10 Ottobre 2024
Autocoscienza

Ricordo d’infanzia – Luca Maccaferri

Presentiamo ai lettori di EreticaMente uno scritto di un caro amico e di un profondo conoscitore delle tradizioni spirituali, Luca Maccaferri, dedicato ad un ricordo della propria fanciullezza e come si potrà subito scorgere si tratta, in realtà, di una bella meditazione profonda. Il ricordo, infatti, quando sublimato da emozioni dell’animo purificato, è spesso associato alla memoria ancestrale della nostra personalità storica, indi attinente alle profondità più preziose della nostra interiorità. Nello scritto che seguirà, leggendolo vi accorgerete quasi di partecipare ai suoni ed ai colori della Natura, vi accorgerete che la bellezza descritta non è una rappresentazione ma un preciso stato di coscienza, localizzabile poco nella mente o nel pensiero riflesso, ma spesso negli antri non sentimentali del cuore, ove la visione ha reso limpida la percezione di una realtà che non abbisogna di languori, ma di secca identificazione, tra ciò che siamo da sempre ed il Divino. Buona lettura.

(introduzione a cura di Luca Valentini)

 

Dedicato alla santa memoria di mia nonna materna Virginia Oppi (1900-1977).

Avrò avuto quattro anni, o forse cinque… non ricordo bene; ma di una cosa sono più che certo: il giardino e il tramonto di quel giorno non li dimenticherò mai; e se quel particolare giorno appartiene oramai ad un remoto passato, i doni che mi ha elargito rimarranno per sempre racchiusi nel mio cuore come il più prezioso dei tesori, come la noce d’oro delle fiabe da schiacciare sotto i denti nel momento del bisogno (dopo tutto non è forse vero che proprio nei momenti più buî giova di rammemorare quelli più luminosi?).

Era di primavera inoltrata (o forse già d’estate) nell’amato giardino dell’infanzia, il giardino della casa di famiglia di mia madre, nella quale all’epoca dei fatti narrati (più di quarant’anni or sono) ancora abitavano la mia nonna Virginia e le sue tre sorelle Luisa, Elena ed Adriana. Ora quel giardino, sconsideratamente trasformato in un anonimo parcheggio condominiale, non esiste più. Ne ricordo il caratteristico cancello bianco, il vialetto ricoperto di ghiaia fina fiancheggiato dalla folta siepe con le canne di bambù (compagne dei miei primi giochi), il pergolato con la vite dai generosi grappoli, la grande pianta di magnolia e l’albero di albicocco, col quale avevo stretto una sorta di amicizia in virtù dello squisito (e mai più eguagliato) sapore dei suoi abbondanti e succosi frutti. Fu quello il teatro di alcuni fra i miei giorni più felici.

Ecco allora che mi rivedo in quel fatidico pomeriggio, seduto ad un piccolo tavolino rotondo da giardino stile Belle Epoque: desco improvvisato sul quale la cara zia (in realtà prozia) Adriana mi avrebbe servito una frugale cena en plein air. L’ora era quella per me più densa di suggestione, quella del tramonto. Il fulgido disco solare scendeva lento di fronte a me ed io socchiudevo gli occhi inebriandomi di quei tiepidi raggi di sole che lasciavo filtrare attraverso le palpebre, fino a restarne piacevolmente abbacinato. Ebbro di quella inedita e gradevole sensazione, d’improvviso sentii diversamente. Nel suo lento sprofondare il sole era un muto testimone di verità, verità secondo la quale ogni rapporto tra un «io» e un «tu» è effimero, in quanto tutto si riunisce sotto ai suoi raggi. Ripensando a quel momento è proprio come se avessi

in certo qual modo smarrito il senso del mio «io» particolare per essere riassorbito nel «Sé» universale, così da essere accolto nel seno della natura circostante, nei confronti della quale sembrava svanire ogni senso di umana separatezza: a tal riguardo è assai eloquente una sentenza di Meister Eckhart, secondo cui “Ego, la parola io, non appartiene che a Dio nella sua unità”. Si potrebbe parafrasare poeticamente il concetto attraverso le parole di Ernst Wiechert, quando in merito al barone Amadeus von Liljecrona, personaggio chiave del suo romanzo Missa sine nomine, afferma che “aveva raggiunto una pace così meravigliosa che egli trattenne quasi il respiro per non essere qualcuno”.

In quell’istante perfetto era quindi apparentemente annullato ogni principio di alterità e distinzione: sovrana regnava la quiete, intatta era l’aura, quasi che sotto il caduco fosse d’acchito apparso il duraturo. Ma a cosa corrisponde, in definitiva, l’idea di perfezione? Anticamente nelle concezioni greche l’idea di Bene aveva un significato ontologico, e non morale, corrispondendo alla perfezione di un essere, al suo stato di completezza, opposto al male ossia alla passione, corrispondente ad un’azione esterna che produca «alterazione» e «impurità»: secondo Novalis “ogni male è isolato e isolante, è il principio di separazione”; e ricordiamo che «diavolo», dal greco [dia] attraverso [ballo] metto, significa propriamente separare, dividere, frapporre una barriera, creare fratture.

È forse possibile allora che per un singolo istante ci fossimo trovati in quella singolare condizione in cui è dato di raccogliere l’evangelico granello di senape? In cui è possibile vedere l’immagine di là dei veli? Davvero difficile dare una risposta definitiva, anche se indubbiamente è testimonio di coerenza che proprio l’astro diurno abbia favorito l’epifania spirituale testè descritta: è infatti una tradizione universale che il nostro vero Padre sia il Sole, principio primo della Luce e del Tempo (“quelli ch’è padre d’ogne mortal vita”, canta Dante nel Paradiso, XXII, 116), mentre il padre umano è solo il mezzo con cui la vita si trasmette e non la sua origine.

Ma il tempo di quell’estasi fu breve, fugace: d’un tratto arrivò la zia Adriana con la cena ed io fui inesorabilmente risospinto all’interno della ruota del divenire. Forse tentare di descrivere humanis verbis una simile esperienza è una chimera, un vano sortilegio, poiché si sa, in certi casi le parole non sono atte a trasferire certe emozioni, certi stati dell’animo in realtà ineffabili: il Lettore è quindi pregato di accogliere con benevolenza quanto gli è stato offerto in queste poche, imperfette righe. Dopo tutto avevo solo quattro anni, o forse cinque… non ricordo bene.

Luca Maccaferri

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