10 Ottobre 2024
Economia

Sharing Economy: opportunità o inganno neocapitalista? – prima parte – Roberto Pecchioli

Parte prima

I primi anni del XXI secolo sono caratterizzati da cambiamenti continui. Nulla è com’era pochi anni fa. L’imperativo, come nell’aneddoto del leone e della gazzella, è correre, muoversi, cambiare. Ne ha colto l’essenza un intellettuale francese, Pierre-André Taguieff, che ha coniato il neologismo “bougisme”, una sorta di moto perpetuo che si fa ideologia dominante, sbocco di un progressismo degradato, che accompagna efficacemente il neoliberismo: il culto del cambiamento fine a se stesso. L’economia ne è il terreno privilegiato, e tra le mille novità a cavallo tra tecnologia, innovazione, nuovi diritti, postmodernità, si fa strada un’idea che ha preso il nome di economia della condivisione, o, nell’inevitabile neolingua anglo globalizzata, sharing economy.

E’ opportuno iniziare a parlarne, a capire, per poi cercare di emettere un giudizio che non sia né entusiasmo sciocco- quello di che ama il bougisme contemporaneo e applaude al nuovo in quanto tale – né chiusura a priori in nome del passato. Innanzitutto, cerchiamo di darne una definizione e tracciarne un profilo. La sharing economy si considera un nuovo modello basato sul riuso, il riutilizzo, il noleggio e la condivisione di beni e servizi, non più sull’acquisto e la proprietà. Secondo i fautori, il suo centro è l’elemento relazionale, ovvero la fiducia reciproca e la collaborazione.

Lo scambio avviene nelle due modalità peer-to-peer (P2P), ovvero alla pari, tra soggetti che non sono (o non dovrebbero essere) imprese e B2C, business to consumer, cioè il rapporto diretto tra l’azienda che fornisce un bene o un servizio e chi lo riceve. Gli esempi più comuni riguardano l’affitto breve di camere o appartamenti, la fornitura di pasti, l’uso o il noleggio in comune di un mezzo di trasporto. Il volano è, ovviamente, la tecnologia informatica, la diffusione di Internet e l’utilizzo di massa delle applicazioni (app) via telefono cellulare. L’idea forza è che formando delle comunità virtuali (community) di consumatori e utenti si possano condividere sia beni tangibili (casa, automobile) sia immateriali, come il tempo libero.

Cinque sono i settori chiave dell’economia cosiddetta collaborativa: l’alloggio, il trasporto di persone, i servizi alle famiglie, i servizi tecnici professionali e la finanza, ovvero la ricerca di fondi. Ad uno sguardo superficiale, è una modalità che fuoriesce dagli schemi del mercato, riavviando quell’economia circolare in cui professionisti, artigiani, consumatori e normali cittadini mettono a disposizione tempo, beni e competenze, con la finalità di creare legami virtuosi con l’aiuto della tecnologia informatica. Sembrerebbe una variante morbida della decrescita, o dell’economia vernacolare, conviviale, non calcolabile in denaro, non dipendente dal profitto, un meritorio tentativo di riportare le persone, come singoli e come comunità, al centro dei processi economici.

La manona niente affatto invisibile del mercato ne ha tuttavia profondamente mutato i termini, attraverso il dominio esercitato dalle cosiddette piattaforme. Infatti, l’elemento che tiene uniti i vari aspetti dell’economia della condivisione (la tecnologia, la comunità, l’apparente convenienza) è la formula della piattaforma informatica digitale. In teoria- questa è la versione dei sostenitori – i servizi non vengono erogati dall’alto verso il basso, ma sono le persone ad incontrarsi per scambiare o condividere. Ci sono due enormi punti neri nella narrazione: il primo è che la comunità è virtuale, non è fatta di persone in carne e ossa, ma di indirizzi IP e di interessi. Il secondo, più pesante dal punto di vista economico, è che la piattaforma è gestita, ovvero posseduta da qualcuno.

Si tratta di uno spazio virtuale in cui un potente organizzatore/promotore, da remoto, pressoché senza spese e responsabilità mette in contatto i soggetti interessati traendone un profitto. La favola della disintermediazione è dunque contraddetta dalla tecnologia, poiché i nuovi, potentissimi intermediari sono i gestori-inventori delle piattaforme digitali, che detengono i dati di milioni di consumatori fornitori o produttori di servizi (prosumers). Il successo di Airbnb, Uber e Blablacar è tutto qui.
Airbnb è la piattaforma che permette di affittare case, stanze, pernottamenti brevi. L’idea venne a due informatici in difficoltà: pensarono di affittare una camera di casa loro con annunci in rete, attrezzandola con materassini gonfiabili. Oggi, il boom di Airbnb ha pochi uguali nel mondo. Non è un caso che all’internauta interessato a informazioni sulla sharing economy i grandi motori di ricerca offrano in prima pagina testi tratti dal sito di Blablacar. La piattaforma mette in contatto persone interessate a risparmiare sulle spese di viaggio, condividendo l’automobile con altri o accettando un passaggio da una sorta di azienda di trasporto virtuale che si forma per il tempo necessario al tragitto. Si tratta della generalizzazione del sistema Uber, ovvero i taxi privati prenotati attraverso la piattaforma in rete o l’applicazione scaricata sullo smartphone.

Sarebbe interessante valutare quali e quanti settori economici, quanti posti di lavoro si stiano distruggendo attraverso l’uso dello smartphone, che fornisce a poco prezzo, talvolta addirittura gratis servizi e persino beni. Pensiamo all’orario ferroviario, alle cartine stradali, alle calcolatrici, enciclopedie, lettori DVD, macchine fotografiche, apparecchi per radiofonia, alla torcia, alle rassegne stampa e a mille altre “comodità” racchiuse in quel piccolo oggetto che teniamo nel taschino. Una rivoluzione che nessuno sembra in grado di controllare, quanto meno per mettere al riparo i consumatori da abusi, trappole, truffe e fare in modo che i profitti non finiscano totalmente nelle mani di chi possiede le piattaforme, nonché agire affinché i gestori/fornitori,i nuovi super ricchi, paghino le giuste imposte.

Il principio che il grande pubblico non riesce ancora a comprendere, abbagliato dalle opportunità, vere o presunte, è che se qualcosa è gratis, significa che il prodotto siamo noi. E’ la nostra vita, gusti, idee, propensioni che viene profilata e venduta per i più vari interessi. La dimostrazione è nelle vicende relative alla compravendita dei dati di milioni di utenti da parte delle piattaforme digitali e dei mezzi di comunicazione in rete (Facebook, Google)

Tra i tanti errori del governo Renzi ci fu anche il fervore sprovveduto con cui innalzò la nuova economia digitale, fino alle testuali parole del ministro Franceschini nel 2016: “La grandezza di Airbnb sta nella sua capacità di agire come moltiplicatore di luoghi d’arte”. Le cose stanno in tutt’altro modo, giacché il tecno entusiasmo ignora le conseguenze degli affitti brevi sulle città d’arte, sui centri storici, trasformati in cattedrali del consumo e dell’intrattenimento mordi e fuggi, quartieri spopolati, l’intero mercato immobiliare terremotato con un clic.

La tanto esaltata auto imprenditorialità di troppe persone frustate dalla crisi, dai bassi redditi da lavoro o dalla disoccupazione è solo la vetrina umanitaria e moralista che nasconde il dilatarsi di un mercato giungla sempre più in mano a grandi gruppi, con la conseguente crisi di migliaia di operatori “regolari”, la distruzione di interi comparti, la difficoltà di tenere sotto controllo ciò che si muove nelle imperscrutabili vie della grande Rete. Un enorme problemaè la mancanza di normative, al di là di un recente libretto di linee guida dell’Unione Europea. Né è dato sapere quale evasione fiscale nascondano Airbnb, Uber e Blablacar, oltre, naturalmente, alle altre piattaforme, alcune delle quali nascono, si spostano tra i domini informatici e muoiono. Quanto ai rischi per gli utenti, vale il detto secondo cui Internet è meno sicuro di Los Angeles Est il sabato notte.

Le prospettive sono di una crescita straordinaria del nuovo meccanismo, i cui ricavi europei sono stati stimati per il 2015 in almeno 28 miliardi, con crescita annua a due cifre, trascinata dalle preferenze del pubblico più giovane. Entro il 2025, il giro d’affari mondiale potrebbe raggiungere addirittura i 570 miliardi di euro. La constatazione è che, una volta di più, il mercato ha volto a proprio vantaggio un meccanismo nato per essere un’alternativa alle sue regole e alla mercificazione generale. In più, la difficoltà, da parte degli Stati, di imporre regole, standard, difendere l’economia nel suo complesso e gli stessi consumatori attratti dal basso costo di molti servizi, fa della sharing economy una sorta di terra di nessuno irta di pericoli.

Pensiamo al settore della ricerca di fondi, che può aiutare chi ha buone idee a metterle in pratica, ma sicuramente attira imbroglioni di ogni specie, o al rischio di affidare la propria casa a qualcuno attraverso piattaforme del tutto irresponsabili dei propri iscritti o viaggiare privi di coperture assicurative e garanzie professionali. L’importanza del settore ha indotto un grande fondo internazionale della vecchia economia come Index Ventures a investire cento milioni di dollari su Blablacar.

In sostanza, i tre principi cardine dell’economia collaborativa, il riuso, il riciclo o l’uso ottimale dei beni; l’accesso anziché la proprietà; la fiducia comunitaria in un mondo interconnesso sono stati prontamente assorbiti dal mercato-Zelig, che ha ricondotto tutto al gran mare del profitto, nell’assenza dei poteri pubblici, obiettivamente in difficoltà ad intervenire nell’ambito di una rete sempre più complessa, deterritorializzata, priva di regole , dotata di nodi e connessioni sempre più potenti.

Roberto Pecchioli

2 Comments

  • Pierino Porcospino 3 Maggio 2018

    Il problema di queste piattaforme, è che mentre noi formiche stiamo qui a farci concorrenza per chi offre il servizio più allettante a un centesimo in meno, il banco vince sempre.

  • Pierino Porcospino 3 Maggio 2018

    Il problema di queste piattaforme, è che mentre noi formiche stiamo qui a farci concorrenza per chi offre il servizio più allettante a un centesimo in meno, il banco vince sempre.

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