8 Ottobre 2024
Origini Recensione

Recensione a “Alla ricerca delle origini” di Fabio Calabrese. A cura di Michele Ruzzai

È recente notizia la pubblicazione del libro “Alla ricerca delle origini” di Fabio Calabrese (Edizioni Ritter) nel quale il nostro caro amico, ben conosciuto dai lettori di Ereticamente e da questi molto apprezzato, finalmente consegna alle stampe un sunto dei tanti ed interessanti scritti che nel corso degli anni ha proposto su questo sito. Un evento davvero di grande rilevanza ed un testo assolutamente da consigliare a tutti coloro che hanno il desiderio di approfondire il tema delle nostre origini secondo una chiave di lettura distante dal consueto “politicamente corretto”, purtroppo ormai imperante ovunque. Con grande piacere, quindi, raccolgo il suo gentile invito per una breve recensione del libro, che oltre a riassumere davvero per sommi capi (e nemmeno tutti, visto l’ampissimo ventaglio degli argomenti affrontati) integrerò con qualche riflessione a margine, dal momento che una mera ripetizione dei temi toccati da Fabio Calabrese sarebbe ben poca cosa rispetto alla lettura diretta del suo libro che, ripeto, è assolutamente da consigliare.

L’idea fondamentale attorno alla quale ruota questo ponderoso lavoro è un tema che dovrebbe stare a cuore un po’ a tutti noi: la centralità e l’originalità creatrice della nostra Europa e delle Stirpi che l’abitarono fin dai suoi albori preistorici. Ciò, in opposizione a coloro che invece vorrebbero farne un angolo di mondo sempre in debito culturale e “al traino” di influenze esterne, soprattutto meridionali ed orientali. È dunque un filo che ripercorrerò in ordine cronologico partendo dai primi ritrovamenti di Homo Sapiens, che secondo la parte maggioritaria dell’attuale ricerca accademica si sarebbe originato in Africa e da lì poi diffuso negli altri continenti – da cui il nome “Out of Africa” che è stato attribuito a quest’ipotesi – venendo così a differenziarsi nelle sue varietà locali. Calabrese giustamente contesta la teoria afrocentrica sulla base di una molteplicità di elementi che, per non dilungarci troppo, non possiamo riprendere in questa sede, sottolineando la sua netta preferenza per un quadro evolutivo “multiregionale” (Carleton Coon) che invece attribuisce buona parte dei meccanismi di “razziogenesi” umana alle varie popolazioni non-Sapiens già disseminate sul pianeta (Neanderthal, Denisova, Erectus vari…). La questione toccata dal Nostro è di fondamentale importanza, perché il lettore attento non potrà evitare di porsi la domanda se Homo Sapiens può aver presentato inizialmente una forma unitaria, poi modificatasi a seguito di semplici eventi meticciatori con i ceppi non-Sapiens, o se invece da ciascuno di questi può essersi separatamente originata secondo processi più lenti, profondi ed “evolutivi”: quindi anche presentando delle sensibili differenze razziali fin dal primo apparire e, praticamente, in contemporanea con il fenomeno della sua speciazione biologica. Se vogliamo, è la querelle, molto antica, tra “monogenesi” e “poligenesi” o piuttosto, come personalmente preferisco (per evitare l’ingenua rappresentazione di una, o più, coppie di capostipiti) tra idea “monofiletica” e idea “polifiletica” di origine Sapiens. E’ interessante rilevare come la prima impostazione sembri trovare il consenso di un autore giustamente citato da Calabrese, ovvero Silvano Lorenzoni, ad esempio secondo il quale anche i ceppi australi che sembrano più distanti dallo standard morfologico comune (come i Pigmoidi della fascia tropicale) potrebbero, in ultima analisi, essere riconducibili allo stesso tronco ancestrale di tutte le altre popolazioni mondiali (idea che invece, per inciso, non pare condivisa da pensatori come Julius Evola o Herman Wirth). Inoltre, la scelta tra visuale monofiletica e polifiletica delle origini umane, a mio avviso si collega a un’altra questione, tutt’altro che secondaria, ovvero quella della reale antichità di Homo Sapiens. Perché abbracciare la seconda opzione, ovvero l’origine Sapiens “per evoluzione” dai ceppi considerati “pre-Sapiens”, implica necessariamente che i primi debbano essere meno antichi dei secondi, almeno in larga parte e con l’eccezione di qualche arcaico ramo collaterale prolungatosi fino a tempi relativamente recenti. Un assunto che in genere viene dato per scontato, ma che ritengo andrebbe sottoposto ad una più attenta verifica in relazione a tutti quei reperti (rif. Cremo / Thompson) di antichità talmente elevata da lasciare perplessi i ricercatori più conformisti, visto l’aspetto cosiddetto “moderno” e ben poco grossolano che, al contrario, indicherebbe proprio la forma Sapiens come quella più archetipica dell’intera famiglia ominide (rif. Giuseppe Sermonti).

In merito, poi, alla definizione dell’area geografica dove sarebbe sorto il primo ceppo Sapiens, Calabrese ricorda giustamente l’assenza nei Miti mondiali di qualsivoglia ricordo ancestrale che menzioni una provenienza africana, mentre invece non sono rari quelli che indicano a una direzione ben diversa: il Nord del mondo. Questo è un altro punto fondamentale sul quale credo valga la pena soffermarsi. Il nostro amico sottolinea infatti come siano state proprio le difficili condizioni boreali a forgiare almeno un particolare ramo umano, cioè quello “europide” – ovvero noi “bianchi” ed Europei nell’accezione più ristretta di quella attribuita al più ampio concetto di “caucasoidi” – confermandone quindi l’impostazione tendenzialmente polifiletica/multiregionale: e dunque presupponendo un Nord dalle condizioni climatiche difficili e non molto dissimili da quelle odierne. Un’idea certamente interessante e che giustificherebbe l’insorgenza, ad esempio, di importanti fenomeni di depigmentazione, ma che ritengo potrebbe essere utilmente, e non contraddittoriamente, integrata in un quadro ancora più profondo, dove vi sarebbe posto anche per “un altro Nord”: quello che, prima ancora, godette di una situazione climatica ben più favorevole. Se infatti i miti di una primordiale “Età dell’Oro” e di una “Eterna primavera” degli albori sono riusciti a giungere fino a noi, forse ciò potrebbe alludere ad una fase nella quale i primi ceppi Sapiens furono in grado di condurre un’esistenza non precaria anche in aree ad altissima latitudine: ad esempio la Beringia (tra Siberia orientale ed Alaska) o l’enorme piattaforma continentale nordeurasiatica, ora sommersa dal Mar Glaciale Artico, che studi recenti indicherebbero aver ospitato, con la Siberia settentrionale, una biomassa quantitativamente paragonabile addirittura a quella della savana africana. Tale contesto bio-climatico avrebbe quindi visto il primigenio ceppo Sapiens prosperare in condizioni letteralmente “edeniche”, oltretutto in una posizione “polare” o “circum-polare” – non scissa da una controparte di carattere spirituale (rif. René Guenon) come ad esempio la Tradizione indù ricorda per il Krita Yuga – e senza ancora l’affanno di una pressione selettiva con la quale dover drammaticamente fare i conti. Quest’ultima potrebbe essere entrata in gioco più pesantemente in un momento successivo, quando la Prima Età fini fra 35 e 40.000 anni fa (rif. Gaston Georgel) in concomitanza con alcuni eventi geofisici di dimensione planetaria confermati anche dalla ricerca attuale (eruzione dei Campi Flegrei, crollo del 75% del campo magnetico terrestre) che, tra l’altro, dovettero assestare un colpo fatale ai coevi ceppi neandertaliani, infatti estintisi di lì a qualche millennio. Una selezione che quindi appare soprattutto implacabile – e necessaria! – sentinella nei confronti di rami deviati e fenotipi aberranti, evidenziandone dunque una funzione soprattutto “conservativa” più che “migliorativa” per “lento accumulo” secondo la prospettiva materialistico-darwiniana (rif. Giuseppe Sermonti): con la conseguenza, in questa prospettiva, di svincolare in parte l’uomo dalla sua dimensione naturalistico-grossolana e di lasciare una certa libertà di azione anche a fattori formativi di ordine più sottile. Una tale impostazione risponde quindi a un’idea più larga del concetto di Razza, dispiegata in Corpo-Anima-Spirito come elaborata da Julius Evola, anche se, per inciso, la stessa andrebbe a mio parere sottoposta a una certa riflessione nelle sue influenze bachofeniane e nel ruolo attribuito all’ultimo elemento del ternario, lo Spirito: il quale, assolutamente incondizionato, dovrebbe trascendere i meccanismi “razziogenetici” in senso stretto, forse più pertinenti all’ambito mediano (psichico-animico-elementale) – e, a caduta, a quello corporeo – come giustamente ebbe a rilevare anche Adriano Romualdi.

Se dunque l’Uomo sorse nell’ecumene artico, da cui i rimandi delle molteplici Tradizioni mondiali (un ottimo riassunto in tal senso è costituito dal classico “Paradise found” di William Fairfield Warren), è il soprattutto il settore nordeurasiatico quello dove probabilmente si enucleò la Razza Bianca. Questa poi si divise in ulteriori sottogruppi sviluppando diverse famiglie etno-linguistiche, passaggio che ci porta a un altro tema fondamentale toccato da Calabrese: quello degli Indoeuropei – o Ariani, secondo l’antica denominazione poi caduta in discredito – la cui genesi, tra parentesi, in questo quadro si trova in buon accordo con le note ipotesi “nordiche” di Bal Gangadhar Tilak o le più recenti di Felice Vinci (“Omero nel Baltico”). Ma, come ben sappiamo, l’attuale ricerca accademica considera l’opera tilakiana solo una mera bizzarra curiosità, anche se d’altro canto non si può dire sia stata ancora data una risposta definitiva al tema della localizzazione dell’area d’origine (l’Urheimat), delle direttrici migratorie e della profondità temporale da attribuire ai nostri Avi più diretti. Una delle ipotesi più discusse è quella che fu formulata negli anni ’80 del secolo scorso dall’archeologo britannico Colin Renfrew, secondo la quale gli Indoeuropei corrisponderebbero ai primi agricoltori provenienti dall’Anatolia nel Neolitico: zona che peraltro dovette rappresentare solo la porzione occidentale di un territorio più esteso, comprendente anche il Levante (Siria-Libano-Palestina) e i Monti Zagros (tra Iran e Iraq), dove sarebbe iniziata la transizione da un’economia di caccia-raccolta (paleo-mesolitica) a una agricola (neolitica). A ciascuna di queste altre due sotto-zone, secondo l’ipotesi di Renfrew, sarebbe riconducibile l’origine di altrettante famiglie linguistiche, ovvero l’afroasiatica (o “camito-semitica” secondo la denominazione più datata) nel Levante, e l’elamo-dravidica tra i Monti Zagros: ma lo stretto contatto fra le tre sub-aree presupporrebbe per tutte, a livello globale, un proto-linguaggio ancora più arcaico e antenato diretto delle tre famiglie “sorelle”, che potrebbe essere individuato nell’antico “Nostratico” già a suo tempo ipotizzato dai linguisti più innovativi. Credo che le perplessità di Calabrese sull’identificazione dei primi Indoeuropei con gli agricoltori anatolici siano senz’altro condivisibili, mentre mi riservo qualche riflessione aggiuntiva sul discorso del Nostratico, perché ritengo che la correlazione di quest’ultimo con la teoria dell’origine mediorientale degli Indoeuropei non rappresenti l’unica opzione possibile.

Va infatti detto che un primo abbozzo dell’idea di collegamento filogenetico tra indoeuropeo ed altre famiglie linguistiche – in particolare il camito-semitico, l’uralico e l’altaico – in effetti è molto precedente all’ipotesi di Renfrew degli anni ‘80, in quanto venne formulata già ai primi del ‘900 dal danese Holger Pedersen; come segnala Fabio Calabrese, quest’ipotesi venne poi sviluppata soprattutto dai due linguisti russi Vladimir Illič-Svityč e Aharon Dolgopolskij, ma comunque negli anni ’60 dello scorso secolo. Peraltro, proprio Renfrew valutò che la macro-famiglia nostratica si sarebbe formata già circa 27.000 anni fa (rif. Riccardo Ambrosini), quindi in tempi molto precedenti al momento d’inizio dell’agricoltura in Anatolia, che giunse in Europa solo 8-9.000 anni fa: il che dovrebbe rendere l’idea di un netto scollamento tra i due eventi. Credo inoltre sia piuttosto interessante sottolineare che l’idea del Nostratico fu successivamente sottoposta ad una serie di revisioni soprattutto ad opera di Joseph Greenberg, in quanto si rilevò come l’Indoeuropeo appaia morfologicamente molto più vicino alle famiglie ciukcio-camciadali (estremo oriente siberiano) ed eschimo-aleutina (Alaska ed America artica) rispetto alle più meridionali camito-semitica ed elamo-dravidica, il che condusse ad un proposta di ridefinizione del macro-aggregato linguistico di partenza con la sostituzione delle ultime due famiglie con le prime due: il nuovo raggruppamento venne così definito “Eurasiatico”, dalla connotazione nettamente più nordica e linguisticamente molto più convincente, anche a parere del nostraticista russo Sergei Anatolievič Starostin. È peraltro di rilievo anche il fatto che lo stesso Dolgopolskij invece di utilizzare il termine “Nostratico” preferì usare quello di “Boreale”. Il tutto, in definitiva, per collocare l’Indoeuropeo nell’ambito di un insieme di più vasta scala che – a prescindere se definito “Nostratico”, “Eurasiatico”, “Paleoboreale” o quant’altro – non è comunque incompatibile con l’ipotesi di una nostra remota origine nordica. Aggiungerei anche che la famiglia linguistica che, tra tutte queste, sembra in assoluto più vicina alla nostra è quella uralica, per cui pare plausibile che nell’ambito del “Paleoboreale” (o “Eurasiatico”, che dir si voglia) si possa ipotizzare un ramo più occidentale, inizialmente indiviso, che è stato definito come “Indo-Uralico” e dalle caratteristiche agglutinanti, come vedremo in seguito; solo successivamente, nella diramazione indoeuropea, questi dialetti vennero a modificarsi in senso flessivo (rif. Herman Wirth). Il quadro delle origini ario-europee, quindi, potrebbe benissimo rimanere saldamente ancorato al Nord o al Nord-Est anche nel contesto di una macro-famiglia di più ampia dimensione. E ciò, respingendo chiaramente la teoria anatolica di Colin Renfrew, ma non per questo accettando quella “kurganica” di Marija Gimbutas, che è rifiutata da Adriano Romualdi e anche da un altro valido studioso menzionato da Calabrese, ovvero Ernesto Roli: quella della Gimbutas è infatti un’ipotesi ancora troppo poco nordica (steppe della Russia meridionale) e, aggiungo io, collegata a un quadro cronologico ancora troppo recente (Calcolitico, quindi addirittura meno profondo di quello neolitico di Renfrew). Perché, a mio avviso, lo spostamento dell’etnogenesi indoeuropea in tempi molto più remoti, cioè a livello praticamente paleolitico – come proposto, seppure con modalità e percorsi non identici, da un ventaglio comunque non trascurabile di ricercatori (ad esempio: Alinei, Costa, Dolgopolskij, Durante, Georgiev , Kruskal, Kuhn, Sera, Obermaier, Otte) – potrebbe forse contribuire ad inquadrare sotto una diversa luce un altro tema essenziale sul quale Fabio Calabrese opportunamente si sofferma, ovvero quello delle popolazioni “mediterranee” o “preindoeuropee” di substrato (Pitti, Iberi, Acquitani, Liguri, Etruschi, Pelasgi, Minoici…) che popolarono il nostro continente prima degli Indoeuropei “storici” (Italici, Celti, Germani, Elleni, Illiri, ecc…). I cosiddetti “preindoeuropei”, cioè, invece di appartenere ad un raggruppamento etnico completamente estraneo al nostro, in una diversa ottica interpretativa potrebbero invece rappresentare gli eredi di una stratificazione verificatasi in tempi più antichi della nostra stessa famiglia etnolinguistica (rif. Hans Krahe e le analisi in tal senso della scuola di Tubinga sui substrati e sull’idronimia europea): una stratificazione che, magari, potrebbe essersi dispiegata in più scansioni.

Provo a spiegarmi meglio. Herman Wirth, e per certi versi anche Julius Evola, utilizza il termine “ariano” in un’accezione un po’ diversa rispetto a quella di “indoeuropeo”, ovvero secondo una connotazione di carattere più razziale che etnolinguistica, ma soprattutto in una prospettiva più antica: considerando cioè la compagine indoeuropea in senso stretto come una sua più tarda derivazione, glottologicamente in direzione flessiva a partire da una struttura paleo-artica che presentava una tipologia agglutinante. Ebbene, prendendo spunto dalle idee di Herman Wirth, credo si potrebbe sintetizzare il quadro generale in un’ottica – mi si passi il termine – di “arianità estesa”, o anche “giapetica” considerando l’indubbia sovrapponibilità fra il Giapeto del Mito ellenico, padre di Atlante, e lo Jafet del testo biblico. Al quale, non a caso, per dimora era stata donata l’immensità (Georges Vacher de Lapouge) – tanto che il suo stesso nome allude al concetto di “espansione, diffusione” – oltre ad evidenziare un maggior numero di figli rispetto ai due fratelli citati nelle scritture veterotestamentarie. Sem e Cam, oltretutto, appaiono tra loro chiaramente più vicini sia da un punto di vista glottologico (la famiglia “camito-semitica” o, come oggi è stata ridenominata, “afroasiatica” è un’unità linguistica acclarata) che geografico (condividono entrambi la costa meridionale del Mediterraneo, lasciando al solo Jafet/Giapeto quella settentrionale e tutto l’entroterra europeo). Senza comunque dimenticare, come opportunamente ricorda Felice Vinci, che il padre comune dei tre fratelli, Noè, presenta delle caratteristiche fenotipiche chiaramente nordiche. Per cui ecco di seguito un piccolo sunto di questa visuale, che gli argomenti toccati in questa recensione mi offrono l’occasione di anticipare brevemente e forse in futuro potrò esporre in modo più esteso con una serie di articoli.

In estrema sintesi: a partire da una meta-popolazione nordeurasiatica (denominazione che può assumere il doppio significato della componente autosomica “ANE” presente in larga parte del genoma europeo, ma anche della superfamiglia linguistica boreale, nettamente preferibile a quella “nostratica” vista sopra), già sensibilmente depigmentata ma forse non ancora “nordico-leptomorfa” in senso stretto (Biasutti), il ramo più occidentale, “Indo-Uralico”, può aver sostato in area euro-nordorientale, ad esempio tra le penisole di Kola e di Jamal, fino all’Ultimo Massimo Glaciale wurmiano di circa 20.000 anni fa (acronimo “LGM”). A mio avviso, questa fase potrebbe essere definita come “giapetico-unitaria” o anche come “Ario-Uralica”. Gli eventi dell’LGM avrebbero però incrinato tale unità, separando i gruppi rimasti in sito (Uralici) da quelli migrati verso sud e sud-ovest (Paleo-Indoeuropei) sia per via scandinavo-costiera (a ovest della calotta wurmiana) ma soprattutto, in questa prima fase, per via baltico-continentale (a est della stessa), portando nel cuore del nostro continente un linguaggio ancora a livello “pre-flessivo” (Adrados), tracce linguistiche nell’arcaicità del sotto-gruppo baltico rispetto agli altri, e residui cultuali di tipo sciamanico (Benozzo, Colli, Corradi-Musi, Eliade, Ginzburg…). Incontri-scontri in varie aree ed alterni esiti con popolazioni occidentali “rosse”, meno depigmentate, cromagnoidi (“Fomori” del Mito celtico), ed autosomicamente in prevalenza “WHG” (“cacciatori-raccoglitori occidentali”) ricordati nell’epopea del sesto Avatara di Vishnu, Parashu-Rama, e nella saga norrena del problematico rapporto tra Asi (boreali) e Vani (occidentali). Concentrazione di larga parte delle popolazioni paleo-indoeuropee di traiettoria baltico-continentale nel refugium franco-cantabrico, quindi lungo un gradiente genetico nordest-sudovest forse riconoscibile oggi nella “seconda componente principale europea” (Cavalli Sforza). Enucleazione in sito della cultura solutreana (Gioacchino Sera) ed “esplosione” della stessa, con riflessi fino alla cultura Clovis nordamericana (Facchini, Greenman) e, attraverso Gibilterra, verso il nord-Africa (Guanci, Iberomaurusiani), con ingresso “imponente” (Biasutti) del carattere del biondismo tra Berberi, Libi e Cabili (Frobenius, Parenti). Conseguente enucleazione atlantico-nordafricana del gruppo linguistico camito-semitico unitario e migrazione verso il (non “dal”) Medio Oriente (Ehret, Greenberg), con separazione del ramo semitico di provenienza occidentale – anche dal punto di vista della tradizione di riferimento (Guénon) – ma non senza probabili episodi di meticciamento anche con elementi boscimanoidi al tempo ancora stanziati fino alla bassa valle del Nilo (Acerbi, Coon). Nel frattempo, in area franco-cantabrica e pirenaica, il contatto dei Paleo-Indoeuropei di provenienza baltico-continentale con gli autoctoni “WHG” etnicamente dene-caucasici (i “Vasconici”, residuanti oggi nei Baschi: ovvero, una stratificazione artica ancora precedente a quella nordeurasiatica e, a oriente, originante i Sumeri – rif. Wirth e Dugin) induce alcune rilevanti modifiche linguistiche tali da marcare una certa discontinuità con le precedenti popolazioni “Ario-Uraliche”, quindi avviando una seconda fase definibile come “Ario-Atlantica” che ne rappresenterebbe una sorta di “filiazione” (ricordavo infatti che Atlante è figlio di Giapeto): fase che appunto corrisponde alla ramificazione “mediterranea” e a tutte quelle popolazioni ritenute “preindoeuropee”, opportunamente ricordate da Fabio Calabrese, che poi si sarebbero espanse soprattutto lungo la direzione “orizzontale” ovest-est (Evola) probabilmente in connessione con la cultura tardo-paleolitica del Maddaleniano (Kozlowski). Infine, come ultima scansione, movimenti residuali nel quadrante soprattutto scandinavo-costiero – area dove nel frattempo si sarebbero verificati anche importanti eventi di carattere “fusionale” tra Boreali ed Occidentali (con consolidamento di vari sotto-tipi razziali, tra i quali Nordici-leptomorfi e i Falici più massicci) – ed interessamento di settori nord-atlantici al tempo emersi (Hapgood, Maltesta) con ingresso di popolazioni ricordate come “Tuatha Dé Danann” nel Mito celtico. Ma i tempi ormai tardo-pleistocenici e di fusione glaciale, con il conseguente inabissamento di tali settori sia a causa di fenomeni traumatici (la “frana di Storegga”) che più lenti e graduali (progressiva sommersione del Doggerland, attuale Mare del Nord), spingono queste popolazioni a migrare, ora, soprattutto lungo la direttrice “trasversale” (Evola) nordovest-sudest, inaugurando quindi la terza fase del ciclo giapetico – dopo l’iniziale “Ario-Uralica” e l’intermedia “Ario-Atlantica” – e che definirei “Ario-Europea”: portando quindi nel nostro continente linguaggi ormai definitivamente flessivi, “indoeuropei” in senso stretto e che da questo specifico, e più recente, punto di vista, incontrano popolazioni considerabili, sì, come “preindoeuropee”, ma che in effetti non sono altro che stirpi “diversamente derivate dallo stesso ceppo” (Evola). Quest’ultima migrazione da nordovest a sudest, probabilmente la più cospicua in termini demografici, sembra ben sovrapponibile alla “prima componente principale europea” (Cavalli Sforza) letta però in chiave diametralmente opposta rispetto alla ricerca accademica (e la cosa non sorprende…) secondo la quale, invece, essa rappresenterebbe il movimento da sudest verso nordovest dei contadini anatolici nel Neolitico: sennonché tale interpretazione non pare molto coerente né con l’ipotetica area di partenza del movimento, che dalle rilevazioni sembrerebbe più mesopotamica che anatolica (Villar), né con la stima di derivazione del genoma europeo, che in larghissima parte non deriverebbe dal Neolitico ma dal Paleolitico (Alinei, Cavalli Sforza, Olson, Sykes, Wells). Senza considerare, oltretutto, che l’introduzione delle tecniche agricole forse non si verificò nemmeno in maniera così massicciamente demica, come inizialmente ipotizzato dal modello “ad onda di avanzamento” (Ammerman / Cavalli Sforza), ma che vi fu ampio spazio a una trasmissione di tipo culturale delle stesse (Zvelebil), se mai queste, come accenna anche Fabio Calabrese, addirittura non furono in buona parte perfezionate proprio nella nostra Europa.

Ma è sempre il solito concetto: “ex Oriente lux” dev’essere, e così la cultura, la ricerca, l’informazione, la divulgazione “mainstream” spingono in quella direzione, come giustamente denuncia il nostro amico nel suo bel libro. E quindi si dimenticano elementi di significativa importanza, come ad esempio la totale originalità del megalitismo europeo (forse, aggiungo io, originato proprio dal movimento nordatlantico “trasversale”) che la cosiddetta “rivoluzione del radiocarbonio” ha assolutamente isolato da ogni influenza mediorientale, regalandoci siti di una forza e di una magnificenza – quali Stonehenge, Newgrange, Externsteine, ma non solo – che ben poco hanno da invidiare alla savana o al deserto. E su questa linea Calabrese giustamente prosegue, ricordandoci anche altri elementi per nulla trascurabili, come ad esempio la probabile primarietà delle popolazioni centro-nordeuropee nella domesticazione degli animali da pascolo e nell’impiego del latte come alimento anche per gli adulti (confermato dall’alta tollerabilità al lattosio che il nostro continente evidenzia in rapporto alle altre aree del pianeta). Analoghi elementi di innovazione nelle attività economiche potrebbero essere ravvisabili anche nel primo utilizzo dei metalli, dal momento che quello più anticamente usato è il rame, e non sfuggirà l’importanza del fatto che le più antiche miniere al mondo di rame si trovano a Rudna Glava nella ex Jugoslavia. Ma – mi si conceda il gioco di parole – “dall’estrazione (dei metalli) all’astrazione (dei concetti)” il passo è davvero breve. Infatti, non è solo nell’ambito delle attività meramente produttive che il nostro continente può vantare una funzione di chiara originalità creativa, ma anche in quelle artistiche ed intellettuali, come ci ricorda Calabrese che menziona la sorprendente scoperta delle tavolette di argilla rinvenute a Turda, in Romania, i cui segni incisi forse rappresentano la primissima traccia, in assoluto, di una proto-scrittura. O l’enigmatico “disco di Nebra” rinvenuto in Germania e datato a circa 3600 anni fa, che è riconosciuto essere la più antica rappresentazione del cielo archeologicamente attestata. E questi sono solo alcuni degli elementi che Calabrese ha raccolto e ben descritto.

Sono tutti prodotti della creatività e dell’ingegno europeo, dei suoi popoli, in larga parte indoeuropei e dei quali il ricordo più nitido è ovviamente quello relativo ai gruppi collegati all’ondata migratoria più recente, ovvero la “trasversale” di direzione nordovest-sudest, che avrebbe portato nelle sedi storiche i vari Italici, Germani, Illiri, Traci, Elleni, Celti (molto ampio lo spazio che Fabio Calabrese dedica a questi ultimi), ecc…

Varie ondate, varie migrazioni, varie genti, ma tutte in fondo appartenenti allo stesso ceppo razziale: quello europide. Ed è attorno a questo punto che mi avvio alla conclusione con una riflessione finale.

È indubbio che gli altri continenti presentano al loro interno fenotipi estremamente eterogenei, molto più del nostro. Tuttavia l’Europa non è esteticamente uniforme, ma è arricchita da una piacevole varietà di tipi lievemente diversificati (nordici, falici, atlantici, mediterranei, alpini, adriatici, baltici…), anche nella pigmentazione di occhi e capelli, che però non intaccano l’impressione di fondo di una stretta vicinanza di base. Una compattezza bio-antropologica che si accompagna anche ad un’analoga, straordinaria, omogeneità linguistica. Infatti, circa il 97% di noi parla lingue appartenenti alla famiglia indoeuropea, a sua volta suddivisa in diversi sottogruppi (neolatino, celtico, germanico, baltico, slavo…), mentre solo il rimanente 3% si divide tra idiomi caucasici, il basco e lingue ugro-finniche (queste ultime, peraltro, forse nostre “cugine” non troppo lontane, come abbiamo visto). È uno sbilanciamento non riscontrabile in altri continenti, molto più frammentati del nostro pure sotto questo aspetto. La stessa area formativa primordiale delle lingue indoeuropee – la nostra “Urheimat” – anticamente si enucleò in queste terre, anche se come detto la sua collocazione è ancora oggetto di discussione: ma che sia stata in qualche zona dell’Europa centrale o orientale, nelle steppe tra Mar Nero e Mar Caspio (la “teoria kurganica” di Marija Gimbutas), nella penisola balcanica, o in settori più nordici (avrete capito che io propendo per quest’ultima ipotesi), è tuttavia abbastanza sicuro che la Patria dei nostri Avi abbia trovato posto al di qua degli Urali. E i dati genetici sembrerebbero andare in questa stessa direzione. Come detto più sopra, vari ricercatori hanno infatti stimato che proprio dai tempi paleolitici deriverebbe la maggior parte del nostro patrimonio genetico: per alcuni fino al 90%, comunque non meno del 65% per altri. Quindi la maggior parte delle nostre radici sono ben piantate, profonde e non derivano, se non forse in minima misura, da qualche rapida “spazzata” nomadica di pochi millenni fa. E, dato forse ancora più importante, in rapporto al genoma degli altri continenti, Cavalli Sforza ci segnala che quello europeo è il più omogeneo di tutti.

È, questo, un elemento molto significativo che, assieme alle altre considerazioni di carattere linguistico e razziale, io credo possa farci concludere che se al mondo vi è una terra con una sua ben precisa specificità, quella è l’Europa. E se vi è una Stirpe con una sua ben definita identità la risposta è altrettanto chiara: siamo noi Europei.

E l’ottimo libro del nostro Fabio Calabrese ha il grande pregio di non farcelo dimenticare.

 

 

15 Comments

  • Fabio Calabrese 17 Luglio 2020

    All’amico Michele Ruzzai, un sentito ringraziamento.

    • Michele Ruzzai 17 Luglio 2020

      Caro Fabio, è stato un vero piacere per me leggere e commentare il tuo bel libro.

  • Nebel 17 Luglio 2020

    La giusta risposta a chi ipotizza un’origine genetica di matrice “turca” o addirittura “nordafricana” dei nostri antenati romani….

    https://youtu.be/SphBnN6liRI

  • Primula Nera 17 Luglio 2020

    Però i Lidi sono, con molta probabilità, una popolazione di origine indoeuropea ; alla fine, ammesso e non concesso, che gli Etruschi fossero originari di quelle parti, non si parlerebbe comunque di un oriente alieno alle popolazioni europee.
    Questo libro comunque , oltre che bello, era, soprattutto, necessario.
    Oltre a dare spazio a opere (sottovalutate dall’archeologia ufficiale)come i circoli megalitici di Gosek,le piramidi di Visoko e Nizza (ahimè ormai distrutta da tempo), etc, affronta tematiche tanto affascinanti quanto(apparentemente)inestricabili ,come la presenza nella casa regnante e nelle alte gerarchie egizie di soggetti dalle caratteristiche europoidi. Tutte tematiche già affrontate da Calabrese su “Ereticamente”, ma fa molto piacere ritrovarle su libro(così come popoli dimenticati quali i Kalash o i, purtroppo estinti, Mandan). Il tredicesimo capitolo tratta brevemente anche dell ‘ “Out of Africa”, questione veramente cruciale, che, da quanto ho capito, verrà sviluppata più estesamente in un prossimo volume. La speranza è che libri come questo, non rimangano esperienze isolate, ma stimolino anche altri studiosi a pubblicare su questi temi, creando così una vera”scena”alternativa alle posizioni della scienza ufficiale, fortemente condizionata da un pensiero liberalprogressista sempre più autoritario (mi riferisco soprattutto alla questione dell’origine della specie umana).

  • Palingenius 18 Luglio 2020

    Nonostante mi trovi in disaccordo con alcune teorie espresse dal Prof. Calabrese, soprattutto se viste dal punto di vista della metafisica tradizionale -in particolare con il concetto stesso di indoeuropeo di matrice prettamente moderna, l’associazione implicita fra iperboreo e morfologia nordica attuale(depigmentazione , biondismo etc), l’uso improprio del termine “ariano” per indicare caratteristiche razziali piuttosto che uno “status” spirituale e sociale, origine polifiletica che a parte forse Evola nessun autore tradizionale sostiene etc etc- dicevo senza entrare nel merito di queste osservazioni su cui diciamo mi trovo più in accordo con la visione di Ruzzai non vedo l’ora di leggere questo libro che considero comunque fondamentale, prima di tutto perchè ricomporre in un testo unitario tutto ciò che Calabrese ha espresso in svariati articoli della sua rubrica mi pare già un lavoro che merita attenzione visto la mole di dati, riferimenti, considerazioni ,analisi etc in secondo luogo trovo importante quest’uscita visto il momento sempre più “nero” che stiamo attraversando caratterizzato da auto-razzismo che i liberals vogliono inculcare nei popoli bianchi con parallelo attacco all’identità non solo europea ma direi di ogni popolo “sano” per la creazione del modello di consumatore apolide, sradicato, unisex e appunto meticcio… Quindi credo che questo testo sia comunque una ventata di aria fresca in questo cappa di asfissia intellettuale che diventa sempre più pesante.

    P.S. Complimenti a Michele Ruzzai per l’ottima recensione condita anche da una parziale comparazione con le sue idee, a questo punto aspettiamo un suo testo unitario di ampio respiro sulle origini dell’uomo e lo sviluppo dell’umanità dalla fase primordiale al ciclo attuale, credo che come me tanti altri sarebbero interessati alla sua trattazione dell’argomento. Cordiali saluti.

    • Michele Ruzzai 19 Luglio 2020

      Molte grazie per l’apprezzamento, e per quanto riguarda il libro vedremo: il materiale da aggregare è molto, ma purtroppo il tempo è poco.
      In merito ai punti espressi più sopra, colgo l’occasione del suo stimolante commento per aggiungere un paio di considerazioni. Convengo anch’io sul fatto che, tra gli autori “tradizionalisti”, Evola faccia un po’ caso a sé: la sua impostazione tendenzialmente polifiletica è ben visibile anche dal fatto che, salvo errori, non mi risulta utilizzi mai il concetto di “Manvantara” e quindi per lui è come se non esistesse l’umanità in generale. O, in altri termini, gli elementi differenzianti presenti all’interno di questa, secondo lui sarebbero più importanti – più “qualificanti” verrebbe da dire – rispetto a quelli comuni. Inoltre in quel filone culturale mi sembra sia l’unico che segua Bachofen, anche se non in toto, e che aderisca alle visuali “ariane” che avevano avuto spazio soprattutto in Germania nel XIX secolo e nella prima parte del XX. Ecco, in merito a quest’ultimo punto, uno dei temi che più mi interessano è proprio quello di riuscire a riconciliare tali ricerche (ricordiamo anche l’importante opera di Herman Wirth) con il quadro tradizionale espresso da René Guenon e ulteriormente dettagliato da Gaston Georgel. Perché, a mio avviso, se giustamente notiamo i non trascurabili punti di scollamento tra il pensatore romano e il metafisico francese, confesso di avere qualche perplessità anche sul lato opposto, ovvero sulla posizione di Guenon in merito agli Indoeuropei. E’ vero che in quest’ambito vi possono essere stati degli eccessi interpretativi, soprattutto in direzione “pangermanista” (lo rileva anche Evola), ma credo anche che ormai più di due secoli di indoeuropeistica abbiano dimostrato la chiara parentela esistente tra diverse lingue disseminate fra l’Islanda e il Bengala: ed è un filone di ricerca che non è stato sostanzialmente rivoluzionato dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la sconfitta tedesca, il che credo significhi che le risultanze alle quali tale disciplina era arrivata, apparivano oggettivamente così solide da non poter essere smantellate da nessuna opera di “de-nazificazione”. Semmai erano da valutare gli aspetti razziali connessi a tale discorso, ed in effetti è soprattutto lì che i “censori” si sono maggiormente esercitati.
      Trovo giusto il suo rilievo sul termine “ariano” e sul fatto che esso implichi la problematica questione di alludere (solamente) a una qualità di tipo spirituale (quindi, se vogliamo essere più espliciti, a un tema più connesso al discorso delle Caste), o se esso porti con sé (anche) un contenuto di carattere razziale. Le confesso che è anche per me è una questione sulla quale mi interrogo spesso e che mi ha portato a formulare quella che non è certo una conclusione definitiva ma più che altro una ipotesi di lavoro, che qui di seguito provo a illustrarle.
      Ovvero: il compianto Giuseppe Acerbi ha, a mio avviso, molto acutamente messo in luce la correlazione tra il termine “Arya” e quello che definisce gli “Heroes” greci, la quarta generazione che venne pensata dal greco Esiodo. E mi ha fatto piacere constatare che anche Acerbi contemplava una possibilità della quale sono da sempre convinto, ovvero la sovrapponibilità tra le 5 generazioni esiodee e i 5 Grandi Anni nei quali è possibile suddividere il Manvantara. Certo, vi è sempre la “classica” idea, che comunque Acerbi non escludeva, di provare anche a far corrispondere queste 5 generazioni (Oro, Argento, Bronzo, Eroi, Ferro) con i 4 Yuga indù (Krita, Treta, Dvapara, Kali), ma appunto in questo caso gli “Eroi” sembrano essere un “di più” e si trovano malamente compressi tra fine Dvapara ed inizio Kali Yuga, in una posizione che a me è sempre sembrata piuttosto artificiosa. Quindi ritengo molto più lineare interpretarli in una prospettiva quinaria e dunque, essendo essi i quarti della serie esiodea, farli corrispondere al Quarto Grande Anno del Manvantara, cioè quello che secondo la cronologia “Guenon/Georgel” dovrebbe grossomodo essere durato tra 26.000 e 13.000 anni fa. D’altro canto, per quanto riguarda le Razze umane “fisiche” del nostro ciclo, sempre secondo l’anzidetta cronologia dovremmo avere le 4 tradizionali (Bianca, Nera, Gialla, Rossa) alle quali andrebbe aggiunta la “Hamsa” iniziale (e trovo interessante l’ipotesi che qui, situandoci nella parte aurorale del nostro ciclo umano, Razza e Casta siano praticamente sinonime: poi i due concetti potrebbero aver iniziato ad acquisire dinamiche diverse). Ebbene, a mio parere – e qui in effetti mi distacco dall’interpretazione di Guenon e Georgel – è al Quarto Grande Anno del Manvantara che dovrebbe essere associata la Razza Bianca (e noterà che ci collochiamo a un livello cronologicamente piuttosto distante dall’inizio “iperboreo” del Manvantara e la sua “Eterna Primavera”, che a mio parere non dovrebbe richiamare, non ancora almeno, un tipo fisico particolarmente depigmentato). Il che ovviamente non significa che la Razza Bianca non possa essere esistita anche prima, e tanto più dopo, ma che quello sia stato cosmologicamente il “suo” periodo, cioè la fase nella quale forse l’appartenenza del corpo a quella data Razza poteva manifestare più limpidamente che in altri momenti il possesso di qualità spirituali di un certo tipo, compatibilmente con la situazione generale del Manvantara. Beninteso, questo è un discorso – ovviamente del tutto congetturale e che butto lì più che altro come “cantiere aperto” – che in ogni caso riguarda tutte le Razze ed i rispettivi periodi di “apice”, ciascuna nel suo Grande Anno di competenza. Ebbene, è chiaro che le 5 generazioni di Esiodo hanno delle denominazioni (ricordiamole: Oro, Argento, Bronzo, Eroi, Ferro) che non collimano con quelle delle Stirpi corporee e, per come la vedo io, è come se esprimessero più che altro delle tendenze “sottili” e delle inclinazioni animiche predominanti nel loro periodo di competenza, che risponde sempre alla logica dei Grandi Anni. Quindi non si può dire che vi sia un’effettiva identità fra la Razza fisica predominante in un dato Grande Anno e la contemporanea generazione esiodea. Però forse si può pensare che tra le due vi possa essere una certa corrispondenza, una sorta di viaggio in comune fra piani diversi, dove una è, in qualche modo, “controparte” dell’altra. Ecco perché, a mio parere, si può affermare che la Razza Bianca è analoga – non identica – alla generazione eroica; e se, come ci ha segnalato Acerbi, gli Heroes sono gli Arya, allora i Bianchi e gli “Ariani” hanno finito – confusamente e forse anche attraverso percorsi inconsci – con il diventare un tutt’uno. Dunque, volendo adottare questa chiave di lettura, il termine “Ariano” andrebbe assunto più in chiave ideale e come “compito” al quale tendere, e meno come denominazione bio-fisica. Che invece potrebbe rimanere alla classica “Razza Bianca” o al limite, volendo cercare qualche rimando mitologico, potrebbe trovare nel nome del Titano Giapeto, “pilastro dell’Ovest” (anche se l’Ovest è collegato anche alla Razza Rossa, ma il tema della sovrapposizione tra Rossi e Bianchi ora ci porterebbe lontano) una possibile alternativa.
      Mi scuso se mi sono dilungato un po’ e la saluto cordialmente.
      Michele Ruzzai

  • Rita Remagnino 19 Luglio 2020

    Leggerò con grande piacere il libro consigliato, dato che a mia volta studio e scrivo di Storia delle Origini, e prossimamente pubblicherò qualcosa anche su questo sito che offre il vantaggio di avere degli attenti lettori.
    Tra i «prenordici» che portarono all’apice la civiltà Aurea nella regione artica, circa 52.000 anni fa, comunque, non esisteva ancora il biondismo che tanto influenzò le popolazioni caucasiche. Uomini e donne non erano decisamente bianchi né neri ma appartenevano a una stirpe ancestrale con caratteristiche più o meno intermedie tra i due estremi. Date le condizioni climatiche di quella zona a quei tempi il colorito era probabilmente «rosso-bruno», come quello di certi «pellerossa» nordamericani..Tutto fa pensare all’antenato primordiale come a un essere molto alto e robusto, pelle abbronzata, occhi obliqui dello stesso azzurro della fiamma pura, capelli rossi.
    Con quale diritto gli attribuiamo la matrice «rossa»? Chi l’ha mai visto? Sono passati millenni. Bé, disponiamo di un numero cospicuo di racconti, dal Caucaso alla Scandinavia, dall’Egitto all’India, che descrivono antichissimi Maestri dalla pelle d’ambra, gli occhi a mandorla «splendenti» e i capelli rossi. Anche in certe pitture rupestri del Sahara risalenti al neolitico sono immortalati cacciatori con i capelli rossicci.
    Lo stesso Adám, il primo uomo plasmato dal Signore, o da Ea-Enki secondo i Sumeri, ci viene descritto come «rosso in quanto fatto d’argilla». Aveva lo stesso colore la sua gemella, Lilith la Rossa, già presente in tutte le tradizioni mesopotamiche e probabilmente antecedente ad esse.
    Per un motivo che potrebbe sembrare accidentale, se non sapessimo che nell’antichità ogni parola aveva il suo peso e nessuno parlava a vanvera, la Bibbia sentì il bisogno di specificare che Esaù, gemello di Giacobbe e figlio di Isacco, era «rosso come un mantello di pelo». Una caratteristica, questa, che l’Antico Testamento sostiene essere appartenuta allo stesso re David e ad altri personaggi di alto rango. Si trattava, probabilmente, di un modo per dare lustro a un pezzo grosso sottolineando la sua discendenza diretta dai primi indimenticabili civilizzatori.
    Ancora più espliciti furono gli Egizi, che definivano «rossi» tutti gli stranieri provenienti da oltre confine a prescindere dall’etnia di appartenenza. Forse un retaggio culturale che risaliva alla lontanissima epoca in cui apparve nella terra bagnata dal Nilo «la compagnia di Osiride», cioè i primi esploratori con la pelle chiara, gli occhi splendenti e la capigliatura fulva. Avendo costoro istituito e rivestito in principio le cariche di Maestri e sacerdoti, guerrieri e sapienti, re e regine, era gioco forza che il «rosso» finisse per diventare il colore sacro per eccellenza, godendo a lungo di una reverenziale considerazione.
    I Fenici, «i rossi del mare», potrebbero essere stati gli ultimi discendenti della «Stirpe Rossa» primordiale, la quale avrebbe dato origine anche agli Himyariti – termine che significa, appunto, «i rossi» – da cui il nome del Mar Rosso. Ma ne riparleremo in futuro, magari partendo dapprincipio che è sempre meglio.
    Nel frattempo, complimenti all’autore.
    Anche al recensore, naturalmente.

    • Michele Ruzzai 19 Luglio 2020

      Sig.ra Remagnino, molte grazie a lei per l’apprezzamento ed anche per le considerazioni contenute nel commento, sulle quali mi trovo d’accordo. In questa stessa direzione mi permetto di segnalarle due miei articoli precedenti, sempre su questo sito, ovvero “Il colore della pelle” e “L’elemento Aria, Lilith e l’iniziale Razza Rossa” che credo si collochino sulla stessa linea d’indagine da lei accennata, e che trovo davvero molto interessante. Colgo l’occasione anche per fare riferimento alla nota di “Palingenius” di poco fa sulla Razza Primordiale (la Hamsa) di inizio ciclo e penso si possa arrivare al seguente compromesso: quel livello, assolutamente aurorale e probabilmente connotato anche da una diversa “corporeità” (in fondo lo accenna anche Evola) può essere stato pertinente al Primo Grande Anno del Manvantara, mentre il sorgere di un tipo “Rosso” – collegato alla “Eterna Primavera” e non ancora depigmentato in modo così pesante come i Nordici più recenti – potrebbe invece rappresentare la prima radice di un Uomo come lo intendiamo noi oggi. Ed infatti non mi sfugge che lei abbia parlato di 52.000 anni fa, ovvero l’inizio del Secondo Grande Anno, pur sempre all’interno del Krita Yuga. Forse qualche considerazione a latere potrebbe essere fatta in merito al discorso del peso dell’elemento femminile che Wirh immagina per i suoi “Prenordici” (e che, a mio avviso, orienterebbero forse a farli collocare ancora un po’ più tardi, cioè nell’Età della Madre, ovvero nel Treta Yuga), ma ovviamente si tratta di congetture che non è facile poter confermare, e quindi vi è senz’altro lo spazio per provare serenamente a ragionarci su, magari con il contributo di più apporti.
      Apprendo infine con molto piacere che lei collaborerà con Ereticamente, e quindi leggerò con vivo interesse i contributi che vorrà condividere.
      Un cordiale saluto.
      Michele Ruzzai

  • Palingenius 19 Luglio 2020

    Grazie Michele della risposta e delle specificazioni, trovo molto interessanti queste osservazioni che in effetti aprono molti scenari e possibilità di approfondimento… Premetto che per quanto mi riguarda trovo la ricostruzione di Guenon/Georgel quella più solida in campo tradizionale (soprattutto a livello di datazione e quadro generale di riferimento, poi per le singole associazioni è più complesso arrivare ad una definizione completa) seppur è ovvio che anch’io mi sia posto gli stessi interrogativi ed abbia preso in considerazione tutte le altre possibilità qui presentate o possibili integrazioni che non si vanno ad escludere a vicenda… Riguardo in generale la scala cronologica da utilizzare è chiaro che il Manvatara può essere scomposto ulteriormente, così come i semi-cicli al suo interno, quindi ogni tipo di classificazione -ternaria, quaternaria quinaria etc- può variare da tradizione a tradizione pur rimanendo sostanzialmente sovrapponibile con le dovute accortezze interpretative… Sono molto in sintonia con lo spunto offerto riguardo l’età degli Heroi e sulla sua associazione “sottile” con gli Arya, ed in effetti le considerazioni del compianto Acerbi le trovo assolutamente pertinenti anche se non ho approfondito tutto il suo lavoro, quindi su questo mi riservo ulteriori commenti ma sul fatto che ci sia in qualche modo un legame, una “corrispondenza” nella direttrice di quel periodo è probabile… Concordo altresì con la visione secondo la quale ogni razza abbia avuto un suo periodo cosmologico che potrebbe grossomodo corrispondere ad una tendenza “sottile” o “animica” all’interno del Manvatara, del resto la stessa ricostruzione di Guenon/Georgel non nega affatto questo ed anzi lo inserisce all’interno di un preciso quadro di riferimento cosmologico e simbolico… sono in sintonia anche ovviamente sull’associazione fra Giapeto ed i popoli Bianchi, sull’Ovest invece ho qualche dubbio in più appunto per la sovrapposizione con la Razza Rossa, ma in effetti qui ci sarebbe molto da dire e non è facile districare questa sovrapposizione seppur potrebbe essere risolta attraverso una giusta collocazione temporale dell’analogia in questione, poi bisogna anche intendersi sul significato di Ovest che per me dovrebbe essere associato esclusivamente al momento “atlantideo” mentre i Giapetiti possono essere associati ai popoli europei bianchi (sciti, medi, lidi , iberici, frigi, tirreni etc) e quindi al Nord, in questo caso l’ipotesi indoeuropea può avere certamente senso se riferita a questo quadro e del resto la teorizzazione nacque proprio attraverso il presupposto di quest’antenato comune europeo secondo la cronologia abramitica, però personalmente preferisco considerare l’indoeuropeo più un concetto linquistico che non razziale seppur le due cose possano in questo caso essere viste quasi come parallele, anche se non dimentichiamo che c’è sempre da considerare quel famoso sub-strato indoeuropeo; al di la di questo rimane il fatto che sia secondo la cronologia biblica, sia secondo le altre fonti tradizionali e la ricostruzione Guenon/Georgel si parla sempre della Razza Bianca e dei popoli Giapetiti come di quelli più recenti e questo dato secondo me è rilevante nell’analisi generale, questo non esclude assolutamente l’associazione con la generazione degli Heroes ed infatti anche secondo alcune tradizioni ebraiche sono soprattutto i primi greci a corrispondere ai giapetiti, e su questo si può forse provare anche a spiegare l’associazione esiodea con l’ovest per quanto riguarda il titano Giapeto
    che può essere visto come un capostipite pre-ellenico(l’etimologia Jafet/Giapeto a questo punto potrebbe precedere entrambe le tradizioni giudaica e greca, ed avere un origine comune primordiale) quindi bisognerebbe collocare i punti cardinali in modo diverso rispetto alla tradizionale assegnazione, del resto quest’aspetto dei punti cardinali sappiamo come possa variare da tradizione a tradizione a seconda del punto di osservazione dal quale ci si pone… ( altra cosa interessante da fare sarebbe una comparazione fra la genealogia esiodea e quella biblica). In definitiva a livello cronologico, opterei per un’associazione della Razza Bianca con la fine del quarto ed con tutto il quinto grande anno, ovvero dai 13.000/10.000 anni a.C. ad oggi, quindi molto vicino sia sia all’ interpretazione di cui sopra che a quella che li associa ad un periodo posteriore al diluvio atlantideo, quindi se vediamo la questione in maniera più sfumata e tralasciando eccessi interpretativi alla fine non mi pare ci sia molta distanza fra le varie ipotesi… Affronto di sfuggita un ultima questione, ovvero quella fra origine monofiletica e polifiletica… Personalmente se mi si chiedesse quale sarebbe la mia idea non esiterei a dire la prima per forza di cose, ma vedi Michele(mi permetto di darti del tu) secondo il mio modesto parere questa è una falsa dicotomia ed un falso problema alla stregua dello scontro fra monoteismo e politeismo e le due questioni le ritengo molto più legate di ciò che si possa pensare. Per me non esiste una differenza sostanziale fra tradizioni monoteiste e politeiste, esiste nella forma con cui si presentano per adattamento ma come sa chi studia le dottrine metafisiche gli “dei” delle tradizioni pre-abramitiche corrispondono perfettamente agli “angeli” delle tradizioni abramitiche, così come il Dio del Cielo è sempre lo stesso, così come il principio di un “eterno femminino” c’è ovunque, insomma anche qui l’esistenza di una Tradizione Primordiale corrispondente all’Umanità Iperbora, alla super-casta originaria Hamsa ed a una Razza Primordiale non si può confutare attraverso le teorie polifiletiche semplicemente perchè queste si situano su un piano diverso di interpretazione, allora io sostengo che la visione dualista di Evola e Bachofen, le teorie di Wirth etc sono perfettamente accettabili se collocate nelle giuste e rispettive scale di riferimento, e così avremo un quadro che è assolutamente complementare fra la visione complessivamente unitaria,primordiale e monofiletica di Guenon-Georgel-Coomaraswamy e quella complessivamente dualistica, atlantidea e polifiletica di Evola-Wirth-Bachofen , insomma possiamo integrare queste due visioni a mio modesto avviso utilizzando la giusta scala di riferimento, ed in effetti la cronologia di Wirth o di Evola ad esempio è sovrapponibile a quella guenoniana se la facciamo partire 20.000 circa anni dopo quella del francese… Insomma sarebbe come prendere il mito romano di Romolo e Remo, Evola si concentra sulla contrapposizione dualistica fra i due mentre Guenon si concentrerebbe sulla monogenesi comune dalla stessa Lupa risolvendo così su un altro piano l’apparente dualismo che però è assolutamente esistente ad un livello corrispondente a quello analizzato da Evola, quindi entrambe le visioni sono complementari ed integrabili, la stessa cosa avviene nella cronologia, semplicemente Evola e Wirth situano a livello iperboreo ciò che seppur antichissimo non lo è più, però se collochiamo le loro considerazioni all’interno del corretto momento( quello dell’ Atlantide Settentrionale per intenderci) allora ci ritroviamo con la cronologia tradizionale… Per chiudere penso sia questa la strada maestra da seguire nella ricerca delle origine e dello sviluppo della presente umanità, senza settarismi e senza pre-concetti e cercando di smussare gli angoli e gli eccessi interpretativi provando ad integrare il meglio da ogni autore… Mi scuso anch’io per la prolissità , cordiali saluti.

    • Michele Ruzzai 19 Luglio 2020

      Grazie Palingenius per l’ulteriore commento che pone ulteriori interessanti questioni. Per non dilungarmi troppo, mi soffermerei solo sulle tue ultime considerazioni (va benissimo il “tu”, ci mancherebbe) e devo dire che mi trovi in pieno accordo sul discorso della “collocazione” del quadro, diciamo, “Evola / Wirth” nel più ampio contesto di quello definibile “Guenon / Georgel”. Quindi visuali che potrebbero benissimo non essere alternative, ma semplicemente attinenti a cornici temporali diverse. Ad esempio, Evola non si riferisce praticamente mai a un momento autenticamente unitario di inizio ciclo, però almeno in un’occasione menziona la primordiale Hamsa come di quella razza che fu “anteriore ad ogni successiva differenziazione” (in: Julius Evola – Sulla tradizione nordico-aria (Razze – Simboli – Preistoria mediterranea) – in: Esplorazioni e Disamine, gli scritti di “Bibliografia Fascista” (volume primo: 1934-1939) – Edizioni all’insegna del Veltro – 1994 – pagg. 195, 196). Poi, a quanto mi risulta, non ne parla praticamente più negli altri suoi scritti. Ma il punto c’è, e lo riconosce anche lui, solo che forse la sua “forma mentis” (o “equazione personale”?) lo portano più ad indagare gli elementi di distinzione rispetto a quelli unitari, e ciò anche nello studio delle Civiltà. Grazie ancora e un cordiale saluto.

  • Palingenius 19 Luglio 2020

    @Rita Remagnino Trovo corrette le sue osservazioni sulla Razza Rossa però mi sento in dovere di fare una distinzione fra questa e la Razza Primordiale che a mio avviso non possono corrispondere, in questo vi vedo la stessa confusione che fanno Evola e Wirth fra il momento atlantideo e genericamente settentrionale con il momento realmente edenico,polare e iperboreo in cui l’umanità Hamsa secondo le indicazioni tradizionali non era “corporeizzata” così come la conosciamo ed in cui le varie distinzioni razziali non potevano essere presenti se non in nuce… Questo comunque è un argomento molto complesso e come detto da Ruzzai di non facile risoluzione, segnalo in proposito ciò che scrive proprio Guenon in Forme tradizionali e cicli cosmici : “Segnaliamo ancora, fra i derivati della radice adam, la parola edom, che significa «rosso di capelli» e che d’altronde differisce dal nome Adam soltanto per le vocali; nella Bibbia, «Edom» è un soprannome di Esaù, da cui il nome di Edomiti, dato ai suoi discendenti, e quello di Idumea dato alla loro terra (e che in ebraico suona ancora Edom, ma al femminile). Tutto questo ci ricorda i «sette re di Edom» di cui si parla nello Zohar, e la stretta rassomiglianza di Edom con Adam può essere una delle ragioni per cui questo nome viene scelto qui per designare le umanità scomparse, cioè quelle dei precedenti Manvantara. In tal modo, ci si può rendere conto del rapporto esistente fra la questione appena accennata e quella dei cosiddetti «preadamiti»: se si considera Adam come l’origine della razza rossa e della sua particolare tradizione, può trattarsi semplicemente delle altre razze che hanno preceduto quest’ultima nel corso dell’attuale ciclo umano; se lo si considera, in un significato più ampio, come il prototipo di tutta la presente umanità, si tratterà di quelle umanità anteriori alle quali, precisamente, alludono i «sette re di Edom»

  • Daniele Bettini 23 Luglio 2020

    Per utilità ripubblico il link dove pote scaricare gratuitamente tutti gli articoli di Ruzzai in word con l’indice alla fine del testo :

    https://it.scribd.com/document/334814053/MANVANTARA-Antologia-di-testi-sull-origine-dell-uomo-e-delle-sue-razze-secondo-la-tradizione

    • Michele Ruzzai 23 Luglio 2020

      Daniele Bettini, grazie mille, molto gentile da parte sua. Se ritiene che possa essere utile, potrei anche fornire una breve indicazione del più corretto ordine di lettura di questi scritti, dal momento che a suo tempo li avevo proposti agli amici di Ereticamente man mano che li ultimavo, ma senza una programmazione precisa e un progetto organico fin dall’inizio. Di conseguenza l’ordine di uscita solo in parte ha una logica e potrebbe potrebbe essere migliorabile con una mia breve nota preliminare. Mi dica lei: per me non c’è problema a prepararla, anzi è praticamente già pronta. Un cordiale saluto.

  • Daniele Bettini 26 Luglio 2020

    Se metti qui la nota preliminare
    e l’indice corretto degli articoli qui sotto
    poi vedro’ di metterli nella corretta sequenza e
    con l’introduzione in formato PDF su scribd.

    • Michele Ruzzai 26 Luglio 2020

      Grazie Daniele, ecco sotto la nota preliminare, vedi pure tu se vuoi rielaborarla:

      La reale sequenza di pubblicazione dei miei articoli su Ereticamente, che avrebbe dovuto essere seguita se il lavoro fosse stato pensato fin dall’inizio come un tutto organico (mentre invece lo è diventato solo strada facendo), è quella indicata sotto, tenendo comunque presente che questi scritti seguono due filoni distinti.

      Il primo filone non è legato alla cronologia del nostro ciclo umano (il “Manvantara”), ma più ad un’occasionalità degli argomenti incontrati di volta in volta, e riguarda nell’ordine i pezzi:

      01a) Quale “Evoluzione” ?
      02a) Discontinuità della nostra Preistoria
      03a) Il Paradiso Iperboreo
      04a) “Madre Africa” ?
      05a) Le più antiche caratteristiche razziali
      06a) Il colore della pelle
      07a) Unità, dualità e molteplicità umana.

      Questa serie di 7 pezzi può cioè essere considerata a sè stante, trattando argomenti di carattere più generale.

      Il secondo filone, invece, si attiene alla cronologia del Manvantara e quindi non dovrebbe iniziare con “La fine dell’Età Primordiale e la Caduta dell’Uomo” – che però è stato il primo ad essere pubblicato perchè era quello che al momento avevo pronto – bensì dovrebbe seguire quest’ordine:

      01b) L’Uomo originario e l’inizio dell’Età Paradisiaca
      02b) Il Polo, l’incorporeità, l’Androgine
      03b) Il Demiurgo e la possibilità negativa: caduta
      04b) Il Demiurgo e la possibilità positiva: plasmazione
      (….POI QUI NEL 2014 ERANO STATI INSERITI I 7 PEZZI DEL PRIMO FILONE CHE PERO’, RIPETO, POSSONO ESSERE TENUTI DEL TUTTO A PARTE…)
      05b) La seconda metà dell’Età Paradisiaca: alcuni concetti preliminari
      06b) La bipolarizzazione sessuale, il “femminile” e l’avvento della corporeità umana
      07b) L’elemento Aria, Lilith e l’iniziale Razza Rossa
      08b) Nord-Sud: la prima dicotomia umana e la separazione del ramo australe
      09b) Il ramo boreale dell’Uomo tra Nord-est e Nord-ovest
      10b) Titani, Antenati mitici ed Eroi culturali
      11b) — QUI —> La fine dell’Età Primordiale e la Caduta dell’Uomo
      12b) Dopo la Caduta: l’Età della Madre e la Luce del Sud
      13b) Giganti, Eroi, Razza Bianca
      14b) Il Secondo Pleniglaciale, Nordatlantide e l’inizio dell’Età dell’Ascia
      15b) Le radici antiche degli Indoeuropei
      16b) Dal crepuscolo degli Eroi all’inizio del Kali Yuga

      Inoltre, completamente a sé stanti rispetto alle due sequenze sopra (risalenti al 2014), ci sono ancora questi ulteriori 6 scritti, che possono essere letti ciascuno separatamente dagli altri:

      • “La Patria Artica: alcune note sull’Isola Bianca e l’Isola Verde di Giuseppe Acerbi”, del giugno 2016
      • “Der Aufgang der Menschheit” di Herman Wirth: traduzione in corso…, del dicembre 2017
      • “Herman Wirth e la traduzione di “Aufgang…”: note al primo capitolo “La preistoria delle Razze””, del gennaio 2018
      • “Il “Manifesto della diversità umana”: una “reductio a Friends”?” del dicembre 2018
      • “Arvo e “L’origine delle specie secondo l’esoterismo”: una rilettura” del febbraio 2019
      • “Recensione a “Alla ricerca delle origini” di Fabio Calabrese” del luglio 2020

      Grazie
      Michele Ruzzai

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