10 Aprile 2024
Tradizione

Dal focolare al focolaio – Rita Remagnino

Platone chiamava gli dèi theoí, da theîn, «correre», ritenendoli il frutto di un tempo remoto in cui la divinità s’identificava con «il sole e la luna e la terra e gli astri e il cielo», elementi perennemente in moto. Come i popoli indoeuropei impegnati nella conquista dell’Eurasia, che non a caso scelsero di farsi rappresentare e proteggere dal re degli astri: il sole. Una potenza imbattibile e aggressiva, luminosa e incandescente, protettiva e pericolosa al tempo stesso, sublime incarnazione del legame naturale fra il mondo «sensibile» e il mondo «sovrasensibile».

Virtualmente la sua luce attiva, dinamica e legata al quotidiano grazie alla presenza del fuoco, era l’ideale per riorientare una società umana che sembrava avere perso la bussola. Puntando in primo luogo sul concetto di «casa», da intendersi non più soltanto sotto forma di edificio di pietra o di legno in cui si cercava riparo dall’azione esercitata dagli agenti atmosferici ma piuttosto come «focolare», sede privilegiata del clan famigliare.

Attorno a quest’idea la cultura indoeuropea organizzò l’intera mitologia di Agni, la divinità vedica (forse introdotta in India dai popoli Arii) da cui partì la più antica manifestazione religiosa del brahmanesimo. Emanazione del focolare domestico in cui vegliava in continuazione come luce perpetua nelle tenebre della notte Agni era il «testimone» al quale nulla poteva essere nascosto, il garante dei giuramenti, il mediatore del Sacro che raccoglieva offerte e suppliche indirizzando le preghiere.

Ciò non significa che i nostri antenati fossero dei «primitivi» adoratori di un Elemento, ossia di un fenomeno naturale. Il fuoco perenne da essi custodito nei luoghi di culto, o alimentato nel focolare domestico, non era l’elemento igneo in quanto tale bensì il simbolo e la manifestazione dell’eterno potere di dio, della forza della vita sulla morte, della luce dell’intelligenza che annientava la tenebrosa ignoranza.

Dal centro della casa il Signore del Focolare alimentava l’intuizione intellettuale che elevava lo Spirito permettendo all’«illuminato» di conoscere qualcosa della divinità suprema, o, talora, di sentirne il richiamo. Sotto questo aspetto egli era la coscienza che vigilava dal cuore-tabernacolo di ciascuno e in veste giudicante non poteva essere sempre buona, né cattiva. Un principio che tradotto in parole povere suona così: ti proteggo, ma occhio a come ti comporti!

Traspare dalle immagini che ritraggono Agni la «doppiezza del giusto», protettivo ma severo come un buon padre di famiglia. Sotto i capelli fiammeggianti ci sono infatti due teste, una mano stringe un ventaglio che sventolando alimenta le fiamme e l’altra tiene il cucchiaio sacrificale. Lingue, gambe e braccia variano da 3 a 7, i numeri sacri degli Arii. Talvolta lo si vede accompagnato da un ariete, un richiamo all’inizio dell’anno indù, che comincia quando il Sole entra in Ariete, ma anche un riferimento all’Età dell’Ariete (4.380 – 2.220 a.C. circa), l’epoca in cui probabilmente si sviluppò questo culto.

Per dirla in breve Agni era «uno di casa», sebbene i popoli indoeuropei intrattenessero con tutti i loro dèi, e non solo con questo, un rapporto familiare ed intimo, quasi «affettivo», scevro da sentimenti di terrore, incomprensione od oppressione. Il devoto si rivolgeva ad essi con un tono confidenziale, usando una lingua che comprendeva i diminutivi e le lusinghe, parlava con ognuno come si fa con una qualsiasi persona autorevole, con un venerando antenato, o con un importante fondatore di clan e lignaggi. Se doveva rimproverare al dio qualcosa lo faceva senza peli sulla lingua. L’essere soprannaturale non lo intimidiva.

Un po’ come il Don Camillo dei romanzi di Giovannino Guareschi, che parlava con Gesù sulla croce quasi fosse un rispettabile conoscente, non lesinandogli musi e ripicche. Quel dio così umano era uno che s’interessava di tutto e di tutti, di un famigliare ammalato come della moria delle vacche, rassegnandosi persino ad essere sostituito dalla «tavola calda» modello Lercaro e relegato in un angolo, vicino alla porta, in modo che i parrocchiani gli voltassero le spalle.

 Allo stesso modo di Purusha che all’inizio dei tempi era stato Prajapati, il «padre di tutte le creature», le divinità indoeuropee furono i «padri», gli «antenati», i legislatori, gl’inventori della nuova tradizione sociale basata sulla stirpe che all’insegna del fuoco spirituale riordinò la società eurasiatica dopo millenni di matriarcato e di famiglie allargate in cui la madre era sempre certa mentre sul padre si poteva discutere.

Nel mondo cosiddetto «patriarcale» di quei giorni lontani la cura dei congiunti e di coloro ai quali si era uniti da vincoli di sangue stava in cima alla scala delle priorità. Nell’ordine venivano poi le persone meritevoli, gli appartenenti alla stessa stirpe, gli stranieri. Grosso modo era questa la «gerarchia dell’amore» vigente nella società indoeuropea. Un tema ripreso in seguito da Tommaso d’Aquino, il quale dirà (Summa teologica, II-II, q.26) che il più amato in assoluto deve essere dio, in secondo luogo l’uomo è tenuto ad amare sé stesso, poi viene l’Altro più prossimo ed infine il proprio corpo.

Il rispetto di questo «ordine della carità secondo natura» era di fatto il riconoscimento della presenza del divino sopra ogni cosa e dell’indiscutibilità della famiglia. Il Creatore aveva fatto in modo che l’uomo amasse dio, sé stesso, i famigliari, i simili e da ultimo lo sconosciuto. Pensavano la stessa cosa Dostoevskij e Leopardi, sottolineando che l’amore astratto per l’umanità era un chiaro sintomo di distacco e indifferenza nei confronti del prossimo.

Chi meglio di noi può saperlo e confermarlo. Tutti conosciamo qualcuno che promuove a parole l’accoglienza indiscriminata di chiunque voglia entrare nel suo paese ma ignora che il vicino della porta accanto giace morto in casa da una settimana. Una contraddizione nella quale l’antenato indoeuropeo non sarebbe mai caduto, dato che per lui la stirpe famigliare e i parenti più prossimi stavano alla base di tutto, anche della guerra. Ogni uomo e ogni dio esistevano in quanto «figli di …» e la loro vita acquistava valore quando era il risultato di parecchie generazioni. Meglio ancora se di un certo lignaggio, frutto magari di una lunga discendenza.

Esisteva nella visione del mondo dei popoli che gettarono le basi della nostra civiltà un concetto poi clamorosamente dimenticato dalla cultura occidentale: essendo per natura un «animale socievole» l’uomo non esiste come «unità monade», ma nasce e cresce solo all’interno di una famiglia che allargandosi diventa comunità. A loro volta le varie comunità si definiscono attraverso una costellazione più o meno grande di genius loci che formando un contesto ecocentrico di tradizioni sorelle si esprime in una rete territoriale ben riconoscibile.

Riassumendo: senso di appartenenza, famiglia, patria, tradizione. Valori capovolti dalla società caotica dell’Età Oscura, ultimamente impegnata nell’opera di trasformazione del sacro focolare domestico in «pericoloso focolaio». C’è sempre di mezzo il fuoco, con la differenza che le nuove fiamme infettano anziché purificare. I bambini contagiano i genitori, che contagiano i nonni, che poi muoiono. Un’aura sospettosa avvolge la «casa», ultimo baluardo della civiltà, mentre la sostanza ignea si confonde con correnti più grossolane.

Annichiliti dalla paura molti individui già carenti di testosterone perdono la capacità di ragionare. Tra consanguinei ci si guarda in cagnesco. Aumentano ansie e insicurezze, frustrazioni e depressioni, con somma soddisfazione delle case farmaceutiche che sentitamente ringraziano la loro buona stella. Nel contempo spadroneggia la narrazione della Tecnocrazia dominante amplificata da un mainstream mediatico ossessivo e martellante. Attenzione cari cittadini del mondo, la famiglia non è più un luogo sicuro! Solo le istituzioni lavorano per il vostro bene. Al momento non ci sono risultati apprezzabili per quanto riguarda sanità, trasporti, edilizia abitativa, urbanistica, lavoro, infrastrutture e così via, ma vi promettiamo che domani andrà meglio.

Il popolo comprende le ragioni del pubblico alle prese con una «realtà complessa», come si dice oggi per giustificare la propria inadeguatezza, non dimostrandosi altrettanto indulgente verso il privato, considerato la causa di ogni male. Chiude il cerchio la tipica accettazione democratica dei nati nel Novecento, disposta a minimizzare soprusi e atti di gratuita brutalità che avvengono quotidianamente nelle strade per dare risalto alle sporadiche «violenze in famiglia».

Era prevedibile che dopo dio dovesse morire la famiglia, da decenni bersaglio dell’occhiuta intellighenzia di sinistra. Un tempo cuore della società e sede obbligata della celebrazione del Sacro questa struttura naturale e primordiale ha perso colpi anche a causa di un cristianesimo male interpretato (ed infine degenerato) che ha materializzato l’idea di un sistema patriarcale creato appositamente per sopraffare e schiacciare la donna.

Per carità, abusi in ambito famigliare ce ne sono stati eccome. Ma questo non autorizza a ignorare il ruolo di prim’ordine rivestito dalla donna nelle grandi civiltà del passato. Non esisteva nella mentalità degli Antichi la predominanza di un genere su di un altro ma semmai l’aspirazione spirituale a ricomporre l’androginia originaria.

Argomenti ostici per l’umanità dell’Età Oscura, incapace di comprendere persino il senso di una struttura elementare come quella basata sulla famiglia, oggi nel mirino del potere massonico-finanziario che controlla l’economia, i governi, l’informazione pubblica, la tecnologia, la scuola e l’ambiente. Non c’è dubbio che l’inaspettata (?) comparsa della pandemia da Covid-19 rappresenti la sua grande occasione. Adesso o mai più.

Finalmente la galassia progressista può gridare all’universo che il focolare domestico è come la corazzata Potëmkin del ragionier Ugo Fantozzi, oltre che un ente anacronistico da archiviare. Nessuno di questi tempi può rimanere fedele alla propria famiglia troppo a lungo. Gli impegni esterni non si contano, come gli spostamenti e i trasferimenti, l’allontanamento di giovani e vecchi dal proprio focolare è diventato pertanto necessario.

Cosa avrebbero dovuto fare, allora, i «custodi del focolare» che ri-disegnarono la civiltà in Eurasia? Riusciamo a immaginare le condizioni-limite in cui maturò il mito di Agni e si diffuse il suo culto? Pensiamo che le narrazioni tradizionali si divertissero a disegnare allegorie raccontando che il Signore del Focolare non temeva di mettersi in viaggio insieme ai suoi fedeli, giovani e vecchi, quando un popolo era costretto a trasferirsi altrove?

Questa è cronaca, non mitologia. Intorno a 7mila anni fa la pressione del mare fece cedere la diga del Bosforo, spingendo molte genti verso la Pianura Gangetica, e circa 5.600 anni fa il Mediterraneo si riversò nel Mar Nero, facendo alzare il Golfo Persico di tre metri. Gli spostamenti causati da forza maggiore (e che forza!) erano all’ordine del giorno, eppure non c’era stirpe in fuga che dimenticasse di portarsi dietro la «brace di famiglia», né di alimentarla con cura durante tutto il tragitto.

Una volta che il gruppo giungeva poi a destinazione chi di dovere, cioè il Padre, costruiva per prima cosa il Focolare in cui si deponeva ritualmente il «fuoco dinastico» e solo in un secondo momento il clan procedeva alla costruzione della casa vera e propria destinata ad alloggiare la famiglia. Si comportavano nello stesso modo i Navaho e altre tribù nomadi di nativi americani (per via della comune eredità ricevuta dai primi civilizzatori scesi dall’Artico?), i quali abbinavano la costruzione della capanna all’accensione del primo fuoco.

La sequenza non variava se al posto del capofamiglia c’era un re che doveva trasferire il suo popolo in un altro luogo. Il «regno» era in fondo una grande «casa» con a capo un re-padre i cui sudditi erano i figli. Non appena il sovrano prendeva possesso delle nuove terre conquistate egli fondava pertanto il «fuoco nuovo», figlio del «fuoco nazionale», e solo dopo questa cerimonia ufficializzava l’acquisizione di una provincia.

Sacralità del «focolare» era sinonimo di unità. Rappresentava lo spirito della famiglia, del gruppo, della stirpe. È incredibile che un passo dopo l’altro si sia arrivati all’accettazione passiva di precetti disgreganti quali “tenete la mascherina anche in casa” (non parlate), “eliminate le principali occasioni di socialità” (evitate amici e parenti), “combattete le aggregazioni superflue” (quelle tra esseri umani).

Si sta realizzando il sogno dei «padroni e filantropi» impegnati nella creazione di una nuova antropologia sociale, cioè nella «sostituzione emotiva» del focolare domestico con Stati e Mercati, virtualmente predisposti a soddisfare la maggior parte dei bisogni materiali dell’uomo.

Inutile dire che il fine ultimo di queste entità irreali non è la crescita di ogni singolo famigliare-persona, come lo era per il buon padre di famiglia, bensì la messa a punto di una massa indistinta di consumatori. Fate le vostre scelte e sposate chi vi pare, è la direttiva diffusa a reti unificate. Comportatevi come vi piace, anche se gli altri vi guardano storto. Toglietevi tutte le voglie, fa niente se dovrete pagare debiti per tutta la vita. Sotto forma di assistenza (reddito minimo garantito) penseremo noi, Stato e Mercato, a prenderci cura di voi. Vi forniremo cibo, riparo, istruzione, salute, assicurazione e protezione, proprio come una mamma e un papà.

Peccato solo che questi surrogati siano incapaci di creare legami forti. Il massimo che possono fare è promuovere «comunità immaginate» che per un periodo limitato nel tempo conterranno milioni di estranei uniformati alle esigenze commerciali dell’impero globale. E poi? Qualcuno ha idea di cosa avverrà dopo il crollo del castello di carte?

L’uomo può dirsi felice solo quando è inserito in un gruppo coeso e solidale di cui si sente parte. La comunità vive in interiore homine, per dirla con Agostino. Soli soletti si rimane al palo, che è per l’appunto il luogo in cui ci troviamo adesso, continuamente divorati dal desiderio di qualcosa che manca ma non si riesce a identificare. Mentre i nostri antenati dopo aver dotato la «casa comune» delle travi portanti (dio, famiglia, patria) non nutrivano desideri particolari, aspettandosi dal futuro solo il proprio Destino. Se hai un motivo valido per vivere puoi sopportare praticamente ogni cosa, scrisse Nietzsche, ma se non ce l’hai il tuo travaglio sarà terribile, per quanto confortevole la tua esistenza materiale possa essere.

E’ ipotizzabile dunque che prima o poi l’antico ritorni in una forma diversa ma sempre uguale nella sostanza. Già oggi i manifestanti che affollano le piazze d’Europa stanno chiedendo più famiglia e più lavoro, cioè maggiore cura del «focolare domestico» (tutela di bambini e anziani) e libertà d’impresa. Per il momento c’è solo una protesta generica contro l’imposizione di misure liberticide e l’instaurazione di una dittatura sanitaria. Mancano elementi per parlare di reali prospettive antimoderne. Ma le richieste sono chiare e rivendicano affetti, cultura, diritti, tradizioni, ideali.

Può darsi che la meta sia ancora lontana, o forse no. È possibile che costituzioni più attente verso l’ordine naturale, come ad esempio quella russa promulgata il 3 luglio 2020, abbiano infine la meglio sul pensiero unico mondiale. Chissà. Di sicuro la Storia è una spirale che conosce flussi e riflussi, balzi in avanti e ristagni, intervallati ogni tanto da clamorosi scivoloni o imprevedibili salti di qualità. Inspiegabilmente nel suo «farsi» la macina del tempo produce continue analogie e similitudini, corrispondenze e somiglianze. Non ci sarebbe nulla di strano se l’uomo di domani ri-scoprisse che essere conservatori non significa dipendere da ciò che è stato ieri, ma vivere ciò che è eterno.

Rita Remagnino

 

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

2 Comments

  • Francesco Zucconi 12 Novembre 2020

    Cosa ci sia di “massonico” nella finanza internazionale sinceramente mi sfugge…Quando si ricorre a questi stantii, falsi e moralmente bassi stereotipi si è già perso il sacro fuoco di Agni che illumina i lavori di
    ogni loggia giusta e perfetta. Se si va a cercare il corrotto perché lo si vuol trovare a tutti i costi…beh è chiaro che la luce della verità non la si potrà mai incontrare…Quindi i focolari, non più protetti contro gli assalti dei loro veri nemici, saranno spenti e dovremo ripartire dal fuoco…in una radura.. e la grande ruota ripartirà…

  • Rita Remagnino 13 Novembre 2020

    Lungi da me l’intenzione di tirare per la giacca la Massoneria. Ho solo usato il termine “massonico”, forse impropriamente e me ne scuso, in senso di “corporativo”. Non vi è dubbio che l’alta finanza internazionale sia una “corporation” ed è altrettanto certo che non abbia nulla da spartire con la rivoluzione intellettuale settecentesca che ha dato origine alla Massoneria. Purtroppo il cosiddetto “capitalismo relazionale”, o società di mutuo soccorso tra i detentori della ricchezza mondiale, è sotto gli occhi di tutti. Si direbbe che l’1% più ricco della Terra che detiene più del doppio della ricchezza netta posseduta dal restante 99% stia concretizzando l’idea di un futuro impero universale attraverso “corporazioni” che lavorano sottotraccia. A questa struttura, e soltanto ad essa, si riferiva il termine di “finanza massonica”, o “corporativa”.

    Grazie signor Zucconi per avermi dato l’opportunità di precisarlo.

    Per il resto non saprei dire se dopo questo assalto i nostri focolari ripartiranno dal “fuoco in una radura” o in una colonia marziana ma credo che il nostro compito, adesso, sia quello di alimentarli, che non è un’impresa di poco conto.
    “Non so con quale arma si combatterà la terza guerra mondiale, diceva Einstein, ma la quarta si combatterà con la clava”. Neppure un genio come lui aveva pensato all’arma più potente di tutte, quella che non uccide ma mette in ginocchio, la paura.
    Cordiali saluti.

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