La scuola italiana è un luogo dove gli studenti socializzano, sono indottrinati a idee antifasciste e di sinistra. Un insegnante che provasse a far sentire loro un’altra campana, andrebbe incontro a conseguenze molto spiacevoli, ne so qualcosa per esperienza personale. Accessoriamente, potrebbe anche succedere che imparino qualcosa oltre a leggere, scrivere e far di conto (non sempre molto bene), e che Mesopotamia vuol dire terra fra due fiumi, ma sia chiaro che questa cosa è un semplice optional.
Quale sia la situazione della scuola italiana, lo illustra bene anche un episodio raccontatomi da un amico. Aveva un vicino pachistano che viveva a Roma ormai da molti anni. Un giorno con le valigie in mano. L’uomo lo informa che sta per tornare in Pakistan con la famiglia, perché vuole che i suoi figli studino seriamente e non facciano una scuola burletta come quella italiana. E teniamo presente che il Pakistan è considerato Terzo Mondo, ma mezzo secolo di “riforme democratiche” hanno portato la nostra scuola a un livello inferiore.
Grosso modo, si potrebbe calcolare che, a essere generosi, un ragazzo che si diploma oggi ha all’incirca la stessa cultura di una quinta elementare di mezzo secolo fa.
Un insegnamento particolarmente disastrato è quello della storia, per varie ragioni, intanto perché non si insegna più la geografia, e c’è davvero da chiedersi come possono capire i ragazzi gli eventi storici se non sanno dove collocarli nello spazio. Tutto diventa una nebbia confusa da cui ogni tanto emergono nomi e date in modo puramente mnemonico, cose che una volta raggiunto il sospirato diploma, non lasceranno tracce nella cultura sedimentata.
A questo si aggiunge il fatto che gli insegnanti, per stare dietro ai programmi ministeriali, sono costretti a trattare molte parti dei programmi in modo peggio che superficiale.
Ricordo che diversi anni fa, durante un collegio docenti, il preside ci aveva informati che in base ai nuovi programmi ministeriali, in vista dell’Esame di Stato – come si chiama adesso la maturità – in quinta si sarebbe dovuta fare solo storia del novecento, e farla in modo completo, evitando di impantanarsi come al solito nel fango delle trincee della prima guerra mondiale.
All’uopo, la scaletta da seguire doveva essere questa: al biennio si doveva arrivare fino all’anno mille, in terza dal mille al milleseicento, in quarta settecento e ottocento, e infine in quinta il novecento. Certo, tutta la storia antica veniva compressa in modo intollerabile, ma a conti fatti, mi parve la soluzione meno peggiore.
Lasciai passare un anno evidentemente necessario per questa transizione, e fu non all’inizio del successivo, ma di quello seguente, che io, insegnando al triennio e prendendo in mano la nuova terza, chiesi, ingenuamente fiducioso:
“Dove siete arrivati con il programma di storia l’anno scorso?”
Sinceramente, non mi aspettavo che avessero raggiunto la fatidica data del mille, ma mi attendevo che fossero giunti, che so, a Carlo Magno.
“A Costantino”, mi risposero i ragazzi lasciandomi basito.
Ora, capite bene quale è il problema. Non ci sono alternative, o si saltano interi periodi storici, o li si tratta a raffica di mitragliatrice, e in ogni caso per gli studenti raccapezzarsi diventa un compito ben arduo.
Un capitolo sul quale gli insegnanti di storia nell’intento di guadagnare tempo sorvolano alla grande, è quello delle guerre del settecento, le tre guerre di successione e la guerra dei sette anni.
Delle prime, la guerra di successione spagnola fu veramente tale, e portò alla sostituzione sul trono di Spagna della casa di Asburgo con quella di Borbone, quella polacca fu in realtà il preludio alle spartizioni della Polonia che andò divisa fra Austria, Russia e Prussia. In quella austriaca, i vicini approfittarono della salita al trono imperiale di una donna, Maria Teresa, per strapparle concessioni territoriali prima di riconoscerla.
La guerra dei sette anni, che si svolse dal 1756 al 1763, fu una conseguenza di quest’ultima, infatti, Maria Teresa a cui la Prussia di Federico II aveva tolto l’importante regione mineraria della Slesia, pensò di mettere insieme contro di essa una vasta coalizione che comprendeva Austria, Francia e Russia. La Prussia ebbe come unico alleato l’Inghilterra, che però combatté sui mari e nelle colonie una guerra contro la Francia del tutto separata dalle vicende continentali.
La Prussia, incredibilmente, resistette per sette anni a un simile assalto, fino a quando, con la morte della zarina Elisabetta, salì al trono lo zar Pietro III che era un ammiratore di Federico II. Costui impose la cessazione delle ostilità e il ritorno ai confini prebellici.
L’Italia era stata coinvolta nelle guerre di successione, come lo sarà più tardi in quelle napoleoniche, essendo in sostanza un campo di battaglia fra Austria e Francia, ed esse avevano portato a vari cambiamenti, fra cui il sostituirsi dell’egemonia austriaca a quella spagnola. La guerra dei sette anni, poiché allora Francia e Austria erano alleate, si combatté lontano da essa, e in più questo conflitto si concluse senza mutamenti territoriali in Europa. Appare quindi perlopiù agli insegnanti di storia un’ottima ragione per saltarla a piè pari, tanto non cambia nulla.
Ma è davvero così? Vediamo quali ne sono state le reali conseguenze, ad di là dell’altalenare dei confini.
Vediamo prima di tutto che la Russia, ritenuta fin allora una landa selvaggia di ben scarso interesse, per la prima volta si rivela una grande potenza in grado di decidere degli equilibri europei.
Poi, l’eroica e incredibile resistenza della Prussia contro una delle più vaste coalizioni che l’Europa avesse fin allora mai visto, fece sì che nel mondo germanico si creasse il mito dell’invincibilità militare prussiana e si cominciasse a guardare ad essa come possibile strumento della riunificazione tedesca. Tutto ciò ebbe un peso determinante a partire dal XIX secolo, ma i semi furono gettati allora.
Per la Francia, le tre guerre di successione e quella dei sette anni furono un prolungamento delle guerre imposte nel secolo precedente da Luigi XIV, il “re sole” che con i sui sogni espansionistici aveva costretto il Paese a una continua attività bellica che aveva portato a pochissimi o a nessun frutto, indebitando lo stato e immiserendo la popolazione, a ciò si aggiunge che nella guerra dei sette anni la Francia perse a favore dell’Inghilterra i domini coloniali dell’India e del Canada. In breve, si crearono le premesse della rivoluzione del 1789.
Per l’Inghilterra, l’acquisizione dell’India e del Canada fu l’inizio della gigantesca impresa coloniale che la porterà a dominare nel XIX secolo circa un terzo delle terre emerse del pianeta.
Controllare e tenere i rapporti con domini così vasti e lontani, richiedeva un’imponente flotta che gli Inglesi si apprestarono a costruire. Le navi all’epoca erano velieri di legno, e questo impose loro di disboscare praticamente l’Isola. Ben presto, il legno che allora era il principale combustibile per scaldarsi e cucinare, cominciò a scarseggiare, e così cominciarono ad adottare il carbone come ripiego. Nelle miniere di carbone si iniziò a usare la macchina a vapore, nata dapprima come pompa per prosciugare le miniere in cui la falda freatica tendeva a infiltrarsi. Fu l’inizio della rivoluzione industriale che avrebbe cambiato il volto del pianeta.
La vittoria sui Francesi in Canada era stata opera soprattutto dei coloni insediati nelle tredici colonie sulla costa atlantica dell’America settentrionale. Fino a quel momento, esse erano state soprattutto un rifugio per dissidenti religiosi, come puritani e cattolici, una valvola di sfogo, e per esse la corona britannica aveva dimostrato ben scarso interesse, ma ora le cose cambiarono, e l’Inghilterra pensò di sfruttarle a dovere, prima di tutto con una pesante tassazione.
Questo esacerbò gli animi del coloni, avevano combattuto e vinto i Francesi per ritrovarsi peggio di prima. Scoppiò la ribellione che porterà alla nascita degli Stati Uniti.
Altro che non cambia nulla, la guerra dei sette anni è stata uno snodo fondamentale che ha portato al passaggio da quello che possiamo chiamare l’ordine tradizionale dell’Europa e del mondo, al mondo moderno.
Di tutto questo, però, perlopiù i nostri studenti non vengono a sapere nulla, a meno di non dedicarsi più avanti a studi specialistici di storia.
L’impressione che rimane loro, è che il mondo moderno sia spuntato all’improvviso dal nulla come un fungo dopo una notte di pioggia, o peggio, che tra la storia che imparano a scuola e il mondo nel quale vivono, non esista alcun rapporto, che la storia sia solo un’arida sfilza di nozioni che occorre apprendere non si sa bene perché.
Questo, s’intende, è solo uno dei moltissimi esempi che si potrebbero fare, e non credo che il problema riguardi solo l’insegnamento della storia, ma un po’ tutte le materie. Io ammetto di non avere la soluzione in tasca, anche se penso che più che nozioni, la scuola dovrebbe insegnare ad apprendere i nessi profondi tra le cose, ma una cosa è certa, occorre ripensare tutto il meccanismo dell’insegnamento scolastico, altrimenti continueremo a sfornare allievi che arrivano al diploma sempre più ignoranti.
Anni fa, ebbi una polemica con i redattori di “Scienza e paranormale”, la rivista del CICAP, avevano pubblicato un articolo in cui mettevano a confronto la situazione della scolarità italiana con quella di altri Paesi europei, lamentando il fatto che, a paragone con essi, abbiamo un numero di diplomati e laureati relativamente basso.
Feci loro notare che, a mio parere il punto veramente dolente non era quello, ma il fatto che la preparazione, la cultura di un diplomato di oggi è all’incirca equivalente a quella di una quinta elementare di cinquant’anni prima (e, anche se ora il pensionamento mi ha liberato dalle preoccupazioni inerenti al mondo della scuola, dubito che la situazione sia cambiata, se non in peggio).
Portai loro l’esempio di mia madre, era nata nel 1918, e come titolo di studio non era andata oltre la quinta elementare, tuttavia era una donna che si era fatta una cultura attraverso numerose letture, per esempio, più di una volta mi ha citato Il placido Don di Solochov, un testo a cui credo un ragazzo di oggi munito di diploma, non si accosterebbe nemmeno per sbaglio.
Fu un dialogo tra sordi, anzi, se permettete, direi un dialogo con dei sordi, risposero alla mia lettera commentando le statistiche che citavano il numero dei diplomi e delle lauree, ma, se a un diploma o anche a una laurea non corrisponde un’effettiva preparazione, sono solo dei mendaci pezzi di carta.
Potete dirmi che sono un laudator temporis acti (si, a scuola ho imparato anche il latino), ma penso proprio che se non si cercherà di porvi rimedio, la situazione peggiorerà sempre di più.
NOTA: Nell’illustrazione, il monumento equestre a Potsdam di Federico II di Prussia, il grande protagonista della guerra dei sette anni.
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