6 Dicembre 2024
Poesia

Poiesis ed il linguaggio archetipale – Alessandro Caredda ©

Poiesis è in primis linguaggio archetipale.

Le nobili scatole della tecnica lirica e le sue ritmiche dal rigore inanellato vengono a porre ordine e rimedio soltanto dopo il parto coscienziale. Senza la partenogenesi, il concepimento stravolgente, rimane e si riduce ad esercizio di erudizione e acrobazia lessicale, un prosa svuotata dal contenuto estatico e creativo, quell’enfasi che si fa strada nel profondo del poeta e dopo nel lettore violentandone la monotonia del quieto e ordinario raziocinare. Il buon poeta ha l’ingrato compito di agitatore, scuote le fondamenta del banale, fomenta il nuovo evocando antichissime radici e sgomenta i binari preposti al fine di ritornare alla contemplazione ancestrale e siderale. (Il testo qui sotto è del poeta cileno Vicente Huidobro)

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Alcuni frammenti dalla culla greca arricchiscono questo eterno antagonismo tra prosa e poesia, conoscenza e sapienza, nozionismo e interiorizzazione:

Socrate racconta che Theuth, l’ingegnosa divinità egizia, si recò presso re Thamus, allora sovrano dell’Egitto, per sottoporgli le proprie invenzioni, consigliandogli di diffonderle presso il suo popolo, che ne avrebbe tratto grande giovamento. Le svariate arti che la divinità proponeva al re ricevevano molti commenti da parte di quest’ultimo, che o lodava o criticava le stesse. Quando Theuth propose a Thamus l’arte della scrittura, la divinità si espresse con queste parole:

« Questa conoscenza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza »
(Platone, Fedro)
La risposta del re non tardò ad arrivare:

« O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti »
(Platone, Fedro 274c – 275b, trad. it. Giovanni Reale)

Il Plutarco tuona in un frammento:

La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere.”

Un Galimberti spezza una lancia verso la poiesis creativa, evocando in altre conferenze l’Athena che nasce dalla mente di Zeus.

L’intelligenza non è un parametro misurabile; e soprattutto non è un valore univoco, le intelligenze sono molteplici: c’è un’intelligenza logico-matematica, c’è un’intelligenza artistica, c’è un’intelligenza musicale, c’è addirittura un’intelligenza corporea che permette agli sportivi di muoversi con agilità e coordinazione. Le intelligenze sono molteplici: è un mito che l’intelligenza possa essere misurata con un calcolo matematico, e la conferma ce l’abbiamo se pensiamo ai creativi, che secondo i parametri scolastici sono solo distratti, ma che poi dimostrano la straordinarietà delle loro ideazioni.”
Umberto Galimberti

Vi allego alcuni esempi di linguaggio archetipale che ho vergato in questi anni in ordine cronologico:

All’alba andavo a travasare i miei sogni in un forno concavo. Tra le mani una leggera fiamma, portata all’altezza del vaso solare, iniziava a sublimare le sue fibre più sottili. Le mie braccia, gemelle, operavano all’unisono su quella sostanza, il raccolto della notte ventura, il seminato del giorno prima. Un diavolo vermiglio mi suggeriva di modellare la luce. Un angelo mi intimava di abbandonare la pece saturnia. Decisi di operare su di essi, che favellavano con tanto chiacchierio, disturbando il mio silenzio.
Fu allora che mi accorsi del tacere del calice, quel forno che mi parlava con voce archetipale. Ad esso sacrificai i due pallidi oratori, divennero cenere, bruma e saetta. Tacevano, in me, come le quieti dopo la tempesta della metamorfosi.

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Orapollo,
orifizio animico,
orogenesi
culturale,
bagaglio lessicale,
vociferata poiesis
parlarsi del sottile
senza la pesante digestione semantica
volgo consenso, duttile
non rimato, archetipale
prostituzione romantica, vocale,
apoteosi del dire
messaggero primordiale
essenziale
il guerriero
s’appellava sentire
e danzava coi passi del tutto
nei teatri del nulla.

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Le ascolto tutte,
Queste leggende
Miti,
Fiabe,
ma con sommo discernimento soggettivo,
in base alla mia proiezione macrocosmica
e introspezione coscienziale
Mano salda al timone
con le redini del cuore,
la potenza dell’eros,
La forza della mente
Verso Itaca
Son nessuno quando mi spoglio della polvere del mondo, come Odisseo, immune dal canto soave
delle sirene abissali
Allegoria della coscienza,
Ulisse, ritorna in patria, uterina
Con le frecce trafigge i rivali interiori
Per amore della poiesis
E dice, urlante il suo arco, eccolo, il sagittario cacciatore delle immonde bassezze che mi popolano, domate dalla mira, paziente esercizio di centratura
Come Arjuna, nella Baghavad Gita e Mahabarata orientale
Il poema più lungo del mondo,
Dice di coltivare poesia
È il frutto della penetrazione del nozionismo che ho studiato per scolpire la mia roccia ignuda e volgare, spigolosa e stolta
Ruvido ammasso,
in divenire migliore
per i miei cari
E dissero,
i diavoli
che abitavano la mia carne; mai sarai cavaliere.
E li trafissi uno per uno, con la picca solare del mio cuore.

La paralisi e la decadenza di tutti i movimenti spirituali è stata sempre, invero, l’avvento dei rigorosi custodi della forma, ossia dei portatori della serie di nozioni, norme, regolette e analisi prefabbricate dell’insegnamento, tendente a sostituire l’atto dello spirito, anzi a escludere come pericolosa la libera creatività.”
(Massimo Scaligero, Dallo yoga alla rosacroce)

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