5 Dicembre 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, novantaduesima parte – Fabio Calabrese

Io vorrei riprendere il nostro discorso da dove l’avevamo lasciato la volta precedente, parlando delle pitture e incisioni rupestri che si trovano nel parco nazionale brasiliano di Serra da Capivara. Alcune di esse sembrerebbero risalire addirittura a 50.000 anni fa e, in assenza del ritrovamento di fossili umani di età corrispondente, non possiamo avere nessuna idea di chi possa averle tracciate.

Riguardo alla preistoria delle Americhe, una cosa possiamo dire con sicurezza, che l’idea che questo doppio continente prima dell’arrivo degli Europei (e sappiamo che Colombo è stato preceduto quanto meno dai Vichinghi) sia stato popolato unicamente dai discendenti di un’unica migrazione avvenuta dall’Asia settentrionale attraverso lo stretto di Bering o il ponte di terra della Beringia tra 15 e 12.000 anni fa, si è rivelata alla prova dei fatti del tutto falsa e insostenibile.

Le migrazioni che raggiunsero le Americhe prima di Colombo e dei Vichinghi, quelle di cui vi è certezza documentata, furono almeno quattro. La prima, la più antica nota, è quella dei cosiddetti paleo-amerindi, che dopo essersi insediati nel continente, furono costretti a spostarsi sempre più a sud dai nuovi arrivati fino a ritrovarsi soltanto nell’estremità meridionale di esso, la Terra del Fuoco, i Fuegini, e i soli “amerindi” che sembrano imparentati con loro, sono i Pericu della Bassa California. La penisola californiana, lunga e stretta, avrebbe agito come un cul de sac impedendo ulteriori arretramenti verso sud. E’ interessante il fatto che recenti scoperte archeologiche avrebbero portato alla luce i resti di insediamenti paleo-amerindi risalenti a poche migliaia di anni fa anche in Florida, Quest’ultima penisola sull’Atlantico avrebbe “intrappolato” alcune di queste tribù esattamente come la California sul Pacifico.

La seconda è stata quella degli Amerindi veri e propri, da cui discenderebbe il grosso della popolazione che ha abitato le Americhe fino all’arrivo dell’uomo bianco. Anche a questo riguardo non mancano i dubbi e le contestazioni, in particolare sul fatto che non si sarebbe trattato di popolazioni mongoliche “pure” ma con una discreta componente europide. Gioca in questo senso il ritrovamento dello scheletro dell’uomo di Kennewick, risalente a 11.000 anni fa, che ha rivelato tratti europidi o europidi-ainu-polinesiani, a ciò si aggiunge che l’analisi dei resti di un giovane siberiano di epoca preistorica, il ragazzo di Mal’ta ha rivelato una stretta affinità con le popolazioni che oggi abitano l’Europa occidentale, e pare dovesse avere occhi e capelli castani. Questo fa supporre che le popolazioni della Siberia di 15-12.000 anni fa da cui sarebbero provenuti gli Amerindi avessero una discreta componente “bianca”, e difatti gli studi genetici compiuti sui nativi americani hanno dimostrato che circa un terzo del loro DNA è riferibile al tipo “Eurasiatico settentrionale”, che costituisce il genoma della stragrande maggioranza degli Europei.

Una terza migrazione sarebbe avvenuta circa 8.000 anni fa e avrebbe portato nelle Americhe le popolazioni e le lingue Na-Dene, che comprendono varie popolazioni del nord dell’America settentrionale, quali gli Athabaska e i Tlingit, e, spintisi più a meridione in mezzo agli Amerindi, i Navajo.

Teniamo sempre presente che per quanto riguarda i tempi preistorici e antichi, affinità di lingua significa affinità etnica: le società multietniche e multirazziali sono una disgraziata “invenzione” moderna. Le lingue (e le popolazioni) Na-Dene rientrano nel gruppo Dene-Caucasico che comprenderebbe alcune lingue del Caucaso orientale, della Siberia e il Basco. Alcuni linguisti poi fanno rientrare questo gruppo nella superfamiglia sino-dene-caucasica, assieme alle lingue sino-tibetane.

La quarta migrazione, avvenuta attorno al primo millennio avanti Cristo, è quella degli Esquimesi o Inuit.

Non ci fermiamo qui, perché ulteriori scoperte hanno complicato ancor più questo quadro: non si può non menzionare l’ipotesi avanzata dai due archeologi Stanford e Bradley secondo la quale la notevole componente “bianca” presente nel genoma degli Amerindi si spiegherebbe in base a una migrazione che avrebbe raggiunto le Americhe dall’Europa in epoca preistorica a opera di cacciatori di foche e balene che avrebbero raggiunto l’America costeggiando la banchisa artica che allora esisteva fra i due continenti. Costoro appoggiano la loro tesi sul fatto che la più antica industria litica americana, quella di Clovis, mentre non presenta somiglianze con quelle della Siberia, è molto simile a un’industria europea, quella solutreana. Inoltre, la maggior parte dei siti Clovis si trova sulla costa atlantica, soprattutto attorno alla Chesapeake Bay, il che suggerisce una provenienza da est.

Per completare il quadro, occorre segnalare la presenza di diverse popolazioni amerindie “inesplicabilmente” bianche, gli estinti Mandan nell’America settentrionale, in quella meridionale gli Aracani (che guarda caso, abitano la regione di Tihuanako, la “Stonehenge del Sud America”) e i Kilmes di cui ha parlato Gianfranco Drioli nel suo Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta.

Come se non bastasse, recenti studi sul DNA delle popolazioni amazzoniche hanno permesso di rilevare in alcune tribù della regione un’affinità con le popolazioni australoidi, e quindi di ipotizzare una “migrazione fantasma” che non ha lasciato altre tracce se non nel DNA, proveniente dall’Oceania, e che dopo le quattro “ufficiali” e quella “solutreana” ipotizzata da Stanford e Bradley, sarebbe la sesta.

Un’ipotesi che invece pare si debba proprio abbandonare, è quella della presenza di un elemento “africano” nell’America precolombiana. Quest’ultima era stata suggerita dal fatto che in particolare le statue, le grandi teste di pietra della cultura olmeca, presenterebbero lineamenti “negroidi” con le labbra tumide e le narici molto larghe, ma un attento esame ha permesso di verificare che le stesse caratteristiche si ritrovano presso molti indios. Non c’è alcuna traccia di neri nelle Americhe prima che vi fossero importati come schiavi.

Quello che appare assolutamente verosimile, è che la presenza umana nelle Americhe sia molto più antica di quanto ufficialmente ammesso. Anche Wikipedia menziona il ritrovamento di un’impronta umana fossile in Messico, che risalirebbe a 40.000 anni fa (voce “Amerindi”).

Chi erano dunque coloro che hanno tracciato le pitture e i graffiti rupestri della Serra Da Capivara? Che si trattasse di paleo-amerindi antenati degli odierni fuegini, è forse l’ipotesi meno improbabile, ma potrebbe essersi trattato anche di una popolazione precedente di cui non abbiamo altre tracce. Non lo sappiamo, e potremmo non avere mai la risposta. La storia remota delle Americhe ha molte pagine strappate, e la colpa non è soltanto dei conquistadores spagnoli che hanno distrutto le culture azteca, maya e inca e  bruciato migliaia di libri, ma anche degli yankee che assieme a molte tribù “pellirosse” hanno annientato anche i loro miti e tradizioni che avrebbero potuto fornirci importanti indizi.

Vorrei ricordare che nel 2012 ho pubblicato su queste tematiche un articolo, La storia perduta delle Americhe sul n. 7, gennaio-febbraio 2012 della rivista “La runa bianca”.

Quando noi parliamo di scienza, dobbiamo sempre capire se ci riferiamo alla scienza autentica, quella che si basa sull’indagine dei fatti, a partire dai quali si costruiscono le teorie che li spiegano, o se invece parliamo di quella congerie di falsificazioni che è la “scienza” democratica, quest’ultima è fondata su una serie di dogmi che alla realtà non è permesso di trasgredire, né tanto meno ai ricercatori è consentito dire come stiano realmente le cose: dall’irrilevanza dei fattori genetici nel determinare ciò che sono gli esseri umani, e che si vorrebbe fossero unicamente il prodotto dell’ambiente, dell’apprendimento, dei fattori sociali (secondo la stantia e falsissima vulgata marxista), all’inesistenza delle razze, alla diffusione media dell’intelligenza uguale in tutti i gruppi umani, eccetera, me. Chi osa contraddire questi dogmi palesemente falsi, è un reprobo, un eretico che si espone alle peggiori sanzioni.

Questo atteggiamento inquisitorio e sanzionatorio contro “i reprobi” che osano usare il cervello invece di ripetere a pappagallo e fingere di dare una validazione scientifica ai dogmi imposti della democrazia, si è inasprito negli ultimi anni in cui si è accelerata la corsa verso il totale appiattimento nel “pensiero unico”. Ne abbiamo parlato altre volte. Una vittima illustre, fortunatamente per lui postuma, di questo infame trattamento, è stato il grande Konrad Lorenz cui l’università di Salisburgo ha cancellato la laurea honoris causa a suo tempo conferitagli.

Un’altra illustre vittima dell’inquisizione democratica (oltre a chissà quante vittime meno illustri, s’intende!) è James Watson. Watson è stato assieme a Francis Crick lo scopritore della molecola a doppia elica del DNA, una scoperta che fruttò loro il premio nobel (assolutamente meritato, a differenza di quelli conferiti a Barack Obama, Dario Fo, Bob Dylan), basta che pensiate all’importanza che la scoperta del DNA sta rivelano non solo per quanto riguarda la ricostruzione della storia dei nostri antenati, ma in moltissimi campi, dalla criminologia alla medicina.

Bene, secondo quanto hanno ultimamente riferito due diverse fonti, techeveryeye.it e galileonet.it, James Watson che già nel 2007 era stato rimosso dalla direzione del Cold Spring Harbour Laboratory, sta ora per perdere tutte le benemerenze acquisite in 40 anni di carriera scientifica. La sua colpa? Aver citato un fatto ben noto, largamente provato ma “politicamente scorretto”, cioè di aver detto la verità che spiace alla democrazia, che i neri sono geneticamente meno intelligenti dei bianchi.

Lo stato attuale della paleoantropologia ricorda da vicino quello dell’astronomia nel XVI e XVII secolo, dove i ricercatori dichiaravano (erano costretti a dichiarare) la loro adesione al sistema tolemaico, e portavano di continuo elementi che lo smentivano più o meno esplicitamente. Il “sistema tolemaico” della moderna paleoantropologia, il dogma che è proibito mettere in discussione anche se fa acqua da tutte le parti, è ovviamente l’Out of Africa, la “teoria” dell’origine africana della nostra specie. Questo vale anche e soprattutto per quel santuario dell’ortodossia “scientifica” che è “Le Scienze”.  Nel numero di gennaio 2019 ha pubblicato un articolo, Lo sviluppo infantile delle forme arcaiche di Homo, dedicato a uno di quei fossili cinesi il cui studio promette oggi di rivoluzionare la paleoantropologia. Si tratta in questo caso dei resti di un individuo giovanile che è stato battezzato “il ragazzo di Xujiayao”. La sua collocazione tassonomica è per ora incerta, perché sembra presentare un miscuglio di caratteristiche sapiens, neanderthaliane e denisoviane, e altrettanto incerta è la sua collocazione temporale che si porrebbe in un range che va da 104.000 a 248.000 anni fa (ma se fosse confermata la valutazione più alta, ne farebbe uno più antichi fossili umani mai scoperti).

Ora, visibilmente, il ritrovamento di un fossile così antico nel cuore dell’Eurasia è ben difficilmente compatibile con la  presunta origine africana della nostra specie, non solo, ma la presenza di un mix di caratteristiche sapiens (Cro Magnon), neanderthaliane e denisoviane, dimostra una volta di più che questi antichi uomini non appartenevano a tre specie diverse ma a tre varietà della stessa specie, la nostra, infatti, l’appartenenza a una medesima specie è definita proprio dalla possibilità di accoppiarsi e generare non ibridi sterili (come nel caso di asini e cavalli) ma una discendenza fertile, una specie dunque presente in Eurasia in tempi incompatibili con la presunta origine africana, e questo vale sia nel caso in cui questo ragazzo fosse il prodotto di un meticciato, sia – ipotesi forse più probabile – che appartenesse alla popolazione ancestrale precedente alla tripartizione Cro Magnon, Neanderthal, Denisova.

Tuttavia l’importanza di questo ritrovamento non consiste tanto in questo, quanto nel fatto che trattandosi di un esemplare giovane, ha permesso un’analisi dei ritmi di crescita attraverso le stratificazioni dello smalto dentario, e la conclusione è che questi ultimi erano assolutamente paragonabili a quelli degli esseri umani attuali. Vi è chiaro quello che significa? La crescita lenta, la longevità, la lunga infanzia, il lungo periodo di sviluppo delle facoltà intellettive, il lungo apprendistato, sono una delle frontiere più certe non solo fra uomini e scimmie, ma fra gli esseri umani e tutto il resto del mondo animale, si tratta dunque di un dato che sancisce la piena umanità di questo nostro remoto predecessore.

Mentre James Watson sta passando le sue rogne per aver detto una verità nota e largamente provata ma invisa alla tirannide che conosciamo sotto il nome di democrazia, ciò a cui ha dato origine assieme a Francis Crick, l’analisi del DNA conosce nuovi perfezionamenti. Un articolo di “Nature Communications” del 16 gennaio 2019 a firma di Mayukh Mondal, Jaume Bertranpetit e Oscar Lao ci parla di una nuova tecnica di analisi del DNA che è stata chiamata apprendimento profondo. Applicata alle popolazioni umane, essa ha permesso di rilevare nelle popolazioni dell’Asia meridionale e dell’Oceania la traccia genetica di un quarto antenato dell’umanità attuale, oltre a Cro Magnon, Neanderthal e Denisova (un quinto se contiamo la “specie fantasma” individuata dai biologi dell’università di Buffalo nel genoma dei neri subsahariani, ma forse quest’ultima era semplicemente il “vecchio” Homo Erectus rimasto immutato al disotto del Sahara fino a poche decine di migliaia di anni fa).

In realtà la notizia non sorprende, se ricordate, ve ne avevo parlato a suo tempo: anni fa, i ricercatori dell’IBE (Istituto di Biologia Evolutiva) di Barcellona, avevano già individuato la traccia genetica del “quinto antenato” nel genoma dei nativi delle isole Andamane. Quello che invece sorprende è qualcos’altro, la terminologia. Le battaglie ideologiche si combattono anche e soprattutto con le parole, con la manipolazione del linguaggio: le presenze di DNA antico nel patrimonio genetico delle popolazioni moderne sono definite con un brutto termine: introgressioni, quasi si trattasse di intrusioni più  meno infettive. Il sospetto è che ci si voglia dar a intendere che si tratti di una sorta di deviazioni marginali o presenze abusive rispetto alla linea principale sapiens-gromagnoide di origine, ça va sans dire, africana.

Il sospetto è che si stia cercando di prendere in giro il pubblico. Gli esseri umani non sono batteri, sono vertebrati superiori, e l’unico modo in cui possono avvenire uno scambio o “un’intrusione” di materiale genetico, è attraverso un rapporto sessuale che produce una discendenza, una discendenza evidentemente feconda se l’impronta genetica di questi uomini arcaici è giunta fino a noi, il che significa che non si è mai sorpassato l’ambito dell’appartenenza alla stessa specie, una specie più sfaccettata e con una storia più complessa di quanto racconti la semplicistica favola dell’Out of Africa.

Un’altra notizia di questo gennaio 2019 che appare singolarmente intenso, questa volta a riferirlo è “Archaeology Magazine”: Due ricercatori dell’università di Witwatersrand (Sud Africa), Amélie Beaudet e Ronald Clarke hanno scansionato il cranio dell’australopiteco fossile di sesso femminile risalente a 3,67 milioni di anni fa noto come “Little Foot”, “Piedino” e, a partire dalla scansione, costruito un modello tridimensionale del cranio stesso con una particolare attenzione alla struttura dell’orecchio interno. Poiché esso è coinvolto nell’equilibrio e nella deambulazione, ci può dare una risposta alla domanda su come camminasse questa creatura che appartiene alla stessa specie della famosa Lucy.

Bene, la risposta è che l’orecchio interno di questa creatura è differente da quello degli esseri umani, e simile a quello di uno scimpanzé, il che rende facile arguire che non camminasse eretta ma allo stesso modo di questi ultimi.

La stazione eretta, o la supposizione di essa, è uno degli elementi, e verosimilmente il più importante, su cui si basa la distinzione fra scimmie e ominidi, e ha permesso di diagnosticare in questi ultimi i precursori dell’umanità. Ora questo discorso viene a cadere almeno per quanto riguarda gli australopitechi africani.

Un risultato che è perfettamente coerente con quanto rilevato nel 2017 quando un team di anatomisti britannici guidato da sir Solly Zuckerman, probabilmente il maggior esperto mondiale di anatomia comparata, ha “passato al setaccio” le ossa di Lucy concludendo che si trattava di una scimmia che non ha nulla a che fare con la genealogia umana. E’ l’ultimo pilastro dell’Out of Africa che crolla, e se la questione fosse soltanto in termini scientifici e non politici, certamente non sentiremmo più parlare di questa sciagurata “teoria”, ma ovviamente non dobbiamo aspettarci che le cose vadano in questo modo, perché essa fa troppo comodo al potere mondialista interessato a negare l’esistenza delle razze umane per imporre dovunque il meticciato, a costruire sotto l’apparenza della democrazia la più ferrea delle tirannidi, e a cui della realtà dei fatti, ovviamente non importa nulla.

Ma finché potremo, noi saremo qui a ributtare in faccia a democratici e antirazzisti le loro menzogne.

 

Nota: Nell’illustrazione: ricostruzione della sepoltura di un bambino ritenuto un ibrido di Cro Magnon e Neanderthal i cui resti sono stati rinvenuti in Portogallo. Probabilmente  il fossile  noto come il ragazzo di Xujiayao presentava caratteristiche molto simili.

 

2 Comments

  • FABIO 10 Marzo 2019

    Ciao Fabio, un paio di domande:
    1) cosa ne pensi delle teorie di Biglino sulle origini parzialmente extraterrestri dell’homo sapiens?

    2) Hai intenzione di raccogliere e pubblicare la Ahnenerbe casalinga? Io sono all’antica mi trovo meglio a leggere su carta stampata.

    Grazie e saluti

    Fabio (TS… 1952)

  • Fabio Calabrese 11 Marzo 2019

    Caro Fabio; Io penso che Biglino abbia pienamente ragione quando afferma che la bibbia è un libro oscuro e confuso, il cui senso è stato ulteriormente oscurato dagli errori di trascrizione e di tradizione accumulati nei secoli, e che le Chiese cristiane hanno interpretato come loro faceva comodo, ma la sua interpretazione extraterrestre mi sembra fantasiosa e campata in aria, e nemmeno originale, se pensa a Peter Kolosimo, Von Daniken e simili. Io ho già raccolto in un testo perlomeno una sintesi di questi miei scritti, ma trovare un editore non è facile. Tuttavia qualcosa negli ultimi tempi si sta muovendo.

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