11 Dicembre 2024
Libreria Punte di Freccia Recensione

San Babila la nostra trincea – Mario Michele Merlino

Comincia a piovere. Foglie brune a terra. Grigio. Segnali di un autunno tardivo. Mi siedo sotto il tendone del bar, di fronte al mercato rionale di via Andrea Doria. Un caffè. Ho un appuntamento con un camerata di cui avevo perso tracce e cognizione dal tempo dell’università. La vita, a tratti, simile all’eterno ritorno. Prendo dalla busta il libro di Cesare Ferri, titolo San Babila, la nostra trincea. E’ ancora presto. Comincio a leggere la Prefazione (a cura dell’autore). Già la nuova veste tipografica della copertina m’intriga. Bravo Enzo, il nostro editore. Ricorda – o mi fa tornare a mente – la copertina di E venne Valle Giulia. Sempre bastoni e barricate nella nostra fuga all’indietro, quando si aveva la giovinezza nelle braccia e nelle gambe e l’ardore e l’ardire nella mente e nel cuore. Romantici, a raccontarci perché ‘gli altri’ hanno raccontato troppo di noi, troppo di malevolo di deformante tanto che non ci riconosciamo in quell’immagine bugiarda, come se lo specchio si fosse appannato o rimandasse il volto di un altro, a noi estraneo.

Milano, Roma. Non era certo la stessa cosa farsi ‘camerati’ sotto la pressione avversaria. E’ vero sempre i pochi contro i tanti, sempre sangue generosamente versato, quello nostro e quello d’altri, del medesimo colore e forse non soltanto, sparso inutilmente quando ci riflettiamo sopra tardivi e un po’ patetici, come lo sono i vecchi (qui parlo per me chè Cesare appartiene ad altra generazione. Sette anni fanno la differenza). Milano, però, era stata la ‘capitale’ ideale e non solo del Fascismo. Qui tutto ebbe inizio. Fu nella piazza San Sepolcro che il 23 marzo del ’19 vennero fondati i Fasci di Combattimento e, in altro piazzale, prima i morti della guerra civile esposti come monito inutile poi lo scempio di ‘Ben e la Clara’ appesi pei calcagni come si fa per il bestiame macellato segnò il destino di venti anni ed oltre della nostra storia. La storia d’Italia e la vita e le scelte di alcuni di noi, che si fecero carico di non dimenticare…

E Milano fu l’inizio degli anni cupi e tristi e feroci con quel maledetto pomeriggio del 12 dicembre – ormai si fa prossimo l’anniversario, quasi mezzo secolo – quando, al telegiornale delle ore venti, annunciarono che era scoppiata una caldaia, poi parlarono della bomba posta nel salone della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana (e sempre con una piazza dobbiamo confrontarci) e i suoi sedici corpi riversi sul pavimento. Mio padre aveva appena acceso il televisore, mia madre in cucina ed io portato via dagli uomini dell’Ufficio Politico. E Cesare ricorda la strage di Brescia del 1974 ove, scrive, era stato indiziato per piazza della Loggia (ancora un’altra piazza ed altri morti). Un’eco che ci accomuna… Di più: rammemora come ‘nel 1980 frequentavo una ragazza che abitava alla periferia di Milano’ e che i servizi segreti, tramite dei comunisti loro collaboratori, avessero in progetto di eliminarlo proprio mentre vi si recava per ‘accollargli’ quella strage. Anche qui la memoria corre ad una telefonata – la più bella dichiarazione d’amore che conservo in me come strano dono – con una giovane esile donna bionda che mi confidò di far parte del commando che aveva deciso di farmi fuori. Il rosso e il nero.

(A pagina 65, capitolo 11, un giovanissimo militante della Giovane Italia arriva in corso Monforte e riferisce, trafelato e sconvolto, dell’esplosione della bomba. Cesare ed altri corrono sul luogo della strage e assistono al via-vai delle ambulanze, formando parte di un cordone per tenere distante la gente. Mentre tutto questo avveniva, mentre Milano si trasformava nella città dell’elaborazione del lutto della strage delle inchieste ora tolte insabbiate riprese, il sottoscritto ascoltava Riccardo suonare al pianoforte Die Fahne hoch in personalizzata versione jazz. Lo preciso per dimostrare solo come la percezione di quell’evento segna un ulteriore spartiacque generazionale).

Due generazioni, la prima che consegna all’altra l’eredità di Valle Giulia, in una mattinata di sole quasi fosse già primavera, ma anche il fallimento suo malgrado di quella gioiosa goliardica rivolta generazionale, che fu l’effimera stagione del ’68; la seconda che venne immersa, anch’essa suo malgrado, in quel grigiore umido e nebbioso di un autunno da molti annunciato ‘caldo’ e che, se poi lo fu, lo divenne non per l’entusiasmo e la speranza di cambiamenti imminenti e radicali, ma per il sangue sparso e l’odio sparso a piene mani. Una eredità a cui ognuno dovette sottostare e pagarne il prezzo. Due città a fondale di rappresentazioni diverse e, al contempo, simili – l’urlo delle sirene i bastoni e le spranghe levate l’odore aspro dei lacrimogeni e il bagliore improvviso della molotov sull’asfalto, comune la fierezza non la speranza, ecco l’aggressione sotto casa il peso della P38 in tasca voglia disperata di uccidere e farsi uccidere… Due forme espressive – ‘l’uomo abita nella casa del linguaggio’, suggerisce il filosofo Martin Heidegger, preda del tempo e delle circostanze e creatore delle parole che danno il senso a quel medesimo tempo e alle sue circostanze.

Eppure – e, qui, sta il pregio primo del libro di Ferri, a mio parere – la forma espressiva colloca il senso del tragico di quegli anni quasi si trattasse di scenari mobili a fondo del palcoscenico. Spetta al lettore cogliere intendere lasciarsi coinvolgere ritrovarsi e riconoscersi. E i protagonisti, giovani allora in carne ossa sangue, sono gli attori che, calcando la scena, interpretano un romanzo picaresco nazionalpopolare salgariano o si animano come usciti dalla staticità di una striscia di Tex Willer (ricordate come si dibattesse ‘a sinistra’ se ‘aquila della notte’ fosse da considerarsi un fascista?) o di altro eroe del fumetto. Marionette scomposte i cui fili venivano da altri manovrati? Questa però è altra storia, dolorosa e di cui forse fummo tutti vittime il più delle volte generosamente inconsapevoli. Essa appartiene alla dietrologia, agli storici, a coloro che si fanno carico di svelare complotti trame strategie, servizi segreti massoneria Mossad e, spingendosi oltre, la Rivolta contro il mondo moderno e l’età del kali-Yuga… A quelli come noi, a Cesare e ai suoi camerati, lassù a Milano, contava ‘cavalcare la tigre’ con mente spavalda e cuore avventuroso…

Un pregio, dicevo, che si traduce anche in una sorta di frattura con i romanzi antecedenti – mi riferisco, ad esempio, a Una sera d’inverno (l’ho prestato, non ricordo più a chi, e non m’è tornato indietro) o a Vite di cristallo, ma ciò vale, sempre a mio giudizio, anche per gli altri. M’insegnava l’amico Ugo Franzolin, durante le nostre chiacchierate davanti una tazza di tè, nei pressi di Fontana di Trevi, che il narrare è descrizione di luoghi accadimenti persone e, soprattutto, l’utilizzo del discorso diretto. Deve essere, il lettore, guidato a riconoscere e condividere le idee le emozioni le visioni dello scrittore, ma nella illusione d’esserci arrivato da solo. La scrittura è un intrigo, una avventura, la scoperta di qualcosa che, alfine, ci appartiene… Altro è il saggio dove le proposizioni sono tutte affermative, punti esclamativi, dichiarazione d’intenti. Grazie, Ugo di queste tue conversazioni, di quel gusto garbato verso la parola. Così in San Babila c’è un Cesare Ferri che si ritrova in buona compagnia, con i pirati di Sandokan e del Corsaro Nero, con i guasconi di Cyrano signor di Bergerac e il sogno immenso e folle di don Chisciotte, con Black Macigno e Pecos Bill. I pensieri sono rapidi concisi battono l’asfalto levano il braccio teso salgono con l’adrenalina e le ondate ormonali sono essi stessi sangue ossa e animo (‘Scrivi con il tuo sangue e scoprirai che il sangue è spirito’, ammoniva Nietzsche).

Un romanzo, una raccolta di racconti non si raccontano, si invita semmai il lettore ad apprezzarne il valore la riuscita o, al contrario, a mostrarne limiti e pecche. D’altronde alcuni degli episodi qui narrati, pur se in forma di romanzo, appartengono alle vicende alle cronache all’altra storia di un’area (allora, pur con le sue cento sfaccettature, si poteva ancora parlare avvertire sentirsi partecipi di un mondo di uomini di idee e di modelli di comportamento, lo stile, e del loro comune destino). Archeologia rispetto ad oggi, certo, ma che sanno ancora essere di richiamo nella desertificazione ideale di questo malo presente. Ed anche questo è un merito e non da poco, anche se lo scrittore rifiuta – così dovrebbe essere – un coinvolgimento barattoli di colla e rotoli di manifesti. Virgilio scrive alla corte di Mecenate e Lorenzo il Magnifico, a Firenze, dilettava se stesso e gli amici componendo versi. Altri tempi, si dirà e lo erano di fatto. Oggi o adulazione o sdegnoso silenzio oppure… Cesare Ferri – e non lui soltanto – con le sue ‘storie’, le nostre storie.

Un’ultima annotazione: Robert Brasillach, che fu animo nobile e sensibile di scrittore e di poeta, guardava ai giovani del suo tempo definendoli, ne Il nostro anteguerra, attraverso quel carattere nuovo che andavano esprimendo e cioè ‘spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione’. Personalmente amo l’irriverenza (motivo primo per cui conservo i capelli lunghi e bianchi, simile al Babbo Natale di queste prossime festività) e credo che ciò valga anche per Cesare, liberatosi di qualche dolente nota di troppo e di qualche pensiero gravoso di troppo. Ecco perché mi sono letto il suo libro in una sola notte, convivo con il sonno altalenante, e mi accorgo – ho la presunzione – che ci portiamo dietro, forse un po’ patetici e ridicoli, la nostra giovinezza e qualche scampolo di nostalgia frammenti di entusiasmo briciole di prendere a calci i barattoli di notte e tirare sassi ai lampioni…

san babilaCesare Ferri

San Babila

La nostra trincea

Edizioni Settimo Sigillo

Euro 25.

8 Comments

  • Enrico 1 Dicembre 2015

    Sanbabilini e Pariolini erano in gran parte dei figli di papà, come molti capetti di sinistra, ma con meno cultura. I fasci-bar sono stati partedella rovina del movimento e della destra italiana perennemente incerta tra reazione e rivoluzione, esercito in utili idioti per il sistema che poi se ne è sbarazzato con ogni mezzo.
    Onore solo a coloro che hanno tenuto un comportamento coerente e corretto.

  • Enrico 1 Dicembre 2015

    Sanbabilini e Pariolini erano in gran parte dei figli di papà, come molti capetti di sinistra, ma con meno cultura. I fasci-bar sono stati partedella rovina del movimento e della destra italiana perennemente incerta tra reazione e rivoluzione, esercito in utili idioti per il sistema che poi se ne è sbarazzato con ogni mezzo.
    Onore solo a coloro che hanno tenuto un comportamento coerente e corretto.

  • mario michele merlino 2 Dicembre 2015

    leggendo il libro emerge una realtà più diversificata come vuole il concetto di complessità della storia. io non vi farei una classificazione di ceto, ma di spirito di sfida di coraggio di coerenza. oggi è facile ridurre parte di quel mondo in mazzieri e bombaroli, ma in quegli anni chi tenne la piazza fece testimonianza si giocò sangue e carcere furono loro e non i professorini, me compreso se vuoi, a caccia della citazione e dell’autore da sbandierare

    • Enrico 2 Dicembre 2015

      Saranno stati alcuni molto coraggiosi, ma la maggior parte di coloro che faceva parte di quegli ambienti si schierava a destra per puro spirito di contrapposizione o, peggio, per appartenenza ad un ceto sociale più elevato, rivendicando una superiorità solo esteriore ed economica, in fondo con una mentalità da borghese o piccolo borghese e senza curarsi di una reale superiorità a livello etico o anche solo culturale.
      D’altronde a Roma e Milano in quegli stessi ambienti si è avuto un travaso di elementi dalla politica alla malavita.
      Pur senza giungere a certi estremi si può dire che il motto:
      “anche se tutti…noi no!” non sia stato onorato poi da molti.

  • mario michele merlino 2 Dicembre 2015

    leggendo il libro emerge una realtà più diversificata come vuole il concetto di complessità della storia. io non vi farei una classificazione di ceto, ma di spirito di sfida di coraggio di coerenza. oggi è facile ridurre parte di quel mondo in mazzieri e bombaroli, ma in quegli anni chi tenne la piazza fece testimonianza si giocò sangue e carcere furono loro e non i professorini, me compreso se vuoi, a caccia della citazione e dell’autore da sbandierare

    • Enrico 2 Dicembre 2015

      Saranno stati alcuni molto coraggiosi, ma la maggior parte di coloro che faceva parte di quegli ambienti si schierava a destra per puro spirito di contrapposizione o, peggio, per appartenenza ad un ceto sociale più elevato, rivendicando una superiorità solo esteriore ed economica, in fondo con una mentalità da borghese o piccolo borghese e senza curarsi di una reale superiorità a livello etico o anche solo culturale.
      D’altronde a Roma e Milano in quegli stessi ambienti si è avuto un travaso di elementi dalla politica alla malavita.
      Pur senza giungere a certi estremi si può dire che il motto:
      “anche se tutti…noi no!” non sia stato onorato poi da molti.

  • Felice Bellona 7 Novembre 2016

    Cesare Ferri è per me un personaggio (inteso come protagonista di un tempo, di una stagione politica, non certamente in senso caricaturale) che definire misterioso è dir poco.
    Sia chiaro, il libro mi è piaciuto, ritengo ci sia la maggior parte di vero in tutto il narrato, che disegna e ricorda luoghi e facce simbolo per l’area movimentista e non atomizzata di San Babila.
    Tuttavia – ed ecco il mistero – credo che Ferri non abbia detto tutto, che pure sarebbe stato doveroso apprendere.
    Senza tanti giri di parole, mi riferisco ad alcuni episodi non necessariamente legati al suo coinvolgimento giudiziario per Brescia, di cui è pur sempre importante sottolinearne l’affermata estraneità.
    Ad es., sa spiegarci perché Esposti in Pian del Rascino aveva con se la sua fototessera?
    Dal poco (o tanto) che Ferri gli dedica nel racconto sembra che tra i due vi fosse stata una grande amicizia, seppur breve e fugace, ma non sono descritti momenti di condivisione, politica e militare, in cui sarebbe lecito ipotizzare l’apprensione della foto da parte di Esposti e, soprattutto, il motivo per cui egli ne entrò in possesso.
    C’è poi, nel libro, un vuoto, anche temporale, considerando che l’autore si ferma al 1978: come e perché finì San Babila?
    Ma, soprattutto, quando finì, dov’era Ferri?

  • Felice Bellona 7 Novembre 2016

    Cesare Ferri è per me un personaggio (inteso come protagonista di un tempo, di una stagione politica, non certamente in senso caricaturale) che definire misterioso è dir poco.
    Sia chiaro, il libro mi è piaciuto, ritengo ci sia la maggior parte di vero in tutto il narrato, che disegna e ricorda luoghi e facce simbolo per l’area movimentista e non atomizzata di San Babila.
    Tuttavia – ed ecco il mistero – credo che Ferri non abbia detto tutto, che pure sarebbe stato doveroso apprendere.
    Senza tanti giri di parole, mi riferisco ad alcuni episodi non necessariamente legati al suo coinvolgimento giudiziario per Brescia, di cui è pur sempre importante sottolinearne l’affermata estraneità.
    Ad es., sa spiegarci perché Esposti in Pian del Rascino aveva con se la sua fototessera?
    Dal poco (o tanto) che Ferri gli dedica nel racconto sembra che tra i due vi fosse stata una grande amicizia, seppur breve e fugace, ma non sono descritti momenti di condivisione, politica e militare, in cui sarebbe lecito ipotizzare l’apprensione della foto da parte di Esposti e, soprattutto, il motivo per cui egli ne entrò in possesso.
    C’è poi, nel libro, un vuoto, anche temporale, considerando che l’autore si ferma al 1978: come e perché finì San Babila?
    Ma, soprattutto, quando finì, dov’era Ferri?

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