Sono ormai molti anni che colloco i miei articoli sulle pagine di “Ereticamente”, settimana dopo settimana per cinquantadue settimane all’anno.
Io vorrei che vi rendeste ben conto che questo lavoro è tutt’altro che facile. Io non sono un giornalista professionista, sono un insegnante, attualmente in pensione, non sono mai stato un inviato speciale, spedito da qualche grande testata sui campi di battaglia, e nemmeno alla caccia di fatti di cronaca, cronaca politica compresa.
Come probabilmente vi sarete resi conto, i miei articoli sono prevalentemente di carattere culturale, con qualche occasionale testo di commento a fatti politici resi ben noti dai mezzi di informazione, poi recensioni, o testi di conferenze come quelle che tengo annualmente al Triskell, il festival celtico triestino.
È vero che vivendo a Trieste, una città la cui identità italiana è costantemente minacciata, ho ad esempio modo di “sentire il polso” della situazione come probabilmente non avverrebbe altrove nella nostra Penisola, tuttavia ogni volta che mi trovo fra le mani materiale sufficiente per stendere un articolo, mi sembra una specie di miracolo.
Bene, però questa volta il problema non sussiste, infatti per una volta posso raccontarvi un caso che mi riguarda personalmente, senza dover almanaccare nulla.
Occorre dire in premessa che c’è una leggenda metropolitana diffusa soprattutto nel meridione, secondo la quale al nord la sanità funzionerebbe in maniera eccellente, a fronte delle difficoltà e dell’inefficienza del sistema sanitario che le persone constatano quotidianamente nelle loro regioni.
Bene, una volta probabilmente era così, ma oggi le cose sono cambiate, e non certo in meglio.
In particolare, per quanto riguarda il Friuli-Venezia Giulia, abbiamo avuto anche noi una non breve stagione di centrosinistra. In parte di quel periodo, ci è stata imposta come presidente della regione l’amichetta di Matteo Renzi, Debora Serracchiani. Durante il suo mandato, costei si è distinta nel tagliare fondi alla sanità e sopprimere posti letto ospedalieri, dirottando i fondi verso iniziative di assistenza ai migranti clandestini, una situazione a cui oggi il centrodestra guidato dal leghista Fedriga non si è affrettato a porre rimedio.
Questo ha avuto ed ha un effetto devastante soprattutto su Trieste, una città con una popolazione prevalentemente anziana, e di conseguenza fragile dal punto di vista della salute e, come vi dicevo, recentemente mi è toccato di sperimentarlo di persona.
Nella notte tra lunedì 26 e martedì 27 maggio mi sono svegliato con forti dolori nella parte bassa dell’addome. Mi si era formato un fecaloma nel tratto terminale dell’intestino, duro e doloroso che non riuscivo assolutamente a evacuare, ma la cosa peggiore era che, avendo anch’io come quasi tutti gli anziani della mia età, una certa ipertrofia prostatica, esso, unito a ciò, mi comprimeva la vescica rendendomi impossibile pure orinare, e la situazione da quel lato si è fatta presto insostenibile, perché, essendo io un soggetto diabetico, soffro pure di poliuria, cioè minzione frequente. Cosa volete, a 72 anni è difficile essere sani come un pesce.
Sebbene stessi malissimo e la situazione si facesse di minuto in minuto più critica soprattutto riguardo alla vescica, ho resistito fino al mattino, quando ho chiamato l’ambulanza. Sono stato portato all’ospedale di Cattinara.
Certamente sapete che nella sanità pubblica i medici sono diventati frequenti come i denti di gallina, ma, come ho potuto constatare osservando le divise e i contrassegni – blu quelli degli infermieri, rossi quelli degli OSS – anche gli infermieri sono diventati merce rara e l’ospedale è gestito soprattutto da OSS.
Per prima cosa, mi hanno messo un catetere. Forse non sapete bene cos’è un catetere, e allora ve lo spiego, è in sostanza un sottile tubo che ti mettono attraverso il pene fino alla vescica, che all’esterno finisce in una sacca dove si raccoglie l’urina. Scomodo e fastidiosissimo.
Dopo aver liberato la vescica in tale modo, ho chiesto che me lo togliessero, spiegando che, se non fosse stato per il fecaloma non avrei avuto problemi di minzione, semmai il contrario, data la poliuria diabetica.
Credete che qualcuno mi sia stato ad ascoltare? Macché, anzi, ho avuto la netta impressione che le mie parole suscitassero la loro ilarità. In ogni caso, mi hanno detto, solo un urologo poteva rimuoverlo, e al momento non ce n’erano.
Insomma, mi hanno rimandato a casa con l’ingombro del catetere. Una volta arrivato, sono riuscito a liberare l’intestino per vie naturali, ma non avevo idea che la mia odissea nella pubblica (in)sanità fosse soltanto all’inizio.
Nel verbale di pronto soccorso che mi avevano dato, c’era il numero telefonico per contattare il reparto di urologia per la rimozione del catetere, chiamai e mi diedero un appuntamento per il 17 giugno, da lì a tre settimane, nelle quali mi sarei dovuto tenere quell’ingombro invalidante e sostanzialmente inutile, ma il peggio doveva ancora venire.
La mattina di mercoledì 28 maggio mi sveglio con forti dolori nella zona genitale, e la sacca che conteneva più sangue che urina. Con ogni probabilità, durante la notte il catetere si era spostato, graffiandomi e irritandomi le pareti interne della vescica.
Non ne avevo idea, ma stava per iniziare una delle giornate peggiori della mia vita.
Ho dovuto di nuovo rivolgermi al pronto soccorso, e questa volta l’ambulanza è stata rapidissima: chiamata la mattina presto, è giunta a prelevarmi tra mezzogiorno e l’una.
Arrivo all’ospedale di Cattinara e mi sembra di sprofondare in un incubo. Il pronto soccorso era letteralmente gremito di barelle con pazienti in attesa di essere visitati, tanto che per i rari infermieri e gli OSS era quasi impossibile muoversi tra un paziente e l’altro. Potete immaginare in quali termini, dentro di me, abbia benedetto il miracolo compiuto dalla Serracchiani.
In breve, sono rimasto per nove interminabili ore disteso su una barella, senza null’altro da fare che guardare nel vuoto e tenermi i miei dolori, e potete immaginare cosa possa significare questo per una persona sostanzialmente attiva come me, che non sopporta l’inerzia.
La cosa peggiore, però, è che nell’arco di queste nove ore non ho trovato nessuno disposto ad ascoltarmi, a cui avrei potuto spiegare che il mio problema era il catetere, non altro, una volta risolta la situazione dell’intestino.
Verso le nove di sera, ho dovuto letteralmente supplicare che mi dessero qualcosa da mangiare, infatti era dalla sera prima che non avevo messo in bocca nulla, e non ne potevo più dalla fame.
Mi hanno portato quello che loro chiamano un passato di verdure, grissini, un piccolo brick di succo di frutta, un pezzetto di ricotta piuttosto acida. Ho divorato i grissini e la ricotta e bevuto il succo di frutta, ma quello che loro chiamano passato di verdure e a me è sembrato piuttosto limo di palude, nonostante la fame solo parzialmente placata, non sono proprio riuscito a mandarlo giù.
Verso le nove e mezza di sera, arriva finalmente un medico a visitarmi. Si fa per dire, naturalmente. In realtà si trattava di una dottoressa piuttosto giovane che doveva essere una neolaureata, che ha dato un’occhiata fuggevole alle carte, non credo che abbia nemmeno guardato me, e comunque non mi ha lasciato il tempo di dire una parola. Comunque, ha concluso che, dato che i dolori mi erano passati, potevo essere dimesso e tornare a casa.
A Trieste abbiamo un’espressione nel nostro dialetto, “Andar baul e tornar casson”, andare baule e tornare cassone, cioè muoversi avanti e indietro senza aver concluso nulla. Bene, è esattamente così che mi sono sentito dopo nove tediosissime ore di attesa.
Il giorno dopo, giovedì 29, mi sono rivolto a un urologo in privato, una persona che conoscevo già come medico bravo e competente, ma resta il fatto che sempre più spesso siamo costretti a ricorrere al privato per tappare “i buchi” della sanità pubblica, e questo significa che, per disgrazia, chi non ha disponibilità economiche, è costretto a rinunciare a curarsi.
Dopo avermi visitato, il dottore ha concluso che in ogni caso non si poteva togliere il catetere fino a quando il sanguinamento e l’infiammazione alla vescica non mi fossero passati, e mi ha fissato un nuovo appuntamento di lì a dieci giorni per lunedì 9 giugno.
Ora, io vorrei che voi capiste esattamente cosa hanno significato per me quelle due settimane passate con il catetere. Come vi ho già detto, soffro di poliuria diabetica, e questo significa che quel dannato attrezzo che toglie il controllo della vescica mi ha risucchiato una quantità tutt’altro che trascurabile di liquidi corporei. Ma la cosa peggiore non è stata questa. Durante il giorno, potevo staccare la sacca e mettere un tappo, ma questo è servito a poco, perché spesso mi veniva un incontenibile e bruciante stimolo a orinare, e allora l’urina scorreva dal pene attorno al tubicino del catetere, bagnandomi la parte anteriore dei calzoni e costringendomi a mettere un pannolone, e in queste condizioni non me la sono sentito di uscire di casa, oltre alla spossatezza dovuta alla perdita di liquidi.
In breve, per un paio di settimane mi è toccato vivere da recluso e da invalido, un’esperienza estremamente frustrante per una persona attiva e relativamente in buone condizioni di salute come il sottoscritto, in più con la consapevolezza che quel catetere, che era servito per non più di dieci o cinque minuti martedì 27 maggio per vuotarmi la vescica, era dopo di allora un trattamento inutile e sbagliato per una situazione che si sarebbe risolta assai prima e assai meglio con un bel clistere, e in più con il timore inconfessato di non riuscire più a recuperare il controllo delle funzioni sfinteriche nemmeno dopo la rimozione dell’infernale aggeggio.
Vi confesso una cosa: undici anni fa mi è stato scoperto un bel tumore al colon, che fortunatamente, dopo che sono stato operato non ha presentato recidive di sorta. Bene, in quella circostanza mi spaventai meno di quanto mi è successo ultimamente. L’idea di morire mi angoscia di meno di quella di passare il resto della mia vita da invalido.
Finalmente, lunedì 9 giugno il medico mi ha tolto il catetere. L’intervento in sé non è doloroso, appena un po’ fastidioso, e richiede pochi minuti, ma bisogna attendere in modo da dare al medico la possibilità di accertarsi che le funzioni vescicali siano state pienamente recuperate.
Adesso sono qui, pronto a riprendere, anzi a continuare, dato che nonostante tutto non l’ho mai interrotta, la battaglia per la causa, con la parola, non avendo altre armi. Come al solito.
Tuttavia, devo dire che quel che ho imparato da questa brutta avventura non mi fa pensare che la colpa della situazione penosa della sanità ricada principalmente sugli operatori. Quando a causa del taglio dei fondi e della riduzione del personale, un operatore si trova a dover gestire un numero spropositato di pazienti, che sia medico, infermiere od OSS, non può dedicare a ciascuno di essi l’attenzione che meriterebbe e sarebbe necessaria. La responsabilità ricade principalmente sulla classe politica, che trova fondi a pioggia per i migranti, per mandare armi in Ucraina, ma per la sanità, per la scuola o per gli asili nido, ebbene, risorse non ce ne sono.
NOTA: Nell’illustrazione, l’ospedale triestino di Cattinara, dove ho vissuto l’odissea sanitaria che vi ho raccontato.
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