato tanto chiaramente; forse per questo rimane la sua ombra sul nostro orizzonte. E se è vero che questo fluire culturale finisce per evidenziarsi in icone antropomorfe, per quanto sempre in corsa e in caduta, non vi è stata epoca in cui la giustizia non abbia avuto ragione a mostrarsi bendata, come la voleva una “oltraggiosa” illustrazione del 1494: una donna sempre armata e munita di bilancia, ma una bilancia non più equa, perché una benda impediva alla dea di vedere le ragioni di tutti indistintamente. Cosa rimane oggi di quella dea, se non il lontano ricordo è complicato dire, ma sicuramente per dialogare di giustizia non possiamo prescindere da considerazioni sullo Stato e su come essa si modelli nell’idea stesso dello Stato e quindi di comunità nel cui universo è inserita.

Solo nello Stato ideale è possibile scorgere l’essenza della giustizia, come nelle anime individuali si manifesta giustizia nel caso in cui la mente (nous) sovrintende al resto, così nello Stato ordinato secondo giustizia i migliori devono trovarsi al vertice ed operare per il bene comune.
Non si tratta allora di tendere alla giustizia imponendo leggi, ma educando: è l’educazione la garanzia al rispetto delle leggi. Lo ricorda Platone in passi indimenticabilmente poetici della sua Repubblica, in quel dialettico percorso sulla essenza della giustizia, la cui ricerca conduce inevitabilmente a prospettare un “mito della politeia”, che farà il bene soltanto se guidata da “buoni governanti”. La necessità di affidarsi ai “migliori” è richiesta dai rischi del viaggio, lo chiarifica Platone quando provocatoriamente fa scendere in campo la “inconvenienza” di fare il bene e dell’essere giusto, non essendone premiati né dagli dei né dagli uomini. Nel IV libro della politeiainfatti Platone animato dal determinare le virtù poste a fondamento dello Stato scriverà che la politeia è lo Stato”in cui i desideri di una massa viziosa sono sottomessi ai desideri e alla saggezza di una minoranza virtuosa.” Essendo il fine dell’individuo come dello Stato la felicità, nel senso di elevazione e partecipazione al Divino, lo Stato inteso come struttura non esteriore all’individuo ma interiore e a lui conforme, differenziato dall’individuo soltanto nella potenzialità, è organizzato secondo giustizia perché “ciò che è superiore si impone a ciò che è inferiore.”[1] C’è chi ha voluto scorgere in questo disegno platonico – conformemente alla mentalità moderna deformatrice di ciò che non comprende – i tratti tipici dei moderni sistemi totalitari, incurante probabilmente della distanza netta tra il porre con l’ausilio della forza la legittimazione di un potere politico e il riconoscere naturalmente un’ Autorità a garanzia del retto orientamento dell’universo. Sulla sponda opposta si stanziano coloro che hanno menzionato un Platone intenzionato a mettere la “politica al servizio della morale”[2], divaricando la unità Platonica fra “interno” ed “esterno” in vittoria della interiorità, agostinianamente contrapposta al mondo esteriore.
Ed invece la immagine platonica parla chiaramente di un armonico equilibrio tra individuo e polis; lo Stato ordinato secondo giustizia di Platone, induce l’uomo con la politica, cura dell’anima, alla Giustizia e quindi al Bene. Questo è il senso dell’ascesa al divino.
La Giustizia come canone formativo per l’uomo e quindi per lo Stato rimane un basilare presupposto anche nella Roma classica, distintasi nella storia come la scopritrice e la formatrice del diritto pubblico, più accorta ai diritto dell’individuo, ma meno soggettivista di quanto si sforzino gli accademici di farci credere. La Giustizia per Ulpiano significa il “dare a ciascuno il suo”[3] e nella ripartizione geometrica pensata dall’autore si stende la tradizione indoeuropea di un ordinamento che è naturale e cosmico e quindi anche umano.
L’avvento della cultura medievale discioglie il nodo giustizia facendone una Ratio divina, ispiratrice delle leggi terrene, distanziandosi dall’Armonia universale classica alla ricerca di una “sicurezza” metafisica. Una giustizia “imposta” dall’alto e quindi dall’esterno, in rapporto diretto con l’uomo, ma alla sua natura profondamente estranea. Da qui la frattura definitiva, impartita agli albori della modernità. Il divario abissale si nutre di filosofia positiva e la giustizia si ridimensiona “norma etica” o predisposizione politica astratta e come tale impossibilitata a coesistere con la “realtà” del Cosmo. Chiamata sentimentalmente a garantire i diritti dell’individuo essa finisce per soggettivizzarsi, completamente estranea all’unità quanto a quella ripartizione geometrica, a cui si fa succedere una retribuzione aritmetica.
Nella società moderna l’individuo difende i suoi interessi e sceglie di stipulare un contratto societario, utilizzando lo Stato soltanto come male “necessario”, per poter garantire la sopravvivenza e la sicurezza di quella proprietà privata – sbiadita messa in scena del privato integrato nell’idea del “pubblico” nelle culture classiche sia greca che romana – fideisticamente classificatasi come bene primario.
Questa è l’estraneazione del diritto e dello Stato dalla natura e dalla comunità, intesa come coagulo di esseri viventi e del loro rapporto con il cosmo.
Oggi quel diritto per il Romano formula (jus) “poggiante su un’assise mistico-religiosa”[4], in cui realtà sacra e giuridica vivono insieme e si completano nella idea stessa di Res publica, talvolta superficialmente considerata Stato, viene invece individuato dalle correnti filosofiche analitiche e dalla ideologia liberale e Kelseniana anglo-americana come pericoloso proprio nel senso di tutela dell’idea di comunità prima che di individuo.
E la giustizia finisce con l’esercitare il ruolo di astrazione, quasi impalpabile nel suo relativismo e nella sua mutevolezza, dimenticando come essa esista da sempre e ha l’immagine non di un diritto giusnaturalista in cui l’uomo esercita una funzione centrale e assolutistica nell’insieme cosmico, ma di quella fysis aristotelicmente intesa come ordine divino del mondo, dato e quindi voluto, un’armonia invisibile del cosmo “governata dal nomos che è dike, giustizia”.[5]
Se la premessa del nostro dialogo sulla giustizia è basata sulla constatazione di una separazione tra individuo e Stato e comunità e quindi sul completo isolamento dell’individuo moderno, meno raccapriccianti ci appariranno gli esiti storico-giuridici novecenteschi. Parliamo di un secolo tra i più turbolenti e come ha scritto Revelli nel suo “Oltre il Novecento” è “il secolo degli opposti, sempre estremi, sempre estremisti”, in cui i germi della Rivoluzione francese non meno che nell’800 tornano a farsi sentire, attraverso i dibattuti temi della tensione tra i diritti universali dell’uomo e la comunità nazionale, i rapporti tra politica e ideologia, il legame fra idea rivoluzionaria e guerra e così via.
L’illusione egualitaria, che dalla Rivoluzione francese in poi aveva invaso l’ordinamento sociale e culturale, non più appagante viene educata dalla filosofia marxista nel senso del “ad ognuno secondo i suoi bisogni” per poi confluire nel bisogno etico dei “diritti dell’uomo” – la nuova ossessione moderna -e tra questi diritti fa capolino tra i primi posti la proprietà, che vittoriosa si lascia alle spalle le teorizzazioni di libertà e uguaglianza, un tempo solide fondamenta delle rivoluzioni ottocentesche. La diabolica associazione di giustizia e morale produrrà per tutto il Novecento l’illusione di essere parte di un meccanismo salvifico, sufficientemente efficace soltanto se si opera dalla parte del Bene. In nome di questi stessi diritti si è tenuto uno dei processi più sommari della storia quale quello di Norimberga, un processo lampo, nel quale si è pensato di non dover più tener conto né dell’epoca né dei regolamenti vigenti, nel momento in cui gli imputati avrebbero commesso le nuove categorie di reato: crimini contro la pace e contro l’umanità, usati retrospettivamente. La stessa invocazione di giustizia come garanzia dei diritti umani in campo internazionale ha permesso ad alcuni Stati di decidere, in nome di un potere economico e militare, di assumere l’onore, sotto mentite spoglie di onere, di giudicare governi tiranni o democratici, di impiccare leader scomodi o giustiziarli con l’ausilio dei servizi segreti. L’esportazione democratica degli Stati Uniti d’America dal 1991 ad oggi ha lavorato per il controllo del Pianeta: così in Serbia, in Bosnia, in Iraq, in Afganistan, in Libia, così in Siria e altrove. I liberatori che ieri sventravano Dresda con il fosforo bianco e disintegravano Berlino o Lubecca, ostentando clemenza nell’umiliare l’identità degli sconfitti, oggi continuano a mostrare gli esiti della loro missione di giustizieri e pacificatori.
Nell’ordinamento interno alle Nazioni il potere politico ha accolto la giustizia nelle lenzuola calde e comode dello Stato Costituzionale di Diritto, l’assicurazione sulla vita dell’attuale sistema governativo, un codice di norme, conformi alla visione del mondo democratica e protettrice della stessa.
Un documento sicuramente teorico, su cui non pesa nessuna tradizione, nessun ordine naturale, al punto da evitarne gli abusi, secondo necessità, quando ad esempio l’equità di fronte alla legge potrebbe compromettere la Verità costituita. Inutile a questo punto soffermarsi a lungo e puntigliosamente sugli esiti tristi e raccapriccianti delle leggi bavaglio, del reato d’opinione, metafori
ca caccia alle streghe inaugurata in Germania nel 1989; inutile anche perché sembra essere il modus operandiendemico di un sistema democratico degno di questo nome, se riteniamo veritiere le parole riportate da Tucidide nel libro VI delle sue Storie, quando in previsione di un attacco militare, durante un’assemblea pubblica a Siracusa fa dire al democratico Atenagora che “dal nemico non solo per ciò che fa ma anche per le intenzioni bisogna preventivamente difendersi, perché chi non si è difeso prima subirà prima[6]”. La democrazia si difende e si difende con l’armatura legislativa, che taccia di “revisione” o “negazione” quanto non è in conformità con la sua idea di legittimità.
La giustizia teoricamente considerata il primo requisito delle istituzioni sociali come la verità e la sua ricerca lo è del pensiero filosofico, secondo la felice formulazione teorica di John Rewls[7], più che avere come fine l’equità ha come esito il controllo, la ineguaglianza e l’ammaestramento dell’opinione pubblica.
Dato per assodato questo percorso storico della giustizia con il suo approdo nel porto del Novecento finiremo per acquisire come altrettanto connaturata la posizione privilegiata della magistratura, la sua fortuna strategica nei palazzi del potere politico, la sua immunità e ricchezza, come d’altro canto comprenderemo l’importanza di essere garantisti, come tentativo di difesa necessaria.
Oltrepassare il Novecento sarà nella natura dei corsi ciclici, oltrepassarlo affermando una idea di giustizia e verità sarà possibile soltanto mettendo in discussione il sistema politico che guida e dirige attualmente lo Stato, nel nome e nel ricordo di una educazione culturale che ha fatto dell’Italia un impero e degli italiani degli eroi.


[1] Platone, Repubblica, 416c.
[2] Freda, “Platone. Lo Stato secondo giustizia”, 1996.
[3] Ulpiano, D. 1.1.10.
[4] Giandomenico Casalino, “Res publica Res populi”, 2004.
[5] Giandomenico Casalino, “Res publica Res populi, 2004.
[6] Tucidide, Storie, VI, 38; traduzione Aldo Procella.
[7] Rewls John, “Una teoria della giustizia”.

2 Comments

  • Anonymous 17 Settembre 2013

    Complimenti per l’esposizione e le idee espresse. Luca V.

  • Anonymous 17 Settembre 2013

    Complimenti per l’esposizione e le idee espresse. Luca V.

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