13 Dicembre 2024
Sapienza sedicimarzo68 Storia trentaottobre1922

ROMA, 16 marzo ’68: ma fu un “suicidio”? (seconda parte)

di Giacinto Reale

All’ingresso della Facoltà, seduto sulle scale, con aria abbacchiata, G riconobbe un volto noto: era Tonino, classico esempio di lumpenproletariat “fascista”, tanto semplice e buono quanto dotato di spavaldo coraggio.

Barese, si era trasferito da qualche tempo a Roma, e frequentava, si diceva, gli ambienti di Avanguardia Nazionale. Al saluto ed ai sorrisi amichevoli, rispose con una vera aggressione verbale: “E voi che ci fate qua? Che vi credete di fare?”

Qualcuno gli spiegò la situazione, e lui, a sua volta, parlò delle vicende romane, lasciando tutti un po’ stupefatti, per l’ingarbugliamento di convinzioni politiche, suggestioni tattiche e rivalità personali di un ambiente molto “effervescente”.
Poi si allontanò, zoppicando, perché quella notte a Giurisprudenza, che lui “occupava”, c’era stato un principio d’incendio e si era ferito nel tentativo di spegnere le fiamme. Così disse…

All’interno della facoltà, la prima cosa che colpì G fu il l’assoluto caos imperante: due-trecento attivisti romani e non che andavano su e giù per i corridoi, banchi rovesciati, sedie fatte a pezzi per ricavarne qualche “arma impropria”, finestre rotte, barricate improvvisate.

Faceva spicco qualche “pugilotto” della palestra di Angelino Rossi, qualche “volontario nazionale” del fratello Alberto e, soprattutto, un minaccioso gruppo di “profughi bulgari”, con impermeabili di pelle nera e “fruste” fatte con tubi di gomma.

Passò un po’ di tempo, e poi, tutti fuori: a Lettere c’era un’ assemblea nazionale degli studenti, e anche i giovani “nazionali” volevano parteciparvi: Cesare Mantovani, il Presidente del FUAN, si era preparato l’intervento, e la claque era lì, pronta.

Le cose, però, si rivelarono subito non essere così semplici: sulle scale di Lettere un folto gruppo di attivisti, con bastoni e spranghe era chiaramente pronto ad impedire l’ingresso.

G non era nella primissima fila, che era stata presa d’autorità da alcuni che per età e grinta proprio studenti universitari non parevano (i presunti profughi bulgari si erano, invece, volatilizzati), ed era a mani nude: a Bari aveva conosciuto zuffe e scazzottature, ma il “nodoso” (e anche qualcosa di peggio) sarebbe venuto solo dopo.

Comunque, “premeva”, con gli altri, e sembrava si stesse per sfondare, quando, all’improvviso, cominciarono a volare delle bottiglie di birra e coca cola: qualcuno gridò: “bottiglie molotov”, qualcun altro fu subito ferito dai proiettili volanti (tra i primi un Cavazzuti di Modena, col quale G aveva scambiato quattro chiacchiere in un’aula di Giurisprudenza), il gruppo si sbandò e retrocedette verso Giurisprudenza.

Mentre avveniva tutto questo, sulle scale del Rettorato, spettatori, c’erano una cinquantina di attivisti di Avanguardia e “Caravella”, che non intendevano compromettere il rapporto di “tolleranza” instaurato con gli occupanti di Lettere.

G era rimasto piuttosto sconcertato da questo atteggiamento, nonostante le spiegazioni di Tonino, ma non ci aveva fatto caso più di tanto: pensava che si poteva essere o non essere d’accordo, ma ormai bisognava applicare l’insegnamento crociano che ricordava di aver letto negli anni del Liceo: “Quando una guerra è dichiarata, la cosa migliore da fare è cercare di vincerla”.

L’istinto, comunque, ebbe la meglio, e, a ritirata iniziata, alcuni di quegli spettatori scesero le scale per “dare una mano”…era, però, troppo tardi: il gruppo degli originari attaccanti si era sfaldato, e la massa stava già correndo a rinchiudersi dentro Giurisprudenza,

G non aveva mai amato “indietreggiare”: incoscientemente attaccato a miti salgariani, preferiva “prenderle” che volgere le terga all’avversario, e così fece anche quella volta…con lui una quindicina dei suoi compagni d’avventura…arretrarono lentamente, e si ritrovarono, per questo, isolati sul piazzale, dove venivano avanti, in buon numero, i “compagni”; in prima fila un gruppo – si sparse la voce fossero “pisani” e “duri” – con caschi da minatore calzati, (era la prima volta che G li vedeva).

La situazione, quindi, metteva male: i “cinesi” in avanzata impedivano il rientro a Giurisprudenza, bloccandone in pratica l’accesso, mentre dai tetti della Facoltà assediata cominciarono a volare banchi e sedie sugli assalitori (pare che anche qualcuno dei compagni di G,“viaggiatori della notte”, si mostrasse, nell’occasione, buon tiratore); al cancello che sbarrava l’ingresso, scambio di bastonate e non solo; polizia assente.

I primi feriti (un banco in testa da una ventina di metri poteva fare molto male!) e la resistenza degli assediati provocò un indietreggiamento dei “compagni” che si disposero ad anello intorno alla facoltà…fu allora che un gruppo di missini spavaldamente scese sulle gradinate di Giurisprudenza, quasi a mettersi in posa, per una foto destinata a rimanere famosa, con Almirante e Caradonna.

Negli anni successivi, ogni volta che G avrebbe rivisto quella foto, stampata anche sui manifesti, non avrebbe potuto fare a meno di pensare che essa fosse prodotto di un “ritocco”.

Uno dei personaggi rappresentati (quello in giacca e cravatta, subito dietro Almirante) era partito con lui, su quello scassatissimo pullman, lo conosceva bene, e non gli pareva proprio che avesse mai impugnato quel bastone che sembrava (come quello dell’altro attivista di fianco) piuttosto una “striscia bianca” aggiunta in un laboratorio fotografico: troppo “regolare” ed evidente, a differenza del bastone che, per esempio impugnano il ragazzo subito dietro e quello con il tricolore sulle spalle.
Dopo quasi due ore, l’arrivo di un forte contingente di Celerini e Carabinieri pone termine allo scontro: i “cinesi” tornano a Lettere, le forze dell’ordine entrano nella Facoltà di Giurisprudenza e identificano gli occupanti.

La contabilità dello scontro segna, tra gli altri, Oreste Scalzone, colpito da un banco lanciato dal tetto, mentre anche tra i missini ci sono parecchi feriti.

Gli universitari fermati a Giurisprudenza vengono rilasciati, insieme a 105 studenti delle scuole superiori, mentre i 52 non iscritti all’Università sono arrestati.

La giornata finisce, e le polemiche iniziano: il Fuan entra in crisi e la componente romana, Fuan Caravella, costretta al cambio della guardia in senso più “istituzionale”, sorgono nuove formazioni “oltre il MSI” la base giovanile del Partito si interroga.

Sa di beffa il titolo del Secolo del giorno dopo: “Basta con gli stracci rossi, il tricolore all’Università!”, e ancora peggio è il riassunto del testo: “Dura lezione ai sovversivi, dopo tre ore di scontri”.

Certo è che da allora in poi nulla sarà più come prima: il grosso discrimine che “sembrava” accantonato, quello del discorso fascismo/antifascismo riprende forza e gli scontri tra gli “opposti estremismi” in tutta Italia, diventeranno cronaca quotidiana.
Approfittando della tregua relativa G e gli altri provarono a farsi sotto per ricongiungersi ai camerati sulle scale di Giurisprudenza, ma, all’improvviso, si videro circondati da un nutrito gruppo di “compagni”: facce note, concittadini, venuti a Roma per motivi opposti ai loro.

Si fece avanti, baldanzoso, Francesco Laudadio (futuro fondatore del primo CAA Comitato Antimperialista Antifascista, destinato a diffondersi come “modello organizzativo ed attivistico” in tutta Italia, e poi regista cinematografico e scrittore) che si rivolse minaccioso ai ben conosciuti “nemici”: “Se fate una mossa, chiamiamo gli altri e vi massacriamo”.

Fu allora che Ettore, il Presidente del Fuan, con quell’aplomb britannico e quello “stile” che tutti gli riconoscevano, rispose: “Fai quello che vuoi, poi a Bari facciamo i conti!”.

La cosa finì lì. G non poté non pensare che Laudadio, che lo aveva fissato a lungo, riconoscendolo, non facendo seguire i fatti alle minacce avesse voluto pagare anche un personale debito di riconoscenza che aveva nei suoi confronti.

Era successo che qualche settimana prima, lui e il fratello Felice (futuro critico cinematografico e direttore della Mostra di Venezia) si erano avventurati, ad un’ora molto tarda di notte, in una piazza “nera”, interdetta ai compagni, forse fidando proprio sull’ora.

Il caso aveva voluto che G e qualcun altro fossero invece ancora lì, a tirar l’alba: uno, nota “bestia nera” del compagnume locale si era slanciato per dare una lezione ai due imprevidenti, ma G si era frapposto, aveva calmato i bollenti spiriti e li aveva accompagnati per una decina di metri, al sicuro; evidentemente il “graziato” di allora non aveva dimenticato…

Mentre G indugiava a fare questa “cavalleresca” riflessione, irruppero i gipponi della polizia: i rossi si dispersero e tornarono a Lettere, Celerini e Carabinieri entrarono a Giurisprudenza, e cominciarono a caricare nei furgoni tutti quelli che trovavano.

In breve il piazzale rimase vuoto: G e gli altri si diressero a via delle Quattro Fontane, sede della Direzione Nazionale del MSI. Erano incazzati per la batosta presa, per gli arresti di alcuni camerati e per quella sensazione di “truffa” che le parole di Tonino sottintendevano.
Il Partito era deserto: i reduci dall’Ateneo si sbracarono in quello che qualcuno disse essere lo studio di Michelini, per vedere i telegiornali, fino all’ora della partenza.

Nell’attesa, giunsero, alla spicciolata i fermati che erano Universitari e studenti: solo quattro, che non rientravano in nessuna di queste due qualifiche furono portati a Regina Coeli e lì rimasero per qualche settimana.

Il viaggio di ritorno fu mesto e silenzioso; i saluti all’arrivo sbrigativi; a G rimase per un bel po’ di tempo l’amaro in bocca, e spesso di trovò ad interrogarsi: ma “doveva” andare proprio così? c’era stato un errore di valutazione in buona fede o era stata tutta una manovra del “sistema”? si poteva parlare di un’occasione mancata?
QUALCHE ANNO DOPO….

G ripone al suo posto, nello scaffale della libreria, “E venne Valle Giulia” di Mario Michele Merlino. Ha riletto il capitolo relativo ai fatti della Sapienza, e si è fatto coinvolgere dallo stile affabulatorio dell’Autore che c’era, anche lui, quel giorno all’Università, con i suoi camerati di Avanguardia, e difende le scelte di allora, che hanno, soprattutto, il sapore nostalgico della giovinezza.

C’è però, all’inizio del capitolo, una frase di Gianni Scipione Rossi che Merlino riporta e demolisce: “I reduci di destra sono più patetici di quelli di sinistra. Perché tutto nasce da un equivoco, o, se si vuole, da un’illusione. L’illusione che il Sessantotto avrebbe potuto essere qualcosa di diverso da quello c
he è stato…se solo, quel 16 marzo del 1968, l’incantesimo non fosse stato rotto con l’assalto alla Facoltà di lettere di Roma guidato da Almirante e Caradonna…L’incantesimo della rivolta congiunta, della occupazione bipartisan, delle partite di calcio tra fasci e compagni nel piazzale della Minerva”.


Lo stile supponente di Rossi non gli piace, eppure “sente” che qualcosa di vero c’è….G non ha nulla a che spartire con la “becera destra” marchiata da Merlino: se dovesse definirsi, sceglierebbe per se la qualifica di “fascista rivoluzionario” (“di sinistra” no, è una classificazione che si sono inventati gli storici del dopoguerra), conosce i diciannovisti tentativi d’intesa “con l’altro” di Carli & C, sa di “Roma e Mosca due rive luminose”, dei “partiti d’avanguardia, e se provassimo a collaborare?” rivolto ai socialisti, della simpatia per gli anarchici dalle cui fila molti fascisti provenivano, dei tentativi di “ponte” tra “rossi e neri” alla fine della RSI, per non lasciare l’Italia in mano ai moderati, ma sa pure che sono stati tutti tentativi falliti.


E, all’epoca, non c’era ancora la grossa pietra d’inciampo (ed è un eufemismo) costituita dalla guerra civile, sulla quale tutti, prima o poi, dal 1945 in poi, vanno a cascare…

Ha partecipato anche lui, in buona fede e con entusiasmo, alle occupazioni congiunte a Bari (“loro” a Lettere, e “noi” a Giurisprudenza, proprio come a Roma), finché l’incantesimo si è spezzato. Non era (e non è e non sarà mai) possibile far convivere Evola, Pound e Nietzsche con la triade sessantottina Mao, Marx e Marcuse. E’ vero, a certe assemblee i fasci facevano circolare il nome dell’autore di “Cavalcare la tigre”, ma senza successo…G non sa fare, a memoria, il nome di un giovane “cinese” che si sia convertito alle teorie del Barone nero, e invece saprebbe fare il nome di molti che hanno fatto il salto all’incontrario, magari solo affascinati dall’irrompere della “azione” che coinvolgeva masse cento volte superiori ai “quattro gatti” dietro il tricolore, e che forse di essere “quattro gatti” si erano pure stancati.

Insomma, non c’era futuro in quel tentativo: il 16 marzo anticipò solo quello che DOVEVA succedere.

Ecco, se una colpa si può fare a chi volle quell’irruzione è innanzitutto di averla ideata (bastava aspettare ancora qualche settimana: a fine mese ci sarebbero stati scontri a Napoli e Milano, e G non riesce proprio ad immaginare come avrebbe fatto Roma a rimanere isola felice (?)), e poi di averla organizzata male, malissimo, nella peggiore tradizione dell’ “annamo e glie menamo”…truppe raccogliticce e poco convinte, nessun “capo”, divisioni all’interno e nessuna “tattica d’attacco”, con eventuale “piano B”.

Servizi segreti, Ministero degli Interni, pressioni americane (all’epoca si parlò anche di questo)? G non ci crede, continua a non voler vedere sofisticati complotti laddove c’era solo il desiderio di azione di ingenui sognatori, la volontà di non arrendersi, il gusto della sfida.

Riposto il libro, G torna in poltrona: occhiali, pancetta e calvizie d’ordinanza…non è lui quel nervoso giovanotto che si agita per entrare a Lettere… no, propr
io no, quello è “un altro”…

2 Comments

  • Nicola 17 Marzo 2023

    Presente

  • Nicola 17 Marzo 2023

    Presente

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