3 Ottobre 2024
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Zig zag. Gualdane e bivacchi di miliziani. Russia 1917-1919. A cura di Alessandra Iacono

«Va detto immediatamente: questo è un libro virile – non virtuoso. Scritto con il sangue da venturieri, da miliziani erranti, da predatori – non intinto nell’inchiostro delle riflessioni sulla Grande Guerra, sulla guerra moderna, sulla guerra dell’avvenire, delle erudizioni sugli stati passati del futuro».

 

Così Friedrich Reck-Malleczewen incomincia la sua opera, Di ladri, carnefici e soldati. Come ufficiale di stato maggiore in Russia dal 1917 al 1924, prima edizione Berlino 1924, ristampato dalle Edizioni di Ar nel 2017 con un nuovo titolo, “Zig zag. Gualdane e bivacchi di miliziani. Russia 1917-1919”, esplicitato nella postfazione di Enrico Lupelli: «Il percorso di B. attraverso i pericoli della guerra civile sembra fatto di brevi segmenti e svolte improvvise: a zig zag, appunto. La stessa tecnica militare che consente ai soldati, procedendo per linee spezzate, di avvicinare un obiettivo, in B. diventa metodo per vivere: sottoporsi alla necessità tattica di sopra-vivere, mirando però all’obiettivo strategico, l’imperativo di combattere “per la Russia, il dio russo e il sistema russo”».

B., misterioso ex ufficiale imperiale fedele allo Zar, è l’occhio e l’esperienza diretta della guerra civile russa, narratore autentico, la testimonianza del quale viene raccolta da Reck-Malleczewen – o almeno così egli sostiene.

Friedrich Reck-Malleczewen, “l’aristocratico cattolico nemico dei totalitarismi” (1), elevato a campione della democrazia e del libero pensiero, in ragione delle sue critiche al regime nazionalsocialista e della sua morte nel campo di concentramento di Dachau.

Ed effettivamente un fremito aristocratico attraversa l’intero racconto: che sia opera di B. o un rimaneggiamento di RM., sta di fatto che emerge sull’atmosfera cupa, degradante, del racconto come una zattera nel mare in tempesta.

Una Russia, quindi, più che in decadenza: in libera caduta post-rivoluzionaria, con tutti i suoi rivolgimenti di moralità, di valori, di rango; di contro, la strenua resistenza etica ed etnica del protagonista: «Quale malattia ha aggredito la Russia, da cent’anni in qua? […] a strappare dal trono il simbolo della Grande Russia è lo stesso occidente: […] gente che vorrebbe […] sottomettere ai capricci della propria cupidigia l’anima russa! […] in una guerra come questa che è la più plebea di tutte le guerre, si può ancora parlare di spirito cavalleresco? […] Ciascuno vuole ritagliarsi un pezzo di carne del corpo della mammina russa. Ma noi vogliamo la Russia, vogliamo il Dio russo e il sistema russo. Non un sistema tedesco, inglese o francese – ma un sistema russo.»

In questa vicenda – che potrebbe ben essere una vicenda di oggi – ci sono uomini che non sanno più esser uomini, e femmine a cui tocca farne le veci. Ma «B. dimostra il proprio incomune coraggio, non perdendo mai il ricordo, e il conforto, della propria natura virile» (E. Lupelli): sì, questo è un libro virile. Nello stile e nei contenuti, poco adatto alle donnicciole. Se siete delle femminucce non leggetelo. È marziale, ostico, sporco, cruento, brutale, mortifero. Gli avvenimenti – rivolgimenti rocamboleschi per lo più – si susseguono come colpi di mitraglia, con ritmi frenetici e irregolari, fan venire le vertigini: «Noi non siamo dei politici, non siamo né rossi né bianchi, ce ne freghiamo delle vedute degli occidentali, i quali dal soldato vogliono andare in veste di missionari – sempre smaniosi di recitargli il sermone dei ‘principii’. Soldati siamo – questo basta e ci basta».

Il soldato B., in circa centosettanta pagine di racconto, si imbatte in russi, lettoni, lituani, tedeschi, ebrei, francesi, inglesi, cinesi; incontra qualche uomo ancora degno di esser chiamato tale e molti farabutti, donne soldato e “donne nazionalizzate” (le puttane); marcia, combatte, resiste, finisce prigioniero, fugge, diserta, sanguina, quasi muore, ama: ama le donne e ama la Grande Russia, seppur si trovi a chiosare che «Ormai la Russia è dietro di noi, lontana. La Russia è morta…».

In un momento storico in cui il massimo della trasgressione è uscire di casa (senza bavaglio per i più sovversivi), un racconto come questo, paradossalmente, ci può dare una spintarella per uscire – oltre che da casa – dalla realtà distopica (e dispotica) che stiamo subendo: «La libertà? Ma quale libertà! [i rossi] ci hanno afferrato e piegato le corna in giù, come coi montoni… Neanche respirare si può, ormai».

Curiosità: forse per il fatto di imbattervisi spesso, l’autore/narratore sembra avere un’ossessione per la betulla, *bherəg– indeuropeo, la stessa radice che indica il “bianco, ciò che splende”, l’albero diventato simbolo dell’antico popolo indogermanico, che ha permesso di ipotizzarne l’Urheimat (la patria originaria) laddove esso cresce rigoglioso: nord o nord-est. La simbologia della betulla – che vanta addirittura una runa tutta per sé, Berkana, “ᛒ”, per strana coincidenza corrispondente alla lettera B, l’iniziale del misterioso Autore – rimanda paradossalmente al femmineo, alla fertilità, alla maternità, alla creazione e dunque alla creatività.

Non male per un’opera che si era definita “virile” …

 

(1) https://www.iltimone.org/news-timone/anni-fa-moriva-a-dachau-friedrich-reck-malleczewen/

 

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