18 Aprile 2024
Controstoria venticinqueaprile

Incontro al destino oltre ogni bandiera – Franca Poli

La Romagna, terra burlona e tragica a un tempo, cova sotto la superficie apparentemente piatta, un fuoco sacro che la brucia eternamente di estremi, di passioni, di impeti mistici e di risate irriverenti. In una terra simile sono nati uomini che la storia ricorda o che invece vorrebbe cancellare, uomini vissuti agli opposti fino a toccarsi, impulsivi, dal sangue facile al ribollire e dalle fervide passioni, idealisti dalla natura malinconica e nostalgica.

Sul finire dell’ottocento in un triangolo di terra romagnolo compreso tra le valli de Bidente e del Rabbi, nacquero quattro uomini che ebbero in seguito ruoli di primissimo piano nella storia d’Italia.

Quattro giovani che cementarono la loro amicizia in incontri all’osteria, in piazza fra comizi e tafferugli, o in carcere addirittura, quattro amici che insieme cavalcarono l’onda di protesta del malcontento che attanagliava la regione e che scelsero strade diverse per realizzare il sogno di portare al loro popolo benessere e uguaglianza sociale. Un quartetto dai nomi importanti: Benito Mussolini, Nicola Bombacci, Leandro Arpinati e Torquato Nanni.

Su questi personaggi sono stati spesi fiumi di parole, ma è sempre interessante leggere le storie dei loro destini che si sono allontanati, riavvicinati, persi e incredibilmente riuniti nel momento cruciale della loro vita. In questa breve narrazione cercherò di raccontare non tanto la loro storia, più o meno nota a tutti, quanto gli aspetti della loro indiscussa amicizia.

Ce n’era un quinto che andrebbe nominato in questo contesto, ma che tralascio perchè fu l’unico a salvare la pelle alla fine della guerra, in quei mesi di tragiche rese dei conti. Si chiamava Pietro Nenni, anche lui amico del Duce, avevano consolidato la loro amicizia in carcere, quando dopo alcuni moti di piazza a Forlì, erano stati arrestati e rinchiusi nella stessa cella. Nenni repubblicano e Mussolini socialista. Fu in quel periodo che si cementarono fra loro stima e affetto e pare che fu proprio in quei mesi che Mussolini più anziano, più autorevole, seppe inculcare nella testa di Nenni le idee socialiste che egli poi portò avanti nel dopoguerra. Apro comunque una piccola parentesi solo per ricordare che quando Mussolini salì al potere e instaurò il suo regime, Nenni scelse di non seguirlo, di restare socialista e dissidente e, nonostante questo egli beneficiò in modo importante della sua amicizia, perchè Benito intervenne per aiutare Pietro quando i tedeschi volevano deportarlo insieme alla sua famiglia in un campo di concentramento e lo fece consegnare dalle SS ai Carabinieri che, dietro suo ordine, lo scortarono a Ponza. Questo non impedì a Nenni, alla morte dell’amico, di titolare sull’Avanti, di cui era diventato nel frattempo direttore, “giustizia è fatta”. E non gli fa onore che si racconti che lo fece con le lacrime agli occhi. Se davvero avesse conservato un briciolo di gratitudine e di affetto amicale, come disse, avrebbe potuto scegliere un titolo migliore, in rispetto alla tragicità dei fatti, perchè quella non fu giustizia ma una mattanza.

Sarebbe bastato un po’ di rispetto, così come aveva fatto al contrario, Torquato Nanni che, pur restando socialista convinto, non cambiò opinione sul fraterno amico Leandro Arpinati quando questi era divenuto Podestà di Bologna e braccio destro del Duce. Nel 1927 infatti, scrisse di lui:

“è uomo politico d’eccezione. Chi lo avvicina e lo conosce, bisogna che si riconcili con la politica… deve per lo meno convincersi che si può fare della politica con animo puro e con mani pulite.”

Provenienti da famiglie di estrazione molto distante, l’amicizia fra Leandro e Torquato poteva essere assai improbabile. I Nanni erano tutti notabili, il padre si collocava fra le autorità cittadine e cercava di farsi largo per guadagnare ulteriore prestigio, mentre il padre di Leandro era il capo popolo dei socialisti locali, povero, divideva la sua giornata fra il partito e il biroccio su cui trasportava damigiane di vino. Torquato, spinto dalla famiglia, intraprese gli studi classici, avviandosi verso una prestigiosa carriera da avvocato, Leandro invece costretto dalla miseria emigrò giovanissimo verso Torino dove intraprese i mestieri più umili da garzone in un caffè, a operaio nella fabbrica di automobili Diatto (ancora non era Fiat). Entrambi i giovani erano pervasi da una comune passione per la politica, intelligente e portato alla scrittura il primo, teneva comizi in giro per la Romagna, mentre il secondo si gettò anima e corpo nell’attività sindacale all’interno della fabbrica in cui lavorava.

L’amicizia fra i due, nata in gioventù proprio grazie alla passione per la politica, non venne mai meno né quando furono distanti per motivi di lavoro, né quando lo furono per motivi politici, tanto meno quando Leandro divenne uno degli uomini più autorevoli d’Italia. Anzi fu proprio quando ne ebbe potere che dimostrò ancora una volta il suo attaccamento all’amico socialista. Torquato Nanni divenuto sindaco di Santa Sofia si trovò un giorno del 1922 alle prese con una squadra di fascisti venuti da Firenze. Erano gli anni dello squadrismo, in quell’incandescente contesto, i fascisti entrarono nell’ufficio di Nanni devastandolo, lo presero e lo portarono sul balcone. Avrebbe potuto succedere di tutto se non fosse intervenuto, a cercare di placare gli animi, il maresciallo dei Carabinieri che condusse l’ostaggio in prigione. Così in piazza iniziarono gli scontri fra i compagni che volevano liberare Nanni e i fascisti che volevano linciarlo. L’ingegner Ugo Cova, amico sia di Leandro sia di Torquato, fece una corsa contro il tempo, raggiunse Bologna e avvisò il ras di quello che stava succedendo a Santa Sofia. Arpinati si precipitò sul posto con una squadra e successe quello che nessuno si sarebbe mai aspettato, gli uomini al suo seguito attaccarono i camerati fiorentini che oramai avevano raggiunto il carcere in cui si erano asserragliati i carabinieri con Nanni in custodia. Fu una rissa fra fascisti per salvare un socialista destinato al linciaggio e tutto finì nel migliore dei modi per i due amici-rivali che poterono riabbracciarsi e concludere la serata con una cena romagnola e una buona bevuta di sangiovese. Provvidenziale destino salvò la vita di Torquato: Arpinati aveva deciso di non partecipare attivamente alla marcia su Roma, che si teneva proprio in quei giorni e di fermarsi a Bologna, per presenziare al funerale del camerata, amico fraterno, Giancarlo Nannini.

È evidente dunque che la loro indissolubile amicizia continuasse nel tempo e anche quando a Leandro arrise la fortuna e fece una brillante carriera nel partito fascista, Torquato non rinnegò mai i suoi sentimenti di affetto e gratitudine anche se questo gli costò non poche critiche fra i socialisti.

I successi di Arpinati si susseguirono, diede il via all’importante riforma del campionato di serie A, ottenne l’organizzazione dei Mondiali di calcio 1934, si impegnò per dotare Bologna di impianti ultramoderni dalla piscina olimpionica al prestigioso stadio Littoriale e l’ippodromo. Quando era Podestà di Bologna divenne anche numero uno del CONI, della Federazione Italiana Gioco Calcio e diede sfogo alla sua passione per il giornalismo, accettando di buon grado la donazione della maggioranza delle azioni del Resto del Carlino da parte di Giovanni Agnelli che ne era il proprietario. E mentre lui diventava così editore del giornale bolognese, Nanni lavorava come inviato speciale al Giornale del Mattino di Bologna, ma era stato in precedenza anche collaboratore di Lotta di Classe e dell’Avanti sempre con Mussolini. Nel 1924 aveva pubblicato Bolscevismo e fascismo, in cui individuava possibili linee di incontro fra le due ideologie su un comune terreno antiborghese. Una passione quella giornalistica che accomunava tutti e quattro gli amici romagnoli.

Per Arpinati però il successo del giornale bolognese, coincise con l’inizio del suo tramonto politico. Non ci è dato sapere se egli soffrisse del carisma e del potere raggiunto dal suo ex “compagno” divenuto capo assoluto d’Italia, o se invece alti “papaveri” del partito lo prendessero in odio proprio per il suo attaccamento al Duce e iniziassero a boicottarlo, sta di fatto che Leandro cadde in disgrazia, l’affetto sincero nutrito da Benito verso l’amico di gioventù s’incrinò. Complici anche le donne di casa Mussolini, la moglie e la sorella, che insinuarono ci fosse proprio Arpinati dietro l’attentato di Bologna al Duce avvenuto per mano di Anteo Zamboni, figlio di un anarchico molto amico del Podestà bolognese.

In realtà i dissidi tra i due riguardavano soprattutto la linea politica presa dal partito fascista che secondo Arpinati si allontanava dall’ideale socialista che li aveva ispirati all’inizio della loro avventura. Insieme a Nanni egli era infatti fautore della linea di pacificazione fra fascisti e socialisti. Linea ispirata dallo stesso Mussolini, ma bocciata categoricamente dai vertici del partito. A rendere insanabile la frattura fra i due, contribuì sicuramente Starace che accusava Leandro di liberalismo anarchico, mentre lui dallo stesso veniva definito il “cretino”.

Per farla breve la brillante carriera di Arpinati finì bruscamente con una condanna al confino a Lipari nel 1934. Carlo Levi sostenne però che pur se caduto in disgrazia Arpinati restasse un confinato privilegiato, vero o no questo dimostrerebbe come successe in molti altri casi che Mussolini pur conservando la facciata del Duce irreprensibile, in segreto aveva sempre aiutato i suoi amici. Due anni dopo soltanto venne infatti revocata l’ordinanza di confino e Arpinati potè raggiungere la moglie che era gravemente malata. Anche quando la signora fortunatamente si riprese, a Leandro non fu ordinato di lasciare nuovamente la sua Malacappa, tenuta che si era comprato, nelle campagne bolognesi vicino ad Argelato, quando aveva lasciato la politica.

Torquato Nanni fu sempre a fianco dell’amico fidato, per consigliarlo e difenderlo, ma con la caduta in disgrazia di Arpinati anche per Nanni si profilò il confino e per un anno fu spedito a Lanusei in Sardegna.

Nel frattempo le vicissitudini di Mussolini e Bombacci, gli altri due amici del quartetto, sono sicuramente più note, dopo essersi formati in casa di un fabbro anarchico il primo e di un ex milite ponteficio il secondo, all’insegna del loro sanguigno carattere tutto romagnolo e mossi da un fervore misto di nazionalismo repubblicano e socialismo, intrapresero entrambi a militare nel partito socialista. Spesso, negli anni, si scontrarono alternando brucianti alterchi a improvvise riappacificazioni.

Bombacci ex seminarista, divenne come Benito maestro elementare e, oltre a una maestrina forlivese Erissene Focaccia, aveva sposato anche gli ideali di un socialismo anarchico, estremista, intransigente e si gettò anima e corpo a fare proseliti fra le masse del proletariato. Con Benito si conobbero, dicono alcune biografie, alle scuole magistrali, ma è probabile che addirittura la loro amicizia risalisse ai tempi dell’infanzia quando Nicola abitava a Meldola e Benito frequentava il piccolo centro per “andare a parenti”.

Un’altra amicizia assai improbabile nata tra il figlio di un baciapile e quello di un satanasso, eppure fin da giovani legarono e furono stretti da affetto profondo. Nel 1909 collaboravano insieme al giornale forlivese Lotta di classe. In quegli anni Benito si sposò con Rachele Guidi. Erano tutti giovani e innamorati, poveri soprattutto, scrivevano e lavoravano al giornale animati da grande passione, ma da scarsissimi guadagni, questo anche quando Mussolini diventò direttore del quotidiano socialista l’Avanti.

Bombacci, sempre alle prese con le sue battaglie, i suoi articoli e il carcere, viveva costantemente in ristrettezze e fu proprio Benito, spesso e volentieri, a correre a salvarlo con aiuti economici. Un’amicizia la loro, molto stretta, molte le affinità, il loro legame rimase sempre integro, quasi fraterno e se ne trova facilmente traccia nelle lettere che Benito scriveva all’amico in carcere dopo i moti del 1914 a Modena.

Qualcosa iniziò a incrinare il loro rapporto quando Mussolini, contro ogni aspettativa e in antitesi a quanto aveva dichiarato fino a quel momento, iniziò, verso la fine dello stesso anno, a scrivere articoli di fuoco favorevoli all’intervento in guerra dell’Italia. Nicolino, come lo aveva sempre chiamato il suo amico, rimase interdetto dall’improvviso mutamento di rotta, ma non ebbe la forza o la volontà di inserirsi nella diatriba che si era aperta all’interno del partito socialista, prese le distanze dal compagno, ma non lo attaccò mai direttamente.

La sintonia fra loro venne a scemare soltanto dopo che Mussolini ebbe dato vita alle camicie nere. La lotta si fece aperta, Bombacci era divenuto così il nemico numero uno, entrambi capaci di suscitare grandi entusiasmi nelle folle con la loro oratoria accessibile a tutti e basata su frasi ad effetto, si scambiavano accese invettive dai palchi di opposti comizi.

“Me ne frego di Bombacci e del sol dell’avvenir, con la barba di Bombacci faremo spazzolini per lucidar le scarpe a Mussolini” cantavano gli squadristi fascisti.

E mentre Mussolini si avviava a diventare il capo assoluto del Fascismo, Bombacci, era ormai divenuto il Lenin della Romagna. La barba biondastra lunga e folta, gli donava un aspetto piuttosto da duro, quando in realtà era un uomo mite, di costituzione fisica gracile, un idealista che non si arrese mai, che covava nel cuore il sogno di un socialismo rivoluzionario.

Mussolini da direttore dell’Avanti, dopo l’espulsione, fondò il Popolo d’Italia, Bombacci si lasciò ammaliare dal nuovo idolo dei rivoluzionari: Lenin, appunto, estremizzando sempre più le sue posizioni fino ad arrivare al congresso di Livorno del 1921 e alla nascita del partito comunista di cui fu tra i fondatori: mentre, quasi contemporaneamente, l’amico Benito, fondava i Fasci di Combattimento e marciava su Roma.

Oramai avevano preso strade opposte, ma continuarono in un modo o nell’altro a essere amici, a stimarsi, d’altronde lo stesso Lenin, da cui Bombacci era tanto affascinato, gli aveva raccontato di aver conosciuto Mussolini in Svizzera e che lo considerava “il migliore dei socialisti italiani”. E Benito quando la sua famiglia si trovò in difficoltà non si fece mai scrupolo di continuare ad intervenire in suo disinteressato aiuto.

Sempre in ristrettezze economiche, Nicola si trovò con il figlio Vladimiro di otto anni in gravi condizioni di salute a causa di una frattura alle vertebre cervicali, si rivolse al partito comunista per ottenere un aiuto economico, ma la dirigenza, nella persona di Palmiro Togliatti, rispose picche “noi vorremmo aiutarti come vorremmo aiutare tutti i compagni che ci chiedono soccorso (…) le tue ristrettezze, le tue necessità non sono affatto degne di essere paragonate con il vero bisogno…”.

Fu Benito Mussolini, non appena ricevette una lettera da Erissene Bombacci, a far sottoporre, senza indugi, il piccolo agli interventi e alle cure necessarie presso l’ospedale Rizzoli di Bologna.

Espulso dal partito comunista fin dal 1927, Togliatti gli addebitava la colpa di non essere sufficientemente marxista, nel 1936 e fino al 1943 a Bombacci fu permesso dal Regime, nonostante le rimostranze di Starace, di fondare con le sovvenzioni del Minculpop, la rivista comunista “La Verità”. Nei suoi articoli spesso le idee collimavano con quelle del Partito Fascista, a cui riconosceva, nella politica economica, maggiore efficacia di quella attuata in URSS e, in particolare concordava nella severa critica verso Francia e Inghilterra che la facevano da padrone nella Società delle Nazioni:

“…Questa vergogna è ancor più nera perchè mascherata dall’ipocrisia di un Patto che si chiama di garanzia della pace, e non è se non la garanzia della conservazione dell’imperialismo inglese…”

Occorre comunque fare una precisazione , Bombacci non si vendette mai in cambio degli aiuti materiali ricevuti dal Duce e dal Fascismo, gli va meritatamente riconosciuta la piena onestà intellettuale, perchè egli si trovò d’accordo solo quando riconobbe nelle leggi sociali introdotte da Mussolini e nella battaglia verso le sanzioni ricevute dalle potenze europee, il ritorno con le dovute correzioni, al socialismo da loro esaltato in gioventù.

I due, davvero animati da puro ideale, credevano nell’amicizia, nella famiglia, valori che superano, quando necessario, ostacoli e incomprensioni.

Si incrociarono, si sovrapposero le vite e i destini dei quattro amici romagnoli, così mentre Leandro, l’uomo della prima ora, il braccio destro, si allontanava, il nemico numero uno, l’avversario politico, si avvicinava. E giunti alla resa dei conti, dopo il tradimento del 25 luglio del 1943, quando il Duce da Rocca delle Caminate chiamò a raccolta gli amici di un tempo per la costituzione della Repubblica Sociale, Nicolino rispose presente e Leandro invece voltò le spalle definitivamente.

Bombacci auspicò fosse giunta l’ora della vera rivoluzione fascista:

“Duce… sono oggi più di ieri totalmente con voi. Il lurido tradimento Re-Badoglio, che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l’Italia, vi ha però liberato di tutti i compromessi pluto-monarchici del ’22: oggi la strada è libera e, a mio giudizio, si può percorrere fino al traguardo socialista…”.

Finalmente Nicola vedeva coronarsi il sogno di costruire con l’amico Benito e con l’adesione delle masse operaie, lo stato sociale che agognava da sempre.

“La vostra volontà, il vostro coraggio, la vostra fede ridaranno all’Italia il suo volto, il suo avvenire, la sua possibilità di vita e il suo posto nel mondo…” rispondeva il Duce.

Bombacci partecipò attivamente alla stesura de “I diciotto punti di Verona”, in particolare si impegnò per la realizzazione del punto 15 “quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà è un diritto alla proprietà” e trascorse i mesi della Repubblica Sociale sempre accanto a Benito, insieme, a studiare, a ricordare, a pianificare in sintonia assoluta. Era tardi purtroppo, non bastò l’impegno di Bombacci che a poco più di un mese dalla fine della guerra fu ancora capace di radunare e arringare sui piani di socializzazione, una folla immensa di lavoratori a Genova.

“Se gli eventi non fossero precipitati, il fascismo sarebbe forse diventato la coscienza matura della nuova democrazia, come auspicava Mario Missiroli. E non difficile sarebbe stata, allora, la riconciliazione con l’ala destra del socialismo. (Torquato Nanni in Bolscevismo e Fascismo)

Si giunge così all’epilogo di questa storia che definirei romantica se non fosse tragica.

Ad Argelato nelle campagne bolognesi, era giunta voce della “liberazione di Bologna” era il 21 aprile del 1945, a Malacappa si sentivano in lontananza i colpi di cannone, Leandro e Torquato, che si erano rifugiati presso l’amico di sempre con la famiglia, pensavano fosse tutto finito. Arpinati era tranquillo, non doveva nulla a nessuno, la sua terra l’aveva comprata a debito e lavorava con i calli alle mani per pagarla. Aveva stretto un accordo con i partigiani, pur continuando a professarsi anticomunista, e credeva lo avrebbero lasciato in pace, in funzione di questo, ospitava nella sua tenuta ogni genere di antifascista nonostante avesse i tedeschi acquartierati in casa. La mattina successiva, il 22 aprile, una colonna di carri armati transitava davanti la tenuta, i tedeschi erano fuggiti, gli sfollati regalavano margherite ai soldati che ricambiavano con chewingum e sigarette, Nanni fu il primo a gridare “Ci hanno salvati tutti!” Ormai tranquilli i due amici si allontanarono dalla bolgia del popolo in festa e si ritirarono sotto un albero a fare le loro considerazioni insieme a Mario Lolli, parlavano anche dell’amico di Predappio ormai caduto definitivamente, al quale riconoscevano ancora alcune doti importanti, fra cui il grande senso di amicizia e a cui rimproveravano di essersi circondato delle persone e degli alleati sbagliati. Gli astanti videro sopraggiungere un furgoncino, erano le 11 di mattina, ne scesero quattro uomini e due donne, tutti “partigiani” della Settima Gap di Castelmaggiore Brigata Garibaldi. La sequenza di pochi attimi venne raccontata più o meno così: gli uomini chiesero chi fosse Arpinati, lui si fece avanti senza paura e gli puntarono in faccia il mitra, nel frattempo Nanni si mise in mezzo a braccia aperte a fare da scudo all’amico, in un breve quanto inutile tentativo di chiarirne la posizione, Torquato venne spinto a terra e ucciso, mentre a Leandro sparavano in faccia. Finivano così insieme, uno per l’altro, come avevano iniziato, la loro avventura. I due cadaveri non vennero rimossi, per cinque lunghi giorni nessuno osò dar loro sepoltura, entrambe le famiglie inseguite, nascoste, impaurite da possibili rappresaglie. Gli assassini non vennero mai identificati, né si cercò di fare indagini, anche se quasi con certezza si sapesse che si trattò degli uomini al comando di Luigi Borghi, nome di battaglia Ultimo. Sicuramente uno dei peggiori gappisti che insanguinarono l’Emilia Romagna prima di fuggire, protetto dal PCI, in Jugoslavia e in Cecoslovacchia, per tornare poi a Bologna con tutti gli onori e morire, molti anni dopo, tranquillo nel suo letto, nonostante avesse sulla coscienza non solo l’ex fascista Arpinati, ma anche la vita di Torquato Nanni, socialista mai pentito, libero pensatore.

“Se sapeva l’assassino chi fosse Arpinati, non certo sapeva chi fosse Nanni, ma la Restistenza uccideva, così come un cane, uno dei più puri antifascisti del Ventennio”(Giordano Bruno Guerri)

Alla «morte per amicizia» anche Ezra Pound dedicò il suo Canto 91:

“Nanni fu tre anni con Battisti ma fucilato fu dopo Salò.
Si gettò davanti l’amico ma non potè salvarlo..”

Pochi giorni dopo, in automobile Nicola era insieme a Benito quando il Duce si preparava a lasciare Milano. Seduti fianco a fianco con l’amico di sempre, sereno e consapevole della tragedia che si stava compiendo, vicini, in un tragico destino che li accomunava fin dalla gioventù. Chissà di cosa parlarono durante il viaggio che avrebbe dovuto portarli in Svizzera, Nicolino ottimista come sempre, pronto alla battuta, doveva essere sicuramente il meno serio trai due. Catturati, vennero separati definitivamente, ma non nel sentire, non nel cuore. Sul lungolago a Dongo, dove venne ucciso insieme agli altri prigionieri, Bombacci mai domo, offrì il petto al plotone di esecuzione orgogliosamente, gridando “Viva l’Italia, Viva il socialismo!”

Per Benito dopo tanti anni, ancora tutto è avvolto nel mistero, non si sa bene con certezza come e dove sia avvenuta la morte e per mano di chi, ma si sa per certo che dopo poche ore erano entrambi di nuovo insieme. Appesi a testa in giù a Piazzale Loreto e mentre la folla applaudiva selvaggiamente, i più prossimi sputavano sui cadaveri deturpati.

Il destino aveva fatto il suo corso e i quattro amici erano di nuovo riuniti, spiriti liberi, avevano condotto per molti versi un’esistenza eroica, senza calcoli opportunistici, Torquato Nanni diceva: “la politica non è interesse e non è dottrinarismo: è azione, è passione, è rivoluzione” e Bombacci con lo stesso stesso sentire:

“La politica è quella cosa per cui uno si occupa dei guai degli altri come se fossero propri. E per quei guai è disposto a dare la vita.”

Le loro esistenze erano trascorse impetuosamente, con baldanza, avevano percorso strade diverse senza mai perdersi completamente, condividendo ideali e praticamente insieme, a pochissimi giorni di distanza, il destino li aveva riuniti e, allo stesso modo per mano degli stessi vigliacchi assassini, avevano concluso la loro parabola.

8 Comments

  • Carlo 1 Maggio 2017

    Dire bello è’ dire poco ma le parole semplici sono a volte le più espressive.

  • Carlo 1 Maggio 2017

    Dire bello è’ dire poco ma le parole semplici sono a volte le più espressive.

  • francapoli 2 Maggio 2017

    ringrazio signor Carlo per la gentile attenzione . Franca

  • francapoli 2 Maggio 2017

    ringrazio signor Carlo per la gentile attenzione . Franca

  • SEPP 6 Maggio 2017

    Credo che Guareschi si sia ispirato
    ad amicizie come questa descritta.

  • SEPP 6 Maggio 2017

    Credo che Guareschi si sia ispirato
    ad amicizie come questa descritta.

  • Matt 19 Maggio 2017

    Bellissimo e interessante

    Grazie

  • Matt 19 Maggio 2017

    Bellissimo e interessante

    Grazie

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