8 Ottobre 2025
Appunti di Storia

Socialismo fascista: i sindacalisti confederali e la rivoluzione corporativa

di Pietro Cappellari

 

Nonostante la persistenza di una vulgata antifascista ed antiitaliana che impedisce la conoscenza del nostro passato e, in particolare, quella della rivoluzione mussoliniana, non passa giorno che tesi non ortodosse siano affermate coraggiosamente. Tesi che contribuiscono ad accelerare il crollo del Muro di Protezione Antifascista eretto dai “gendarmi della memoria” in difesa delle loro menzogne. Una di queste tesi è quella che definisce il fascismo come l’unica forma di socialismo attuabile in Italia. E, se si studia tutta la parabola mussoliniana, si trovano molti documenti a sostegno di questa realtà.

Senza, in questo caso, scomodare le origini di sinistra del fascismo – ampiamente esposte nel nostro Fiume trincea d’Italia[1], al quale rimandiamo il lettore – segnaliamo un interessante studio di Antonio Alosco che fa luce su un tema imbarazzante per tutto l’antifascismo: quello della adesione di tanti marxisti alla rivoluzione mussoliniana. Un’adesione che va ben oltre il “semplice” consenso di massa che il Regime ebbe, ma si articolò su un piano superiore, ossia si sposò con una coscienza politica che vide nel fascismo, per l’appunto, l’unica forma di socialismo realizzabile in Italia. Qualcosa di esplosivo per chi non conosce cosa fu in realtà la rivoluzione mussoliniana.

Il testo di Alosco – La Confederazione Generale del Lavoro (CGL) dalla lotta di classe al corporativismo, che dovrebbe essere letto e compreso da tanti dirigenti dell’attuale CGIL[2] – ci narra la parabola di illustri esponenti del sindacalismo confederale dal marxismo alla realtà corporativa come prese forma negli anni ’30.

Se sappiamo – o, almeno, si dovrebbe sapere – che i sindacalisti rivoluzionari furono le colonne portanti del primo fascismo, nulla – almeno a livello “ufficiale” – è mai trapelato sulle posizioni assunte da quelli riformisti, i dirigenti di primo piano della CGL, dopo la costituzione del Regime e l’inizio della rivoluzione corporativa. Alosco, per l’appunto, ci ricorda “una storia oscurata ma esemplare”, partendo da Rinaldo Rigola, il fondatore e capo indiscusso della Confederazione Generale del Lavoro, il più importante sindacato italiano prima dell’avvento del fascismo.

La CGL nacque durante il Congresso costitutivo presso la Camera del Lavoro di Milano (20 Ottobre – 1° Novembre 1906). La scelta del capoluogo lombardo fu un’ipoteca sulla impostazione programmatica che il nuovo sindacato avrebbe assunto: quella riformista. Infatti, a Milano, sia all’interno del PSI che nel sindacato, da poco era prevalsa questa tendenza, contro la quale avevano combattuto i sindacalisti rivoluzionari del calibro di Arturo Labriola e Walter Mocchi, già contestatori del riformismo turatiano che vincolava le attività del Partito Socialista Italiano.

Lo scontro tra sindacalisti riformisti e quelli rivoluzionari fu inevitabile, con quest’ultimi che videro sconfitte le proprie tesi, sulle quali erano confluiti anche i repubblicani, che non ottennero più di 53.000 voti, mentre gli avversari riuscirono a conquistare ben 114.000 preferenze. A questo punto la rottura. I sindacalisti rivoluzionari abbandonarono l’assise costituendo poi un proprio movimento, il Comitato Nazionale della Resistenza (Parma, 3 Novembre 1907) dal quale prenderà forma l’Unione Sindacale Italiana (Modena, 23-25 Novembre 1912).

Il 15 Gennaio 1907, Rinaldo Rigola venne eletto Segretario generale della CGL. Originario di Biella, classe 1868, ebanista, operario tessile, era già un personaggio di enorme spessore politico, tra i primi aderenti al Partito Operaio prima e al Partito dei Lavoratori (futuro PSI) poi. Per un incidente sul lavoro aveva perso progressivamente la vista ed aveva conosciuto il carcere per il suo impegno politico. Esule per sfuggire alla cattura da parte dello Stato democratico e liberale, rientrò in Italia solo nel 1900, dopo la sua provvidenziale elezione alla Camera dei Deputati con il Partito Socialista.

Il suo esordio nel PSI lo vide tra i rappresentanti dell’ala intransigente facente capo ad Enrico Ferri. Rigola, tuttavia, ebbe modo di smarcarsi dai rivoluzionari ortodossi e già nel Congresso Nazionale del PSI di Imola (6-9 Settembre 1902), nonostante rappresentasse la corrente massimalista, aveva aperto ad una eventuale fiducia del Partito Socialista ad un Governo Zanardelli-Giolitti, chiedendo quindi la fine del fuoco di sbarramento dei rivoluzionari contro tutti i Governi “borghesi” a prescindere.

 

Rinaldo Rigola

 

Posizioni “intermedie” che Rigola ribadì anche al Congresso del PSI di Bologna (8-11 Aprile 1904), quando criticò sia i rifomisti di Leonida Bissolati che i rivoluzionari, rivendicando la possibilità, attraverso le riforme, di ottenere una migliore condizione del proletariato, prendendo nel contempo le distanze dalle teorizzazioni sulla necessità della violenza tipiche dei massimalisti.

Con l’accordo del 9 Ottobre 1907, PSI e CGL firmarono un patto d’azione che, in pratica, subordinò il sindacato alla politica.

Le profonde divergenze ideologiche che paralizzavano la vita del Partito Socialista Italiano arrivarono al punto di rottura al Congresso di Milano (21-25 Ottobre 1910), quando la tesi riformista “moderata” di Filippo Turati (di apertura solo ai repubblicani e ai radicali) vinse sulla tesi rifomista “a più ampio raggio” di Leonida Bissolati (favorevole ad una collaborazione condizionante i Governi “borghesi”). Quest’ultimo, sconfitto, decise di abbandonare i lavori dell’assemblea e la Direzione dell’“Avanti!”, subito affidata al turatiano Claudio Treves. Ma la vittoria di Turati fu di breve durata, in quanto all’orizzonte stava sorgendo l’astro di un giovane rivoluzionario destinato a cambiare la storia del PSI… e dell’Italia: Benito Mussolini.

Il 27 Settembre 1911, il PSI e la CGL proclamarono uno sciopero generale per protestare contro la Guerra di Libia. Bissolati, che tale guerra aveva accettato, finì espulso al successivo Congresso di Reggio Emilia (10-12 Luglio 1912) ad opera del rivoluzionario Mussolini, decisione contro la quale né Rigola né Turati, sempre meno influenti sugli assetti del Partito Socialista, riuscirono ad opporsi efficacemente.

Iniziò così un periodo di difficili rapporti tra un PSI rivoluzionario e una CGL riformista, come ben dimostrano le polemiche seguite alla Settimana Rossa di Ancona (7-14 Giugno 1914), quando il clima insurrezionale, senza precedenti, era stato congelato dal passo indietro della Confederazione Generale del Lavoro che aveva sospeso lo sciopero generale senza nemmeno avvisare il Partito Socialista[3].

Dopo lo scoppio della Grande Guerra (28 Giugno 1914), a sinistra si aprì progressivamente il dibattito su “cosa fare”, visto che il granitico pacifismo ad oltranza tipico del socialismo cominciò ad essere messo pesantemente sotto accusa, dapprima dai repubblicani, poi dai sindacalisti rivoluzionari. Una polemica che arrivò fin all’interno della CGL. Anche nel PSI scoppiò la crisi: Mussolini iniziò a parlare di “neutralità attiva e operante”, scatenando una “guerra” senza precedenti con i compagni del Partito Socialista. L’espulsione del giovane rivoluzionario fu consequenziale.

Successivamente, lo stesso Rigola si fece sostenitore del superamento della “neutralità assoluta”, distaccandosi così dal PSI, affermando solennemente: «Per la guerra a fianco all’Austria, faremo la rivoluzione; per la guerra con finalità puramente nazionalistiche, le subiremo; in una guerra di difesa in caso di invasione, per l’indipendenza nazionale, saremmo in prima linea»[4].

Nell’Estate 1918, quando la CGL fece un’apertura al Governo Orlando per l’inclusione dei suoi rappresentanti nella Commissione per lo studio dei problemi postbellici, i dirigenti del PSI insorsero e riuscirono a far passare in Direzione confederale un ordine del giorno di Argentina Altobelli che sconfessava questa apertura, provocando una serie di dimissioni del Direttivo miseramente sconfitto. Si concludeva così, nel Settembre 1918, l’avventura di Rinaldo Rigola alla guida della Confederazione Generale del Lavoro. Davanti alla messa in minoranza, preferì dare le dimissioni irrevocabili.

Il nuovo Segretario generale, Lodovico D’Aragona, già braccio destro di Rigola, confermò l’impostazione politico-programmatica della precedente gestione. Iniziava però il Biennio Rosso 1919-1920 e tutti rimasero abbagliati dai sogni rivoluzionari che giungevano dalla Russia. Anche un riformista del calibro di D’Aragona che, nel Settembre 1920, all’apice della mobilitazione prerivoluzionaria operaia, non esitò a sottoscrivere a Mosca un ordine della III Internazionale con cui si promuoveva la costituzione di una nuova internazionale sindacale da contrapporre a quella socialista-riformista di Amsterdam. Il documento respingeva ogni ipotesi riformista promuovendo invece la strada della lotta di classe al fine di instaurare una società comunista: gli operai dovevano unirsi sotto la guida di una organizzazione rivoluzionaria e procedere senza indugi all’insurrezione per la rivoluzione sociale, la dittatura del proletariato e la costituzione della Repubblica Universale dei Soviet.

Del resto, sembrava che il bolscevismo fosse alle “porte di casa” e in molti preconizzavano l’inevitabile avvento del bolcèvismo anche in Italia. I riformisti ovunque segnavano il passo davanti all’euforia rivoluzionaria dei massimalisti e le insurrezioni, le sommosse e le violenze tipiche del Biennio Rosso.

Anche la CGL, come era naturale, con i suoi due milioni di iscritti, fu partecipe a questa stagione di violenza ed attesa rivoluzionaria[5].

Senonché questa rivoluzione da tutti annunciata tardava a concretizzarsi, tra una CGL in attesa dell’evento e, soprattutto, un PSI incapace ad uscire fuori dal determinismo ideologico secondo il quale l’avvento del bolcèvismo era naturale ed imminente, senza che fosse necessario organizzare alcunché.

Ciò però stancò le masse lanciate in lotte senza esito, in violenze senza precedenti, lasciate poi sole in balia della repressione dello Stato liberale e democratico (cfr. le stragi proletarie del 1919-1920). Tutto ciò, inoltre, fomentò la reazione alla violenza comunista che sarà, nel prime settimane del 1921, politicamente rappresentata dal fascismo e militarmente dallo squadrismo che, ovunque, mise in rotta le Guardie Rosse e i sovversivi tutti.

Davanti alla reazione squadrista che sconvolse tutte le organizzazioni di sinistra, D’Aragona si svegliò dal suo sonno rivoluzionario e, finalmente comprendendo l’errore commesso e, soprattutto, presa coscienza del fallimento dell’esperimento bolcèvico in Russia, decise di staccare la CGL dall’Internazionale sindacale di Mosca e ritornare sotto quella socialdemocratica di Amsterdam, provocando ovviamente velenose polemiche ed invettive da parte dei massimalisti e dei comunisti, in primis con il gruppo di Gramsci e Togliatti della rivista “Ordine Nuovo”, la più attenta al mondo operaio.

Ma, ormai, per la sinistra italiana si era aperto il baratro del fallimento storico: il Biennio Rosso era tramontato nella rovina e il fascismo si imponeva, con lo squadrismo e il consenso, ovunque, anche tra i militanti del PSI e delle Leghe rosse che registravano paurosi sbandamenti e clamorosi “cambi di casacca” di massa.

La guerra civile invocata dai massimalisti durante il Biennio Rosso portava ora il conto. Da saldare subito.

La disgregazione finale del movimento socialista prima della Marcia su Roma si ebbe poco prima dell’insurrezione fascista, quando vennero espulsi dal PSI tutti i riformisti che, guidati da Rigola, Turati e Matteotti, fondarono il Partito Socialista Unitario, al quale aderirono quasi tutti i dirigenti sindacali della CGL.

I riformisti, svincolati dalla sudditanza ai massimalisti, ripresero la loro libertà di azione promuovendo l’idea della costituzione di un Partito del Lavoro (non marxista, sul modello laburista) e lanciandosi in un’operazione importantissima: l’unità sindacale.

Proprio su questi due progetti, il PSU – incredibilmente per chi non conosce la storia – si trovò sulla stessa linea d’onda del nuovo Presidente del Consiglio Benito Mussolini.

Infatti, Mussolini, fin dall’Estate 1919 si era battuto per la creazione di un fronte laburista e più volte, nei mesi seguenti, aveva tentato l’operazione, sempre rigettata dai suoi interlocutori di sinistra che nulla volevano concedere al fascismo e a un “traditore” del calibro di Mussolini. Si pensi che, nel Novembre 1921, quando nacque ufficialmente il PNF, tra i nomi papabili per la nuova organizzazione vi fu anche quello di Partito Nazionale del Lavoro.

Quando Rigola si dimise da Segretario generale della CGL nell’Estate del 1918, Mussolini e il sindacalista nazionale Edmondo Rossoni, espressero la loro solidarietà. Rossoni – futuro capo dei sindacati fascisti – sottolineò in quella occasione: «Rigola e i suoi uomini si intenderebbero più facilmente con noi che non i leninisti o estremisti del Partito [Socialista]» (cfr. “Il Popolo d’Italia”, 9 Agosto 1918). Evidenzia Alosco: “L’intervista Mussolini-Rossoni costituiva un chiaro invito a rompere gli indugi e distaccarsi definitivamente dal PSI nella prospettiva di una unione con i sindacati nazionali sul modello del Labour Party[6].

Edmondo Rossoni

 

Il programma della CGL, del resto, non era certamente molto lontano da quello sansepolcrista, anzi, quest’ultimo – scritto da Mussolini e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris – ne era stato influenzato. Il futuro Duce, su “Il Popolo d’Italia” del 10 Dicembre 1919, arrivò a sostenere: “Il programma esposto da Rigola è la copia pura e semplice del programma dei tanto odiati e diffamati Fasci di Combattimento”.

Che il fascismo nacque a sinistra non può più costituire una novità, ma la sostanza di una dottrina universale: in Inghilterra, ad esempio, il fascismo inglese nacque per iniziativa del poliedrico Oswald Mosley, esponente di primo piano del Labour Party.

PSU e Mussolini convergevano quindi su un programma comune.

Così il progetto per l’unità sindacale, che avrebbe permesso la creazione di una nuova potente associazione indipendente dai partiti (e cioè dal PSI), unendo CGL, sindacalisti rivoluzionari e sindacalisti fascisti, superando il concetto di lotta di classe e il miraggio della dittatura del proletariato, riconoscendo l’esistenza degli interessi nazionali – e, quindi, collettivi – al di sopra di quelli individuali.

I massimalisti, ormai in balia degli eventi, gridarono al tradimento: “Per salvare i sindacati dalla reazione fascista si vuole svuotarli di ogni contenuto ideale e porli per l’appunto sullo stesso terreno di equilibrio e di compromesso, che è proprio del fascismo”, denunciarono rabbiosi.

Un progetto del genere, battezzato da Gabriele d’Annunzio, giunse sul tavolo di Mussolini il 1° Dicembre 1922. Ma fece poca strada essendo arrivato fuori tempo massimo. Ormai il fascismo aveva conquistato il potere, la CGL era in balia degli eventi e sempre più pallida copia di quello che era stata in passato.

Contro l’ipotesi di apertura a sinistra insorsero le correnti conservatrici che appoggiavano il nuovo Governo, gli squadristi e gli stessi sindacalisti fascisti che, ormai vittoriosi su tutta la linea, con decine di ex militanti rossi che passavano quotidianamente nelle loro fila, non avevano nessuna intenzione di condividere il potere con i confederali e “resuscitarli”.

Per la CGL – che si era allontanata dal PSI prima della Marca su Roma, pretendendo la totale autonomia dai partiti; che già nel Novembre 1922 aveva aperto ad una collaborazione tecnica con il nuovo Governo di unità nazionale guidato da Mussolini – fu l’ultima occasione per giuocare un ruolo in quell’Italia che cambiava così velocemente.

Mussolini fu favorevole al progetto di unità sindacale come fase iniziale di una più ampia operazione di allargamento a sinistra del suo Governo, nel quale troppo peso avevano componenti considerate “spurie” come quelle popolari, per non parlare dei conservatori. Tanto è vero che il 2 Dicembre 1922, il Presidente del Consiglio aveva offerto a Gino Baldesi – a capo della Federazione Nazionale degli Elettrici – l’incarico di Ministro del Lavoro. Baldesi, che come la maggioranza dei sindacalisti riformisti del PSU aveva votato contro il Governo solo per disciplina di partito e non in qualità di esponente sindacale, aveva in linea di massima accettato. Solo per le forti opposizioni interne al Governo l’offerta non venne formalizzata.

Anche nei mesi seguenti, la dirigenza della Confederazione Generale del Lavoro seguì con attenzione l’evolversi della situazione, esprimendo apprezzamenti per le politiche sociali annunciate dal Fascismo.

Ancora alcuni mesi dopo, Mussolini tentò di inglobare i confederali nel suo Governo. Il 24 Luglio 1923, durante un incontro con D’Aragona, Buozzi, Cabrini e Colombino – tutti dirigenti di primo piano della CGL – il Presidente del Consiglio “aveva fatto balenare l’idea” che proprio Bruno Buozzi potesse ricoprire la carica di Ministro[7].

Era noto che Gregorio Nofri, l’amministratore de “La Giustizia” – organo del PSU –, avesse frequenti incontri con dirigenti fascisti. Incontri approvati da tutta la dirigenza del Partito Socialista Unitario – Filippo Turati in primis – e ai quali partecipò anche Tito Zaniboni (futuro attentatore alla vita di Mussolini). Offerte ministeriali che saranno rinnovate a D’Aragona e a Colombino anche dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Aldo Finzi[8].

 

Gino Baldesi

 

Il dirigente della CGL Emilio Colombino, sulle colonne de “La Giustizia”, organo ufficiale del PSU, nell’Agosto 1923 scriveva eloquentemente che, dopo il fallimento dei vecchi partiti, non esisteva altra via che “procedere ad una possibile collaborazione col partito superfluo, quello fascista”, ricevendo ovviamente le critiche dei compagni meno propensi a questa clamorosa “svolta”. Colombino non si fece intimorire e rispose per le rime, evidenziando come il fascismo non fosse soltanto manganello e olio di ricino, ma una realtà più complessa e mai analizzata. Una realtà generata dalla storia del nostro Paese: la guerra aveva prodotto il comunismo italiano “bestialmente infantile”, questo a sua volta aveva generato il fascismo. Davanti al Governo di Mussolini una sola via era percorribile: la creazione del Partito del Lavoro d’intesa col il PNF[9]. Solo un forte movimento laburista non marxista avrebbe potuto immettere i lavoratori all’interno della vita dello Stato e promuovere le necessarie e fondamentali riforme sociali per l’elevazione del proletariato.

I colloqui tra Mussolini e i dirigenti confederali continueranno anche nei mesi seguenti, provocando le vivaci proteste dei comunisti e dei massimalisti contro i “traditori”. Non sarà un caso che all’incontro del 6 Ottobre 1923 non partecipò Bruno Buozzi, sempre più deciso ad una chiara scelta di militanza antifascista.

Comunque, il delitto Matteotti del 10 Giugno 1924 interruppe ogni rapporto e scavò un fossato d’odio – fomentato dagli antifascisti – incolmabile. Un delitto preterintenzionale, sia detto per inciso, cui Mussolini fu totalmente estraneo e che ebbe come primo risultato il collasso dei rapporti intessuti proprio dal Presidente del Consiglio con il Partito Socialista Unitario e la Confederazione Generale del Lavoro[10].

Davanti ai successi del Governo Mussolini – che dopo la burrasca quartarelliana era riuscito a risalire la china e imporsi sulle opposizioni – le tensioni all’interno della CGL si acuirono sempre più per l’intransigenza e le intemperanze dei comunisti che si videro tre loro dirigenti espulsi nel Consiglio direttivo del 5 Febbraio 1925.

 

Lodovico D’Aragona

 

Ma ormai si trattava di dispute ideologiche lontane dalla realtà del Paese. Si pensi che la CGL nel 1924 era solo la pallida copia della possente organizzazione sindacale del Biennio Rosso: dai due milioni di iscritti del 1920 pronti alla rivoluzione era crollata in quell’anno ad appena 270.000 iscritti sconfitti e sfiduciati. Una emorragia di militanti – in gran parte in fuga verso i sindacati fascisti! – che sembrava non avere freni: “Quella che era considerata la ‘spina dorsale’ del sindacato, la FIOM (metallurgici), non riusciva nemmeno a convocare gli organi direttivi e tantomeno a svolgere il suo ruolo, per l’abbandono continuo e costante di dirigenti di primo piano dell’organizzazione, molti dei quali passavano armi e bagagli al sindacato fascista[11].

E coloro che giustificano questo collasso parlando di “violenza squadrista” sanno di mentire. Qui la violenza non c’entra nulla, siamo già sul terreno del consenso e della libera scelta davanti una realtà schiacciante: quella del trionfo del fascismo e della possibilità di incidere sulla società con riforme sociali concrete a favore del proletariato che il Governo Mussolini sembrava assicurare.

Il 25 Agosto 1925, Gino Baldesi, tra i più autorevoli esponenti della CGL, sull’“Avanti!” non esitava a scrivere: “Sono sempre quello che ebbe il coraggio di avvicinarsi all’On. Mussolini e mettersi a sua disposizione per un programma di ravvicinamento e di pacificazione sociale. Potrebbe ripresentarsi la stessa occasione e allora io sono sempre pronto. Si possono avvicinare le masse al fascismo ma ci vuole buona volontà[12].

Davanti alla consunzione della CGL, al Segretario generale D’Aragona non restò altro da fare che dimettersi. Sarà sostituito il 23 Gennaio 1926 da Bruno Buozzi, messo a capo di un sindacato ormai marginale, con solo 200.000 iscritti senza più prospettive.

In questo frangente, il 4 Novembre 1925, il Deputato del PSU Tito Zaniboni aveva maldestramente attentato alla vita di Mussolini scatenando una serie impressionante di reazioni, tra le quali lo scioglimento immediato del Partito Socialista Unitario (14 Novembre) che, comunque, sia detto per inciso, venne immediatamente ricostituito da Claudio Treves, Giuseppe Saragat e Carlo Rosselli con il nome di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (29 Novembre).

Il nuovo Segretario generale Bruno Buozzi riportava la Confederazione Generale del Lavoro nell’orbita dell’antifascismo politico: il 25 Novembre 1925 da Deputato aventiniano del PSU aveva orgogliosamente votato contro alla concessione dei pieni poteri a Mussolini. In realtà, tutti i Parlamentari del Partito Socialista Unitario (ora PSLI) avevano votato contro, anche D’Aragona e Baldesi, pur specificando che il loro voto era per disciplina di partito e non effettuato come esponenti sindacali (che, quindi, potevano continuare il loro rapporto con il Governo).

Ma erano mesi rivoluzionari. Mussolini, con le “leggi fascistissime” seguite alla sedizione aventiniana e ai vari attentati subiti, imboccò la strada della costruzione del Regime, procedendo ad una stretta contro tutte quelle associazioni contrarie al nuovo “ordine nazionale”.

Fu così che, azzerata ogni possibilità di azione politica. Buozzi scelse la via dell’esilio, emigrando in Francia nell’Autunno del 1926, dove costituì un “ufficio” per tenere in vita artificiosamente la CGL.

Sul fuoriuscitismo italiano in Francia doveroso è fare una precisazione. Di là di quanto eloquentemente affermato dal repubblicano Carmelo Puglionisi nel suo libro-denuncia Sciacalli cui rimandiamo il lettore[13], i fuoriusciti erano tutto tranne che dei perseguitati politici in pericolo di vita come affermavano pubblicamente. Si erano esiliati volontariamente in terra francese non perché oggetto di chissà quali violenze, ma solo perché, essendosi imposto il Governo Mussolini e per loro praticamente azzeratasi ogni possibilità di incidere sul presente – anche per liquefazione spontanea delle proprie organizzazioni –, credettero di rifugiarsi all’estero per condurre la loro solitaria battaglia contro il Fascismo che si faceva Regime, fomentando l’opinione pubblica straniera con menzogne sulla reale situazione in Italia. Venendo meno ogni possibilità di rovesciare – democraticamente o violentemente – il Governo Mussolini, tentarono la carta dello straniero, per isolare l’Italia e progettare – sempre con l’aiuto degli stranieri – la caduta dell’odiato Fascismo.

In Italia, secondo quando dichiaravano, vi era una dittatura spietata, si fucilavano gli operai in massa, si arrestavano e violentavano gli oppositori. A prova di tutto ciò vi erano le centinaia e centinaia di antifascisti che fuggivano da questo “inferno”. In questo contesto, fu importante celebrare le fughe, come si era fatto con quella dell’anziano Filippo Turati il 12 Dicembre 1926, la cui presenza in Francia era fondamentale per dimostrare l’assunto dei crimini del Fascismo. Insomma, Turati in Italia non rischiava nulla, ma era bene la sua “disperata” fuga in Francia per mere esigenze di propaganda. Così per Buozzi ed altri. Chi non si piegò ai voleri dei fuoriusciti restando in Italia fu considerato un traditore.

Buozzi, abbiamo detto. Nell’Ottobre 1926, il Segretario generale della CGL si era recato ad Amsterdam per partecipare ad una riunione della Federazione Sindacale Internazionale (socialdemocratica), regolarmente autorizzato dalla Regia Questura di Torino. Raggiunse poi Parigi dove ricevette una lettera del fratello che lo consigliava di rimanere nella Capitale francese in quanto, dopo l’attentato al Duce di Bologna (31 Ottobre 1926), vi erano state una serie di rappresaglie squadriste, tra cui la devastazione della sede della FIOM di Torino di cui Buozzi era Segretario. Fu così che il noto sindacalista – che in Italia non rischiava nulla in realtà – decise di rimanere in Francia e da lì continuare a dirigere quel che restava della CGL, nonostante che gli organi direttivi del suo sindacato non avessero assolutamente autorizzato un’operazione del genere. Credere che Buozzi fosse ricercato dalla Polizia o dagli squadristi (citando un’aggressione subita il 27 Febbraio 1924) appare una evidente forzatura. Fu una sua decisione personale, ben comprendendo che per lui gli spazi di manovra politica in Italia si erano praticamente azzerati.

Di certo, dopo l’attentato di Bologna e la promulgazione delle “leggi fascistissime” instauranti il Regime, partiti e sindacati vennero messi nelle condizioni di inagibilità pratica ad operare e si sciolsero come neve al sole. Nel Novembre 1926, anche alla sede di Milano della CGL vennero messi da parte della Polizia i sigilli in quanto considerata organizzazione operante in contrasto con il nuovo “ordine nazionale”. Tuttavia, alcune settimane dopo, per intervento di Mussolini interessato a continuare il dialogo con i sindacalisti riformisti, i sigilli furono tolti.

I dirigenti sindacali confederati a questo punto, abbandonati dal capitano, furono incerti sul come procedere, ma si poneva in modo impellente una decisione definitiva, dato l’assottigliamento non solo numerico della CGL con il passaggio di altre Federazioni di categoria, come quella del Libro, diretta da Tomaso Bruno, nei ranghi dei sindacati fascisti.

[…] Dopo il rifiuto di Buozzi di rientrare in Italia e riprendere il suo ruolo di guida, non restava altra soluzione – a parere di Maglione [Giovanni Battista, che lo sostituiva temporaneamente alla guida della CGL in Italia] – che la cessazione di ogni attività[14].

Lo stesso Baldesi propose a Rossoni, a capo dei sindacati fascisti, la confluenza della Confederazione Generale del Lavoro nelle organizzazioni mussoliniane con un “passaggio motivato”[15]. Alla proposta si oppose però Maglione che, il 4 Gennaio 1927, fece approvare dalla direzione confederale che presiedeva lo scioglimento della CGL in una associazione di studio di problemi sindacali: l’Associazione Nazionale Studi “Problemi del Lavoro” (ANS).

A questa decisione cercò di opporsi Buozzi con il suo “ufficio” parigino, ricevendo decisa risposta da parte di Rigola e D’Aragona che non esitarono a scrivere un comunicato in cui si accusava l’esule volontario di tentare “di far risorgere a Parigi l’organo che in Italia è morto, in seguito all’abbandono della gran massa dei lavoratori[16].

Quando si parla di ordine di scioglimento di partiti e sindacati da parte di Mussolini – ordine che, tanto per essere chiari, mai vi fu – si comprenda l’assunto di sopra che da solo spiega la liquefazione spontanea delle associazioni non fasciste davanti al Testo Unico delle Leggi di PS del Novembre 1926 e il passaggio di tanti loro soci nelle fila del PNF.

Ormai consolidatosi, nel consenso generale degli Italiani, il Regime, anche i fuoriusciti antifascisti cessarono progressivamente ogni attività di rilievo, se non quella delle invettive tra loro, e lo stesso Buozzi si diede al commercio di salumi. Della situazione ne approfittò il PCdI, cui non pareva vero trovare un ruolo a sinistra, visto che fino ad allora era stato limitato dalla presenza del PSI e del PSU, ben più forti e radicati sul territorio. Fu così che i comunisti, il 20 Febbraio 1927, annunciarono la nascita di una fantomatica nuova CGL, con a capo tale Paolo Ravazzoli. Lo scontro con i socialisti riformisti esuli in Francia fu consequenziale e trascese in violenza, come la rissa scoppiata tra comunisti e confederali al Convegno di Parigi della Federazione Sindacale Internazionale (socialdemocratica).

La condanna dei comunisti dei socialdemocratici sarà lapidaria:

 

I rottami emigrati dei vecchi gruppi piccolo-borghesi i quali professano uno pseudo-fascismo verbale (Partito Socialista riformista di Turati, Partito massimalista, Partito Repubblicano, gruppo sindacale di Buozzi, ecc.) quando si creerà una situazione rivoluzionaria acuta, cercheranno sicuramente, sia per iniziativa propria, sia per invito del fascismo, ma sempre nell’interesse della conservazione del capitalismo, di far deviare il movimento e le azioni politiche delle masse dal loro obiettivo principale: l’abbattimento del fascismo e l’instaurazione della dittatura del proletariato[17].

Accuse, sia detto per inciso, che valevano una condanna a morte. Non parrà strano, quindi, che molti antifascisti, proprio negli anni ’30, cominciarono a rientrare in Italia e, in molti casi, a fiancheggiare il Regime. Alcuni anni dopo, nell’Agosto 1936, troveremo Togliatti e compagni a scrivere il penoso Appello ai fratelli in camicia nera…

Bruno Buozzi

 

Ma torniamo alla CGL, al Gennaio 1927. Il manifesto di scioglimento-trasformazione in Associazione Nazionali Studi “Problemi del Lavoro” (ANS) della Confederazione Generale del Lavoro fu firmato da tutta la direzione: Rinaldo Rigola, Carlo Felice Azimonti, Ludovico Calda, Emilio Colombino, Giovanni Battista Maglione, Ettore Reina e Lodovico D’Aragona, anche se quest’ultimo poi si defilò. Riprese le pubblicazioni “Il Lavoro” di Genova, sotto la direzione di Giuseppe Canepa (fondatore del Partito Socialista Riformista Italiano), che divenne il quotidiano dell’associazione.

Maglione, ultimo Segretario della CGL in sostituzione del fuggitivo Buozzi, fu nominato Segretario generale del nuovo sodalizio politico-culturale. Simbolo di una continuità CGL-ANS indiscutibile.

Erano mesi febbrili in campo sociale: iniziava la rivoluzione corporativa e, il 21 Aprile 1927-VII, veniva promulgata l’eccezionale Carta del Lavoro. I confederali non poterono che osservare e seguire attentamente questa svolta sociale, approvandola in pieno: “Il Regime fascista ha fatto una legge certamente ardita sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro. In questa legge vediamo raccolti dei principi che sono pure i nostri […]. Dunque nessuna opposizione di principio a queste riforme. Parimenti noi saremmo in contraddizione con noi stessi se ci ponessimo contro lo Stato corporativo e la Carta del Lavoro, che il Regime fascista intende realizzare”[18].

Ufficialmente la Associazione “Problemi del Lavoro” si poneva come obiettivo lo studio “dei problemi del lavoro in rapporto alle direttive e alle mete fissate dal Fascismo ai diritti dei lavoratori […]. Tutte le riforme che il Fascismo ha attuato in campo sindacale sono di una imponenza che nessuno può negare”. Riforme sociali, sia evidenziato, che andavano “più in là” di quanto i confederali avessero mai sperato[19].

L’Associazione ex-CGL venne immediatamente riconosciuta dal Regime, così come venne autorizzata la sua rivista ufficiale: “I Problemi del Lavoro” (primo numero: 25 Marzo 1927-V, con tanto di indicazione di Era Fascista).

Così debuttava l’organo dell’ANS:

 

Il Regime fascista è una realtà e la realtà va tenuta in considerazione. Questa realtà è scaturita anche da principi nostri i quali si sono imposti. La politica sindacale del Fascismo, per esempio, si identifica sotto certi riguardi con la nostra. Noi non eravamo d’accordo con lo Stato liberale per il suo non intervento nell’attività economica […]. Parimenti noi saremmo in contraddizione con noi stessi se ci ponessimo contro lo Stato corporativo e la Carta del Lavoro che il Regime intende realizzare. Basta richiamare i nostri voti e i nostri progetti del passato per stabilire che siamo tenuti a contribuire con la nostra azione e la nostra critica alla buona riuscita di tali esperimenti[20].

Di là dell’apporto culturale, gli ex confederali si impegnarono anche all’interno dei sindacati fascisti, come Ludovico Canepa che, dopo essere stato autorizzato da Mussolini a ripubblicare il giornale socialista genovese “Il Lavoro” di cui era editore, con i sindacalisti in camicia nera fondò l’Unione Nazionale dei Porti.

Davanti a tutto ciò Buozzi, nel suo esilio volontario parigino, non poté che masticare amaro, subissato anche dalle accuse dei compagni rimasti, invece, tranquillamente in Italia. Scriveva Colombino:

Accuse che si compendiano nella tua [di Buozzi] assenza ingiustificata dall’Italia e nell’avere organizzato un “Ufficio” all’Estero senza nessuna pratica di utilità. Tu ti sei creato un bersaglio artificiale, ti sei creato un manifesto di comodo, delle dichiarazioni politiche che esistono soltanto nella tua fantasia, e poi giù a palle infuocate come un Don Chisciotte in miniatura. Tu abusi di un’arma polemica che il tempo ritorcerà contro di te. Adesso te lo dico io cosa dice il manifesto e qual è il programma dell’Associazione per lo Studio dei “Problemi del Lavoro”. Il manifesto nelle sue premesse teoriche chiarisce il nostro concetto di lotta di classe, fa le sue riserve sui modi dell’intervento fascista, rileva l’importanza delle leggi sindacali che si stanno fucinando, riservandosi il diritto di critica, e aderendo alla realtà qual è imposta a tutti in Italia, dichiara di voler costituire un’Associazione indipendente per sviluppare attraverso pubblicazioni un programma con intenti, sicuro, proprio così, di pacificazione nel Paese. È forse un delitto cooperare a questo contesto piuttosto di spingere la guerra a fondo senza nessun altro risultato che il disastro comune? Si sono rappacificate Francia e Germania, possono bene riappacificarsi gli Italiani nell’interesse comune del Paese. Siamo ancora alla mentalità del tanto peggio, dei caporettisti, o siamo alla mentalità dell’indifferenza degli interessi dell’Italia nel mondo? Io sono per fare opera di conciliazione e di Croce Rossa nello stesso tempo e per te questo non può essere novità.

[…] E ora una parola di consiglio, se è permesso. Tutto il mondo cambia. Cambino le situazioni anche nel nostro Paese. Cercate di essere più sereni e rallentate, nel vostro interesse e nell’interesse dell’Italia, quelle vostre campagne che non possono produrre alcun effetto che un inasprimento all’interno. I profughi che combattono lo straniero occupato in Patria hanno avuto sempre ragione. I profughi che combattono contro il proprio Paese in gestazione politica hanno sempre torto. La Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa insegnano. Noi, comunque si voglia giudicare il passato, siamo al punto della ricostruzione politica del Paese. A questo lavoro dobbiamo cooperare perché solo a ricostruzione politica compiuta andremo verso la democrazia e verso la libertà. Io non ti inseguo e la pianto[21].

Tra i fondatori dell’Associazione Studi “Problemi del Lavoro” va sicuramente annoverato Angiolo Cabrini, tra i promotori del Partito Socialista Riformista Italiano, Deputato, fondatore della Camera del Lavoro di Piacenza, una delle prime in Italia. Tra i più importanti studiosi della CGL, fu interventista e Volontario di Guerra (“interventista intervenuto”, come si diceva allora). Da qui la collaborazione con i sindacati fascisti fu consequenziale al suo impegno in favore del proletariato.

Davanti alle vaste riforme sociali intraprese dal Fascismo, Rigola fu eloquente, arrivando a sostenere che il Regime non aveva distrutto il sindacalismo, ma aveva accolto nelle Corporazioni le vecchie organizzazioni sindacali, con la conseguenza che “c’è oggi in Italia almeno tanta organizzazione sindacale, nei prestatori d’opera, quanto ve ne era al tempo in cui il movimento libero aveva raggiunto il suo massimo sviluppo. Più sindacalismo oggi di ieri, malgrado la guerra ai sindacati, sembra un paradosso, ma è così”. Il “sindacato unico di diritto pubblico segna un progresso sulla pluralità dei sindacati”. La rivoluzione in atto era da considerarsi “un esperimento grandioso nei cui confronti è necessario abbandonare ogni atteggiamento di arcigna diffidenza, favorendone anzi la riuscita e cercando di ottenere le correzioni necessarie ad una vera e migliore educazione sindacale delle masse”[22].

Tra gli antifascisti queste posizioni crearono sconcerto e rancore. Se ne ritrova traccia anche sui giornali italiani, come l’attacco del redattore-capo dell’“Avanti!” Pio Gardenghi che, nel Settembre 1927, aveva pubblicato un articolo polemico ai confederali collaborazionisti del Regime. Non passerà tanto tempo che anche Gardenghi si dovette ricredere: nel Giugno 1928 scriverà una lunga lettera al Direttore de “Il Popolo d’Italia” Arnaldo Mussolini con cui aderiva al fascismo considerandolo la “continuità storica del socialismo[23]… Finendo, quindi, sulle stesse posizioni dell’Associazione Studi “Problemi del Lavoro”, come si evince dalle parole di Maglione e compagni, secondo i quali le realizzazioni del Fascismo sfociavano nel socialismo, secondo i desideri dei confederali[24].

“Naturalmente un plauso pieno gli ex confederali espressero alla concessione delle 40 ore settimanali del settore industriale (il famoso Sabato fascista), che il sindacato rosso non aveva neppure pensato di richiedere ai Governi precedenti e alla controparte, attuate solo dopo decenni nel secondo dopoguerra”[25].

Un giudizio positivo su cui convergevano sempre più antifascisti come, ad esempio, Franza Weiss, studioso di filosofia e di economia, già collaboratore della rivista di Turati “Critica Sociale” che il 1° Novembre 1927 non aveva avuto timore di scrivere:

Il fascismo è assai meno antitetico al socialismo di quanto comunemente si crede. In più il fascismo fa non poca cosa a vantaggio della idealità caldeggiata dal socialismo. Terzo, se un giorno (ed io come socialista naturalmente me lo auguro) il socialismo dovesse trionfare di questo formidabile avversario, indubbiamente […] esso sarebbe costretto a copiare e fare suoi alcuni dei più notevoli capisaldi fascisti […]. E lecito dire che il fascismo è un socialismo mascherato o, il che è lo stesso, un socialismo di estrema destra, ultramoderato, un socialismo insomma che starebbe al socialismo cosiddetto gradualista e riformista come questo sta al socialismo intransigente e rivoluzionario? Secondo la comune e corrente terminologia politica, certo che no […]. Il fascismo abbonda in “arditezza politica”. In altre parole come “dottrina” il suo rivoluzionarismo sarà anche timido, ma come “realizzazione” esso è energico e audace […]. Il fascismo rende servizi analoghi alla causa socialista[26].

Mussolini tentò addirittura il recupero dei fuoriusciti che più stimava, tra cui lo stesso Bruno Buozzi, abbraccio che il noto sindacalista esule volontario in Francia respinse, non risparmiandosi comunque l’attacco diretto dei comunisti “parigini” che, per bocca di Togliatti, in un discorso del 12 Settembre 1929 al Comitato Centrale della FGCI non esitò a dichiarare: «Fascismo e socialdemocrazia hanno basi ideologiche comuni […]. La risposta di Buozzi all’offerta di Mussolini di tornare in Italia non è stata la risposta di uno che lotta contro il fascismo, ma di quella di un mercante che patteggia, che chiede di più, che è disposto a collaborare»[27].

L’Associazione Studi “Problemi del Lavoro” affiancò il Regime durante la Guerra d’Etiopia (1935-1936) e la Cruzada spagnola (1936-1939), ignorando invece completamente le Leggi razziali del 1938 (il ché dimostra, ancora una volta, la marginalità di questa legislazione all’interno della dottrina fascista).

Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale corrispose al canto del cigno dell’Associazione dei confederali collaborazionisti. Nel 1940, la rivista “Problemi del Lavoro” dovette sospendere le pubblicazioni ufficialmente per mancanza di carta, mentre il sodalizio venne sciolto su richiesta del Prefetto di Milano il 30 Giugno 1941.

 

Ma Buozzi, che fine aveva fatto?

Avevamo lasciato il noto sindacalista esule volontario a Parigi in balia degli eventi, duramente contestato dai comunisti ed accusato, al pari di tutti i riformisti, di social-fascismo. Per Buozzi, quindi, la situazione si fece insostenibile, messo in minoranza anche all’interno del Partito Socialista dove aveva preso il sopravvento la corrente di Pietro Nenni.

Sarà arrestato dalla Gestapo nel Febbraio 1941 a Parigi, deportato in Germania e da qui, magnanimamente, consegnato alle Autorità italiane che lo confinarono confortevolmente a Montefalco (Perugia). Dopo la caduta del Fascismo, fu proprio Badoglio a “resuscitarlo” e a porlo a capo della Confederazione Sindacale (ex Fascista) dei Lavoratori dell’Industria epurata dai mussoliniani più in vista. Tale nomina fu avversata dal PCdI ormai proiettato in un’ottica di egemonia totale delle masse proletarie e non disposto a resuscitare un sindacato riformista.

Il sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio sentenziava su Buozzi:

 

Ho compreso che non se ne cava nulla […]. E si sentono dire cose da mettersi le mani nei capelli. C’è da augurarsi che egli non le dicesse in pubblico, per carità di classe e unità di azione. Egli giunge a dire, ad esempio, che la più forte delle leggi fasciste, dei contratti di lavoro, e la Carta del Lavoro sono ottime cose, alle quali basterà cambiare qualche parola – per la forma – e potremo apporre le nostre firme[28].

Parole di condanna che, nel clima di guerra civile scatenato dai comunisti, costituivano un serio e preoccupante – per Buozzi – atto di accusa. Guarda caso, il noto sindacalista fu arrestato a Roma dalla Gestapo e fucilato sommariamente, all’atto della ritirata dalla Capitale il 4 Giugno 1944:

 

Dopo la sua morte, si spianava la strada all’egemonia del sindacato sempre perseguita con ogni mezzo dai comunisti.

A conclusione di questa tragica e oscura vicenda, mi sembra quanto meno doveroso riferire le convinzioni della moglie Rina e dei suoi più stretti collaboratori sindacali (Giovanni Canini e Arturo Chiari) nonché quelle dei suoi compagni di partito anch’essi di ispirazione riformista (Matteo Matteotti, figlio di Giacomo, e Mario Zagari), i quali hanno sempre avanzato il sospetto che l’arresto di Buozzi, il 13 Aprile 1944, fosse dovuto ad una “soffiata” per toglierlo di mezzo. Molto probabilmente il nome del delatore non si saprà mai, ma le circostanze e gli indizi raccolti da Aldo Forbice nella sua puntuale ricostruzione della morte dell’ex Segretario generale della CGL sono impressionanti[29].

Si concluse così la storia della Confederazione Generale del Lavoro, il più forte sindacato italiano prima dell’avvento del fascismo.

Del gruppo dirigente dell’Associazione Studi “Problemi del Lavoro”, in verità, si ha notizia di un’attività politico-sindacale di Giovanni Battista Maglione anche durante la RSI, con la pubblicazione del bollettino “Socialità” in quel di Novara. Poi, l’arrivo dei carri armati degli Alleati e l’inizio di una nuova era in cui la ricostituita CGL, con il nome di CGIL, finì interamente dominata dai comunisti. Da ciò nasceranno quelle frizioni che, negli anni seguenti, porranno fine all’unità sindacale (che era tra i principi fascisti) e la nascita dei sindacati come li conosciamo oggi: non soggetti riconosciuti giuridicamente come pure prevede la Costituzione mutuando la legislazione fascista (art. 39), ma enti sempre più al servizio della politica.

A termine di questo breve ma illuminante saggio, venga evidenziato che l’adesione o la collaborazione dei dirigenti della Confederazione Generale del Lavoro con il Regime fascista va valutata nell’ottica della difesa dei lavoratori e nell’appoggio ad un’azione politica che, per la prima volta, elevando il Lavoro ad elemento centrale dell’economia, dava vita ad uno Stato sociale moderno e all’avanguardia, foriero di positivi sviluppi per le condizioni di tutto il proletariato. I confederali collaborazionisti, quindi, vissero e videro il fascismo come l’unica forma di socialismo attuabile in Italia. “Cambiarono bandiera”, “tradirono”, secondo i compagni più intransigenti. Basterà solo dire che nessuno di loro, a differenza di quanti si scoprirono antifascisti nel 1945, ebbe in cambio nulla dal Regime: né posizioni di potere, né privilegi, né denaro.

 

Pietro Cappellari

(Direttore della Biblioteca di Storia Contemporanea

“Goffredo Coppola” di Paderno – Forlì)

 

NOTE

[1] Cfr. P. Cappellari, Fiume trincea d’Italia. Il diciannovismo e la questione adriatica: dalla protesta nazionale all’insurrezione fascista 1918-1922, Herald Editore, Roma 2014.

[2] Cfr. A. Alosco, La Confederazione Generale del Lavoro (CGL) dalla lotta di classe al corporativismo. Una storia oscurata ma esemplare, D’Amico, Nocera Superiore 2023.

[3] Cfr. P. Cappellari, La Settimana Rossa del 1914: dallo sciopero rivoluzionario alla guerra rivoluzionaria, in P. Cappellari, Armando Casalini “Apostolo della redenzione operaia” vittima della rappresaglia antifascista al delitto Matteotti (1883-1924), Herald Editore, Roma 2024, pagg. 121-134.

[4] Cit. in A. Alosco, La Confederazione Generale del Lavoro, cit., pag. 55.

[5] Sul Biennio Rosso cfr. P. Cappellari (a cura di), Da Vittorio Veneto alla Marcia su Roma. Il Centenario della Rivoluzione fascista, Passaggio al Bosco, Firenze 2019-2020, voll. I e II.

[6] Cit. in A. Alosco, La Confederazione Generale del Lavoro, cit., pag. 82.

[7] Cfr. Ibidem, pag. 86.

[8] Cfr. Ibidem, pag. 87.

[9] Cfr. Ibidem, pag. 113.

[10] Per questo aspetto cfr. F. Scalzo, Il delitto Matteotti. Una trappola per il Duce, Herald Editore, Roma 2020. Sul delitto Matteotti in generale rimandiamo al fondamentale E. Tiozzo, Matteotti senza aureola. Il delitto, BastogiLibri, 2017.

[11] A. Alosco, La Confederazione Generale del Lavoro, cit., pag. 88.

[12] Cit. in Ibidem, pag. 70.

[13] Cfr. C. Puglionisi, Sciacalli. Storia dei fuoriusciti, L’Arnia, 1948.

[14] Ibidem, pag. 102 (corsivo nostro).

[15] Ibidem, pag. 103.

[16] Cit. in Ibidem, pag. 104 (corsivo nostro).

[17] Cfr. Comunicato del Comintern del 1930, cit. in Ibidem, pagg. 96-97 (corsivo nostro).

[18] Cit. in A. Alosco, La Confederazione Generale del Lavoro, cit., pag. 107 (corsivo nostro).

[19] Cfr. in Ibidem, pag. 108 (corsivo nostro).

[20] “I Problemi del Lavoro”, a. I, n. 1, 25 Marzo 1927-V (corsivo nostro).

[21] Cit. in Ibidem, pagg. 114-115 (corsivo nostro).

[22] Cit. in Ibidem, pagg. 126-127 (corsivo nostro).

[23] Cit. in Ibidem, pag. 128.

[24] Cfr. Ibidem, pag. 130.

[25] Ibidem, pag. 131.

[26] Cit. in Ibidem, pag. 145 (corsivo nostro).

[27] Cit. in Ibidem, pag. 144 (corsivo nostro).

[28] Cit. in Ibidem, pag. 98 (corsivo nostro).

[29] Ibidem, pag. 99.

2 Comments

  • Giorgio Vitali 25 Luglio 2025

    Durante il processo Priebke emerse la “Questione Buozzi”, le ragioni della cui morte restano ancora un mistero. Per trattare l’argomento fu indetta una conferenza stampa alla quale parteciparono alcuni storici e Radio Radicale, presso lo studio dell’avv. PERA di Roma che si stava interessando di questa morte avvolta nel mistero. Aldo Forbice, unico autorevole storico della vita di B. Buozzi non si presentò. Forbice venne poco dopo premiato a Ravenna con un Premio Giornalistico.

  • Giuseppe 27 Luglio 2025

    Eccellente saggio (lectio magistralis), del sempre ottimo Pietro Cappellari.

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